martedì 22 dicembre 2009

Riforme: perché sì al dialogo

A siglare un patto col diavolo si perde l’innocenza. Ma non vedo il motivo di ignorare i benefici che se ne ricavano, visto che per convincerci a cedergli l’anima il diavolo dovrà pur dimostrarsi in grado di soddisfare il desiderio a cui maggiormente teniamo. Altrimenti il patto non si fa o decade. Certo, saranno benefici provvisori e controversi. E, tuttavia, c’è qualcosa in politica che non sia provvisorio e controverso? Insomma, non riesco proprio a capire la levata di scudi da parte degli irredentisti contro l’apertura al dialogo sulle riforme. Tanto più che a sinistra abbiamo una lunga tradizione favorevole al compromesso, avviata da Togliatti e proseguita con Berlinguer.

Si obietterà: ma non è un dialogo alla pari! Vero. Ma non lo era neppure quando il dialogo era con la DC. Oppure si potrà osservare: ma gli italiani non capirebbero, sono altri i problemi che devono affrontare quotidianamente, le questioni istituzionali che si vogliono riformare si collocano oltre il loro orizzonte, addirittura su un pianeta remoto, incomprensibile e difficile da sondare, perché richiede competenze altamente specialistiche che solo una minoranza degli stessi parlamentari possiede. Anche questo è vero, ma non è un’obiezione pertinente, perché proprio una “macchina” un po’ meglio funzionante e oleata consentirebbe di affrontare con una certa efficacia quei problemi su cui si concentrano le preoccupazioni degli italiani e che ora rimangono fuori della nostra portata.

Si potrà anche dire: ma noi sappiamo cosa, dietro la facciata delle riforme, ci chiede Berlusconi (restituire linfa a una legislatura esangue, garantendogli la momentanea immunità dai processi in corso contro di lui), non sappiamo cosa vuole invece il PD e cioè che cosa pone sul tavolo delle trattative, cosa intende guadagnare dal dialogo. È l’obiezione “riformista” mossa da Stefano Menichini su «Europa», molto diversa da quella “irredentista” del partito di «Repubblica». Ed è l’unica obiezione fatta sinora che vale la pena di prendere sul serio.

Non tocca a me dare una risposta. Tocca al PD, tocca a Bersani. Io mi limito a due osservazioni. Primo: se il prezzo che ci chiede Berlusconi è l’immunità, non c’è ragione di tirarsi indietro, lo si può pagare chiedendo in cambio una “merce” che valga quel prezzo. Molto peggio lasciare che, per difendersi, il Cavaliere dia un colpo mortale al sistema giudiziario, come avverrebbe qualora fosse approvato il cosiddetto “processo breve”, che è in realtà una prescrizione anticipata.

Secondo: Menichini sa bene che sulle cosiddette riforme c’è un confronto aperto da tempo e che su molte questioni (funzioni e poteri dell’esecutivo, elezione diretta del premier o sistema parlamentare, separazione delle carriere sì o no, proporzionale o maggioritario, ecc.) ci sono posizioni trasversali, non omogenee a questo o quell’altro fronte. Se non apriamo il dialogo su questi temi, su quali dovremmo farlo?

martedì 17 novembre 2009

Il conservatorismo non abita più a destra


Nel secondo libro della Politica, Aristotele affronta una questione che oggi suonerebbe ingenua a molte orecchie di destra e di sinistra. In sostanza, si chiede il filosofo stagirita: «È dannoso o giovevole agli stati mutare le leggi tradizionali, quando ce ne siano altre migliori?» La risposta sembrerebbe scontata: certamente è giovevole. Tanto più che, come riconosce lo stesso autore, «tutti cercano non quel che è tradizionale, ma quel che è bene». Ma, subito dopo, Aristotele osserva che «per chi esamina la cosa da un altro punto di vista, il cambiamento sembra richiedere molta cautela».

giovedì 5 novembre 2009

I pezzi del PD


Il Pd perde un altro pezzo. Dopo la vittoria di Bersani alle primarie, anche Massimo Calearo – capolista nella circoscrizione Veneto 1 alle scorse politiche per volere di Veltroni – annuncia infatti il suo addio. E si giustifica: «Io di sinistra non lo sono mai stato.» Ma sbaglia oggi il PD a guardare a sinistra, come ritengono pure Cacciari e Rutelli, o ha sbagliato prima imbarcando outsider della politica che poco o nulla avevano da spartire con i suoi presupposti?

mercoledì 28 ottobre 2009

Nuvoletti: il PCI in vacanza

Alla fine degli anni Settanta, Capalbio è già «un posto pieno di comunisti», che vi trascorrono le vacanze assieme a «mezza aristocrazia milanese che possiede tutta la costa». Tuttavia questo «delizioso accidenti di paesino medievale» a sud della Toscana non è ancora stato preso di mira né dai vip né dai flash dei fotoreporter né dalle folle di turisti che vi si sarebbero riversati negli anni a venire. Conservava anzi un suo aspetto selvatico, «molto folk», punteggiato dalla presenza dei cinghiali: «una pizza mortale» per una ragazza dell’età di Libera, protagonista di L’era del cinghiale rosso di Giovanna Nuvoletti (Fazi Editore, pp. 278, euro 18,50).

Quando arriva a Capalbio per la prima volta nel ’77, Libera ha appena tredici anni e non trova «niente di che» nel «passare le serate al ristorante a mangiar salsicce di cinghiale coi comunisti» o nell’andare a vedere un Roberto Benigni ancora pressoché ignoto che gira Il comizio: anzi, fa spallucce, risale sul motorino, e se ne va per la sua strada. Ha ben altro per la testa: ha voglia di consacrarsi alla sua vitalità giovanile, desiderosa di nutrirsi di musica, amori, balli, svaghi. Proprio tale vitalità è all’origine di una diffidenza critica verso il clericalismo comunista che, con l’età della ragione, acquisterà un diverso spessore, traducendosi in un anticonformismo liberale o meglio libertario, a volte scanzonato e a volte crudelmente tranchant.

L’era del cinghiale rosso è un originale romanzo storico che racconta le vicende della sinistra italiana e del nostro Paese secondo un punto di vista programmaticamente defilato e parziale: quello di una figura femminile caratterizzata da un misto di istintualità e problematismo critico che, a dispetto delle difficoltà economiche, ha il privilegio di conoscere da vicino alcuni dei massimi protagonisti della cultura e della politica italiana tra prima e seconda Repubblica: Alberto Asor Rosa, Giacomo Marramao, Carlo Muscetta, Philippe Daverio, Aldo Tortorella, Achille Occhetto, Claudio Petruccioli, Enrico Manca, Giorgio La Malfa, Claudio Martelli, Chicco Testa, Francesco Rutelli, e tanti, tantissimi altri.

Sotto questo profilo, L’era del cinghiale rosso forma col precedente Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più una sorta di dittico letteriario. Gli elementi di consonanza tematica e compositiva sono infatti più che evidenti: il mare, le vacanze, i vip, il taglio degli episodi, la tensione antiromanzesca... Nondimeno, se i Gamberi si distinguono per la maggiore complessità espressiva e strutturale (al tema storico si intreccia qui quello privato-esistenziale, legato al suicidio materno), L’era del cinghiale rosso si presenta come un romanzo più compatto, linguisticamente sciolto e divertito, ricco di autoironia: Libera si prende difatti la liceità di ritrarre la stessa Nuvoletti, senza peraltro farle troppi sconti, anzi!

Ma cosa rimprovera la protagonista-narratrice ai comunisti? Sostanzialmente, di essere comunisti o – il che è lo stesso – di non essere liberali. La contrapposizione è spesso netta: «L’attività principale di buona parte degli intellettuali era prendersela con la centrale nucleare di Montalto, che mai nacque», mentre lei, Libera, al nucleare è «sempre stata favorevole». E quando a Capalbio fa capolino Toni Negri «per abbracciare Alberto Asor Rosa», la ragazza non ha mezzi termini: pur avendo «sempre nutrito un certo affetto» per i radicali, lei il professore di Padova non lo avrebbe mai candidato. Ma soprattutto, quando Pietro Ingrao in TV afferma che l’invasione della Cecoslovacchia fu un errore, sbotta: «Un errore? Arrossii e gridai: “Quale errore? Un crimine!”» E, molto più avanti, alla presentazione di un libro contro i sindacati, ammette candidamente: «Io gongolo: li odio» [i sindacati].

Tuttavia il giudizio poco alla volta si fa più sfaccettato. Come tanti liberali e non comunisti italiani, anche Libera comincia ad «afferrare il concetto di diritti, di uguaglianza». La precisazione è d’obbligo: «Non i paroloni vuoti della retorica marxista. Un’altra cosa, diversa. La vita delle persone. Noi liberali abbiamo grande rispetto dell’individuo.» Ma il passo è compiuto. D’altra parte, è proprio il «rispetto dell’individuo» a portarla progressivamente a spostare la sua verve polemica contro altri obiettivi: i giornali che raccontano il falso su Capalbio e il turismo di massa che va trasformando il volto di questa cittadina medievale.

Ed è difficile resistere alla tentazione di dare a queste pagine un valore metonimico. Come dire: se il giornalismo nell’era della democrazia mediatica restituisce un’immagine interessata degli eventi mondani della piccola Atene perché dovrebbe fare diversamente quando racconta i più importanti eventi politici della nazione? Alla fine del romanzo quella che rimane è un’impressione di sconfitta, che sembra accomunare tanto la tradizione comunista quanto quella liberale: entrambe soccombono infatti di fronte al medesimo destino, entrambe si dimostrano inadeguate a difendere le ragione dell’umanesimo di fronte all’avanzare della spersonalizzazione propria della contemporanea società dei consumi e dell’apparire.

giovedì 22 ottobre 2009

Perché voto Bersani

Domenica 25 ottobre, mi recherò ai seggi per le primarie del PD, e voterò Pierluigi Bersani. Lo farò sebbene, in questi primi due anni di vita del partito, non sia mai stato molto tenero nei suoi confronti. Anzi! Ho severamente criticato la confusione che è alla sua origine, la contraddittoria e spesso incomprensibile politica veltroniana, la colpevole accondiscendenza al forcaiolismo di Di Pietro, l’eccessivo asservimento di Franceschini ai dettami di Largo Fochetti e l’inattività di questi ultimi mesi a cui il PD è stato condannato da un iter congressuale più che perverso che lo ha costretto a star ripiegato sul proprio ombelico impedendogli anche soltanto di prender atto della trasformazione dell’equilibrio delle forze politiche che intanto avveniva sotto i suoi sonnolenti occhi.

Perché allora vado a votare, e perché voto Bersani? Per due ragioni. La prima è che una democrazia liberale ha bisogno di una dialettica fra maggioranza e opposizione, e quando questa non c’è o si indebolisce abbiamo l’obbligo di preoccuparci e di correre ai ripari. Ne va della stabilità della politica e degli stessi fondamenti della democrazia liberale. La seconda ragione è che Bersani mostra di aver compreso i motivi che sono alla base delle difficoltà del suo partito (che in quattordici mesi ha perso quattro milioni di elettori!), e prova ad abbozzare un piano di rilancio.

I suoi meriti mi sono chiari: è un uomo che sa ragionare, non parla per slogan, non ha tentazioni giustizialistiche, non concede nulla a quella retorica del nuovo tanto gradita ai suoi colleghi che a me pare invece un indice di scarsa padronanza della storia recente e remota. E, soprattutto, è un uomo che sa raccogliere quanto di valido ci ha lasciato in eredità la migliore tradizione della sinistra europea, quella liberale e quella socialista.

Ce la farà a restituire vigore e credibilità al PD? Non lo so. Non coltivo molte illusioni. Quello che Bersani si trova a guidare è un partito litigioso, soffocato per giunta da una struttura al contempo indisciplinata e iperburocratizzata: un ircocervo. Tuttavia mi pare che, a differenza di altri, tenga lo sguardo dritto verso l’orizzonte. Pensa a un’Italia postberlusconiana e post-antiberlusconiana: una Terza Repubblica che per il momento possiamo intravedere solo nebulosamente, ma di cui pure abbiamo un’urgenza sempre più pressante. Pena, il declassamento politico ed economico del nostro Paese.

domenica 11 ottobre 2009

Congresso PD. E se fosse utile fare un passo indietro?

Nel discorso alla convenzione nazionale del PD all’Hotel Marriott di Roma, Dario Franceschini è tornato a ripetere il suo mantra: «Indietro non si torna.» E perché no? È una legge controproducente. Quando ci si accorge di essere finiti in un vicolo cieco, non resta altro da fare. Tuttavia meglio intendersi. Non si innesca la retromarcia per tornare a casa, bensì per ritornare all’ultimo incrocio e imboccare la strada giusta che ci porti a destinazione. Anche in montagna si fa così: per conquistare una vetta, tocca a volte dover scendere di qualche metro. Piuttosto, dal momento che procediamo a passo d’uomo, avrebbe potuto esser saggio fermarci un istante a chiederci qual è la destinazione che vogliamo raggiungere, giacché tanto gli iscritti quanto gli elettori ci fanno sapere che le nostre intenzioni non le hanno mica ben capite. (Il congresso sarebbe stato più utile. Invece Fassino ci ha spiegato che serviva solo per selezionare chi passava alle primarie!)

Ma accontentiamoci del tema all’ordine del giorno. Dunque, secondo Franceschini, da cosa non dovremmo tornare indietro, e verso cosa non si dovrebbe tornare? Gli oggetti del contendere sono sostanzialmente due, ma ve n’è un terzo nascosto, ancor più importante. 1) Non si torna indietro dalla semplificazione dei partiti, e quindi non si torna all’Ulivo. 2) Non si torna indietro dal bipolarismo, e quindi non si torna al sistema pluricentrico della prima Repubblica.

In pillole, questo è ciò che dice Franceschini. Entrambe le coppie di affermazioni godono oggi di un grosso appeal, peraltro bipartisan. Ma entrambe tradiscono una buona dose di astrattismo. Proviamo a sintetizzare.

1) Sì, la semplificazione dei partiti è stato un buono scopo, finora però non ha dato buoni risultati: il sistema politico italiano è avvelenato quanto lo era prima. Anzi, la conflittualità tra i due fronti e all’interno di ciascun fronte, anziché diminuire, è persino cresciuta. È vero, questo non vuol dire che la semplificazione fosse sbagliata, vuol dire però che quanto meno è avvenuta nel modo sbagliato. Sarebbe utile allora che il PD riflettesse su come si possano correggere gli effetti negativi non desiderati che la semplificazione ha avuto sulla battaglia politica in Italia. (Per esempio, cosa intende fare il PD con l'Italia dei Valori?)

2) A differenza di Franceschini e dei suoi, non sarei così severo nel giudizio sull’Ulivo. Certo, il suo scopo – riunire la sinistra attorno a una piattaforma programmatica che costringesse anche le forze movimentiste a uniformarsi a una politica di governo – è fallito, perché non è riuscito ad avere i numeri sufficienti in Parlamento (se nel 2006 avessimo avuto una dozzina di seggi in più al senato, avremmo potuto facilmente spuntare le armi dei nanetti che difendono una rendita di posizione). Però non si può ignorare che la fine dell’Ulivo ha portato all’irrobustimento di una forza radicale e giustizialista come quella di Di Pietro ben più preoccupante del radicalismo di origine comunista che un uomo come Bertinotti riusciva bene o male a mitigare. Ne terrei conto nella valutazione dei fatti.

3) Il bipolarismo in sé non è né una cosa buona né una cosa cattiva. Dipende dai contenuti. Perché dovremmo difenderlo a priori? Non si capisce. D’altra parte, la costituzione di un Centro (grande o piccolo) che aspira a fare da ago dalla bilancia non dipende da noi. Inutile sostenere che non dovremmo favorirlo. Le sue fortune o sfortune dipendono solo dalla volontà degli elettori.

4) Ma, soprattutto, siamo così sicuri che la seconda Repubblica sia tanto meglio della prima. Personalmente, sono convinto dell’opposto. Ed è proprio il clima avvelenato che respiriamo dal 1994 che mi preoccupa. Ora, quello che dobbiamo domandarci è questo: il clima politico in Italia è avvelenato per colpa di Berlusconi che con la sua condotta rende vani i vantaggi del bipolarismo oppure è avvelenato a causa di un bipolarismo astratto che costringe i competitors a comportarsi come se fossimo perennemente in campagna elettorale? Nel primo caso, una Terza Repubblica ventura potrà essere felicemente bipolare. Nel secondo caso, c’è da augurarsi che Casini e Montezemolo realizzino in fretta quello che hanno promesso.

Nelle affermazioni di Franceschini c’è però anche una questione nascosta che il PD non lascia affiorare volentieri. È la questione del presidenzialismo. In effetti, la struttura che il PD si è dato sinora avrebbe senso unicamente in un sistema presidenziale che favorisca un rapporto diretto (o almeno poco mediato) fra eletto ed elettore. La stessa idea di forma del partito che Franceschini ha in mente (e che condivide con Veltroni, seppure con qualche aggiustamento) va appunto in questa direzione, anche se ciò non viene detto in modo esplicito.

Naturalmente, è un presidenzialismo all’israeliana (già affiorato alla fine degli anni Novanta). In sostanza, quello verso cui muove nei fatti il PD di Franceschini è un sistema che preveda l’elezione diretta del presidente del Consiglio (anche le primarie per la scelta del segretario hanno senso soltanto in questo contesto). Lo stesso obiettivo di Berlusconi, il quale anche oggi ha ripetuto di essere legittimato a governare perché eletto dal popolo (il che è falso, finché siamo in un sistema parlamentare).

È lecita una svolta in senso presidenziale? Certo, purché prima la si discuta e sia approvata. È anche utile? Ne dubito. Anzi, a me sembra che l’elezione diretta del leader (di partito o di governo) finisca in Italia col nutrire i germi degenerativi della democrazia, e cioè con l’incoraggiare una conflittualità demagogica ad alto tasso di personalismo che taglia fuori il dibattito sulle idee e sulle reali proposte politiche alternative.

Il logorante iter che il PD ha scelto per eleggere il proprio segretario è un esempio di questo rischio di deriva demagogico-burocratica. Almeno su questo punto, io tornerei indietro senza esitazioni.

lunedì 28 settembre 2009

Bersani: vince il realismo

I congressi dei circoli del PD si avviano a conclusione senza troppe sorprese. E si può forse abbozzare un primo bilancio, sia pure molto provvisorio. Andando in giro per il sud-ovest di Milano a presentare la mozione di Pierluigi Bersani, ho riscontrato una passione condivisa, resistente alla sconfitta, alle delusioni e allo scetticismo. (Quando dico condivisa intendo dire indipendentemente dalle preferenze manifestate per questo o quell’altro candidato.)

Intendiamoci. È la passione disincantata di chi è conscio dei limiti che hanno frenato l’operato del partito nei suoi primi due anni di vita, ed è per questo restio ad abbandonarsi alle facili illusioni che avevano accompagnato invece le primarie veltroniane del 2007. Ma è una passione informata (dagli interventi affiorava una lettura attenta delle mozioni) che lascia ben sperare. Perché indica un attaccamento al progetto del PD e una perdurante disponibilità a sacrificare il proprio tempo libero per il progresso del Paese.

D’altra parte, il disincanto è un positivissimo segno di realismo. E, appunto, interpreterei il consenso accordato a Bersani anzitutto come invito a tornare a una sana politica realistica, senza la quale non potremmo aspirare a tornare al governo. A scanso di equivoci, voglio precisare che non ho percepito alcuna tentazione di restaurazione ideologica o nostalgia per il passato diessino o comunista. La richiesta era più specifica: è stata una buona idea riunire i riformismi, però ora diamoci un’organizzazione, coordiniamo meglio i nostri sforzi e, soprattutto, definiamo con maggiore chiarezza le nostre priorità così da correggere quella confusione che ha disorientato i nostri elettori. Questo era il messaggio.

Se l’interpretazione è corretta, a risultare sconfitta è la versione presidenziale (americana) del partito, sostenuta da Veltroni e condivisa da Franceschini con pochi distinguo. Il partito liquido, leggero, che ostenta la sua apertura alla società civile ma in realtà si chiude in un burocratismo castale che ai simpatizzanti riconosce solo la partecipazione passiva degli spettatori. Lo confermano le candidature per le politiche e le europee, nonché le stesse primarie concepite come strumento di propaganda o sistema di ratifica delle decisioni già prese ai vertici, secondo i classici schemi della diplomazia.

Rimane un difetto di fondo: l’estenuante lunghezza di un iter congressuale ai limiti dell’irrazionalità che da mesi rallenta l’iniziativa del PD, impedendogli di contrastare efficacemente l’azione del governo, in un periodo peraltro di fortissima fibrillazione.

giovedì 27 agosto 2009

I comunisti di Gaber e gli elettori del PD

In uno dei suoi più celebri testi fra monologo teatrale e canzone d’autore, Giorgio Gaber elenca gli eterogenei motivi per cui tanti italiani furono comunisti senza essere ideologicamente comunisti. L’elenco, naturalmente aperto, spazia fra ragioni accidentali («qualcuno era comunista perché era nato in Emilia»), ragioni emotive («si sentiva solo»), ragioni sociali («non ne poteva più di fare l’operaio»), ragioni politiche («non ne poteva più di quarant’anni di governi viscidi e ruffiani»), ragioni ribellistiche («per fare rabbia a suo padre»), ragioni etiche («pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri»).

Nella sua amara ironia, Gaber non nasconde le distorsioni del totalitarismo comunista : «Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin.» Oppure: «Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio». Fu appunto quella vocazione totalitaria all’origine dei silenzi del PCI sui fatti d’Ungheria del 1956 o sull’invasione sovietica di Praga nel 1968.

Tuttavia, a dispetto della sua vocazione totalitaria, il PCI riuscì a raccogliere attorno a sé masse di elettori che non avevano nulla da spartire con gli ottusi e trinariciuti figuri meritatamente sbeffeggiati da Giovannino Guareschi. Quelle masse erano costituite appunto dai comunisti di Gaber. Ed è a loro che il PCI fu debitore della sua forza (una forza che gli permise di sopravvivere alla precoce quanto salutare irrilevanza degli altri partiti comunisti dell’Occidente). Perché i comunisti-comunisti – gli ortodossi – erano un gruppetto minoritario anche da noi. Da soli potevano bensì conquistare il comune di Brescello. Ma persino la rossa Emilia se la sarebbero sognata.

Ma perché quelle masse di elettori riponevano le proprie speranze nel PCI anziché nelle forze che più coerentemente discendevano dalla tradizione liberale e democratica dell’Occidente? Che cosa trovavano in quel partito che non trovavano altrove? E perché il PD non riesce a esercitare un campo magnetico dai confini altrettanto ampi? Cosa gli manca?

Anch’io sono stato comunista. Senza essere ideologicamente comunista. Lo divenni tardi, all’università, dopo che la mia formazione politica si era già conclusa: una formazione libresca, fondata anzitutto sui testi di Norberto Bobbio e di Friedrich Nietzsche, quanto di più lontano vi potesse essere dalla tradizione comunista. Né, forse, mi sarei iscritto al partito comunista se Bobbio non avesse scelto proprio il PCI come suo interlocutore privilegiato. E loro, i comunisti-comunisti, gli rispondevano (bisogna dire che possedevano anche le doti intellettuali per rispondergli). E nel momento in cui un partito comunista accetta il dialogo, il suo totalitarismo si è già bello che incrinato.

Intendiamoci. Non ho nessuna nostalgia del PCI. Proprio nessuna. Ho brindato al suo funerale. Mi manca però quello che il PCI ha rappresentato. Se mi è permesso dirlo un po' grossolanamente, erano quattro le qualità che vi trovavo e che non ritrovo nel PD.

1) Un’organizzazione, e cioè una capacità di armonizzare i mezzi in vista degli scopi. Certo, lo scopo ultimo era la società senza classi. Ma quello che interessava a noi, i comunisti di Gaber, era lo scopo intermedio: il miglioramento delle condizioni sociali per tutti, qui, ora, nella democrazia borghese, utilizzando gli spazi della democrazia borghese. Questo ci bastava, perché per chi è stato comunista senza essere comunista non esiste scopo a questo superiore.

2) Un partito di massa, e cioè un partito interclassista che si sforzava di conciliare gli interessi di ceti sociali difformi, e per ciò era costretto a darsi una politica nazionale.

3) Un senso della storia, che per la prima volta rendeva milioni di italiani partecipi del destino del Paese, proiettandoli in un divenire, e cioè in una trascendenza, in un superamento del presente e di se stessi. Questo è qualcosa di difficile da comprendere oggi, nell’era della democrazia mediatica, dove tutti possono salire sul palcoscenico e avere il loro quarto d’ora di (mistificante) gloria. Ma quello che sto affermando qui non ha niente a che vedere con le melensaggini da rotocalco del Noi veltroniano.

4) Un orgoglio di essere. L’ho provato anch’io l’orgoglio comunista. L’ho provato anche se, avendo la facoltà di viaggiare nello spazio-tempo, sarei tornato senza pensarci due volte a Livorno nel gennaio 1921 e avrei cancellato con un colpo di spugna il congresso che divise il partito socialista dando vita al Partito Comunista d’Italia. L’ho provato anch’io, perché quell’orgoglio comunista, al di là di tutto, era alimentato da una straordinaria vivacità culturale e politica. Ma non vi è alcun ragionevole motivo per provare orgoglio di stare nel PD. Io conservo l’orgoglio della mia cultura, della mia identità: sono un liberalsocialista che, come un tempo ha scelto il PCI, oggi ha scelto come strumento questo nuovo partito. Ma non sono orgoglioso del PD.

Bersani è stato un coraggioso ministro. Sarà anche un bravo segretario? Non lo sappiamo. Vedremo. Ha il merito di aver formulato la prima proposta seria venuta da un esponente piddino: una no tax area per incoraggiare gli investimenti. È una proposta liberale, va nella direzione giusta. Ma Bersani non eredita un partito, eredita un mucchietto di ceneri. Non tanto per i numeri (il 26% dei consensi è un patrimonio che nessuno può snobbare). Bensì per il vuoto organizzativo-culturale che lo attornia: il PD è nato dalla disperazione, non da un atto di creatività.

Ma, se Bersani ci permette, gli offriamo un suggerimento: la riascolti ogni tanto, quella canzone di Giorgio Gaber. È meno accattivante dei suoni del suo corregionale Vasco Rossi, costruita com’è sull’understatement. Forse però può contribuire a ispirargli la strada giusta da percorrere per costruire un partito di massa in grado di riallacciare i rapporti con larghe fasce di elettorato: i figli dei comunisti di Gaber. E pure i loro padri. Perché noi siamo ancora qui. Siamo vivi e votiamo.

martedì 25 agosto 2009

PD: impariamo da Arrigo Sacchi

Se quello del PD fosse un congresso «vero» come sostiene Rosy Bindi («L’Unità», 24 agosto), avremmo dovuto vederne gli effetti già da tempo. E cioè avremmo visto i tre candidati alla segreteria – o almeno i due che contano – suonarsele di santa ragione, polemizzare anche sul piano personale (qualche colpo sotto la cinta scappa quando si è animati dalla passione), ma poi fare a gara per lanciare proposte e produrre idee.

Non è questo lo spettacolo a cui stiamo assistendo. Il pallone lo hanno sempre loro: noi subiamo, facciamo catenaccio, ci arrocchiamo in difesa. Tutt’al più protestiamo verso le tribune. Ma neppure ci sogniamo di provare a prendere l’avversario in contropiede o a impadronirci del gioco. La figurina di Arrigo Sacchi nel nostro album di famiglia non c’è.

Per tutto agosto, la Lega ha tenuto banco, venendosene fuori un giorno sì e l’altro no con una nuova trovata, pittoresca e strumentale quanto si vuole, però utile ad assicurare al partito di Bossi almeno tre risultati positivi: conquistare le prime pagine dei quotidiani, recapitare un messaggio al parente-serpente del PDL notificandogli che la Lega ce l’ha «duro» come alle origini e alle regionali intende monetizzare il successo conseguito a giugno, infine riscaldare il rapporto con il suo elettorato (che non è proprio una cosa di secondaria importanza in politica).

Sulle pagine dell’«Unità», Roberto Cotroneo ha sudato sette camicie per tener botta ai trinariciuti padani, riscoprendo quell’animosità giovanile che lo aveva fatto apprezzare sotto le mentite spoglie di Mamurio Lancillotto. Non uno della direzione piddina invece che abbia accennato un tentativo di togliere il microfono a Bossi & Co e spostare l’attenzione sul nostro terreno. Non uno!

Semifinite le ferie, sono stati i radicali a denunciare l’inopportunità della visita del presidente del Consiglio in Libia con seguito di Frecce Tricolore. Noi, di nuovo, silenzio. Intanto della polemica si è appropriato lo stesso centrodestra, e oggi i due giornali governativi sono usciti con un paio di editoriali di opposto indirizzo: Vittorio Feltri sul «Giornale» patrocina la scelta di Berlusconi appellandosi a ragioni di Realpolitik («chiunque capisce che la collaborazione con il Colonnello, piaccia o no, è indispensabile; quindi non ci è consentito assumere atteggiamenti ostili verso di lui»), Maurizio Belpietro su «Libero» suggerisce al contrario di rinunciarvi propugnando la superiorità dei principi ideali sulla convenienza politico-economica («anche se c’è una ragion politica che spinge ad imbarcarsi per quel viaggio, c’è una ragion morale che porta da un’altra parte, ovvero lontano dalle tende beduine del capo della Jamayria»).

Questa dialettica interna al centrodestra non stupisce. Meglio, non ci stupisce più. Perché ogni giorno che passa ce ne viene data testimonianza. Senza attribuire ai due neodirettori intenti che non hanno espresso (a nessuno dei due si addicono i panni del frondista), nondimeno dobbiamo riconoscere che, ahinoi, è dal centrodestra che spesso sorgono gli spunti critici più interessanti verso il presidente del Consiglio. Anzi, diciamola tutta: il centrodestra si sta preparando alla Terza Repubblica (prossima o remota che sia), e cioè a un’Italia post-berlusconiana e post-antiberlusconiana, di gran lunga meglio di noi. E di questo non ci rallegriamo affatto.

All’iniziativa a corrente alternata del PDL e della Lega, noi reagiamo con appelli alla più generica e innocua retorica resistenzialistica: «Il Pd ha il dovere di alzare la voce contro il rischio di un nuovo autoritarismo», ha dichiarato Dario Franceschini, uscendo provvisoriamente dalla naftalina. Una parola sulla Libia, però, si è ben guardato dal pronunciarla. Si accontenta della petizione di principio, lui.

In alternativa, ce ne veniamo fuori con proposte off topic. «Proponiamo una regola semplice e concreta», leggiamo ancora sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci, «che si può applicare ad ogni elezione nazionale, locale ed europea: il 2+3. Ogni lista elettorale del PD dovrà avere una donna ogni secondo posto e un giovane (inteso come under 40) ogni terzo. Per evitare che donne e giovani finiscano, com’è tipico, in fondo alle liste, uomini e donne si dovranno alternare e ogni terzo posto dovrà essere occupato da un/a candidato/a under 40.» Proposta semplice e concreta? A me pare cervellotica e pensata apposta per burocratizzare ulteriormente un partito già iperburocratizzato.

Ma, va bene, si può parlare anche di regolamenti elettorali. Almeno però facciamolo a tempo debito. Intanto vogliamo prendere in mano l’ordine del giorno e provare a fare qualche controproposta sui «grandi» temi? È su quelli che ci giochiamo il nostro già alquanto incerto destino. L’idea di creare una no tax area per favorire nuovi investimenti è la prima cosa buona che abbiamo sentito. Cavalchiamola, traduciamola in volgare.

In un intelligente articolo apparso sul «Riformista», Enrico Morando si è chiesto: Il Pd sa perché gli italiani non lo votano? Ma la domanda andrebbe rivoltata: il PD sa dire agli italiani per quale ragione votarlo? Io sinceramente no. Non ricordo neppure più perché ho aderito a questo partito. Forse per via delle amicizie, forse per disperazione, forse perché mi illudevo che potesse essere quantomeno uno strumento. Non uno scopo (i miei scopi non li ho cambiati, non ho motivo di cambiarli: sono quelli di un liberalismo socialista). Uno strumento. Se tuttavia non riesce a essere neppure questo…

domenica 9 agosto 2009

Fini: barra al centro

Gianfranco Fini ci ha dato già tante prove di indipendenza intellettuale e politica. Non sorprendono dunque le due dichiarazioni rilasciate ieri in Belgio: sull’immigrazione clandestina («Il lavoratore va rispettato anche se non ha les papiers, i documenti») e sulla richiesta che il Parlamento si occupi della Ru 486, la pillola abortiva («Trovo originale pretendere che il Parlamento si debba pronunciare sull’efficacia di un farmaco. Ognuno ha le sue opinioni, anche io ho la mia, ma non è oggetto di dibattito politico. Poi ci sono le linee guida del governo, si è pronunciata l’Agenzia del farmaco, non vedo cosa c’entri il Parlamento»).

Sono dichiarazioni in sintonia con un’evoluzione di lunga data. La seconda è anche una onorevole manifestazione di laicismo. Il presidente della Camera non specifica infatti se è favorevole o contrario alla pillola, precisa di avere la sua opinione ma non dice quale, perché la ritiene cosa ininfluente. Questa materia «non è oggetto di dibattito politico». Chapeau.

Il senso di equilibrio che affiora dalle dichiarazioni finiane risalta ancor più dopo la conferenza stampa di due giorni fa di Berlusconi improntata a un populismo autoritario e di fronte alla sguaiata reazione di Bossi che alle osservazioni dell’ex leader di AN sull’immigrazione italiana ha replicato: «Noi andavamo a lavorare non ad ammazzare la gente». Una frase doppiamente deprecabile. Primo perché la contrapposizione lascia intendere che invece questi (gli immigrati in Italia) verrebbero apposta per delinquere. Secondo perché il senatúr nasconde una verità spiacevole: se soltanto leggesse un po’ o andasse al cinema saprebbe che noi siamo stati generosi esportatori del crimine negli States oltre che efficaci contrabbandieri nel Vecchio Continente. A meno che per Bossi quel «noi» non voglia dire noi italiani, bensì noi della mia provincia, del mio campanile, del mio condominio. L’uomo brilla per ristrettezza di vedute.

Ma, appunto, le polemiche del weekend innescate dalle affermazioni di Fini confermano un dato di fatto che spesso sfugge agli osservatori, soprattutto di sinistra: il centrodestra è tutt’altro che un fronte monolitico. Al suo interno, vi è anche una variegata area autenticamente riformista (rappresentata non solo da Fini), che sia pure in minoranza non esita a intervenire a difesa dei principi cardine della convivenza umana. Può darsi che sia vero quello che sostiene Tremonti, e cioè che l’Italia è un paese «sostanzialmente di destra». Ma c’è destra e destra. E ne abbiamo prova ogni giorno.

La domanda da porsi è piuttosto quanto sia vasta questa area riformista della destra italiana. In sostanza: qual è il consenso elettorale di Fini? Quanta forza possiede? In un futuro postberlusconiano (arrivi prima o dopo la scadenza naturale della legislatura), sarebbe in grado di tenere unito il PDL? Quanti ex colonnelli di AN e quanti fedeli servitori del Sultano sarebbero disposti a seguirlo? E che rapporti sarebbe in grado di intrattenere con l’attuale alleato di governo, la Lega?

Domande premature per un osservatore esterno (chi scrive queste note appartiene a un’altra tradizione, quella liberalsocialista), cui per ora non è possibile dare risposta. Ma è impensabile che il presidente della Camera non se le ponga. E ciò perché, comunque le si valuti, le sue non sono uscite estemporanee. Sono mosse che sottendono un disegno visionario, di prospettiva (come si diceva un tempo), che probabilmente va chiarendosi poco alla volta nella sua testa, un disegno non ancora compiutamente definito.

È lecito pure chiedersi, come è stato fatto (seriamente o no), se Fini sia ancora di destra o non sia diventato qualcosa d’altro. L’impressione è che il cammino intrapreso lo abbia fatto approdare su posizioni liberaldemocratiche più consone al centro, punto di convergenza di tutte le esperienze postideologiche. Al di là dei differenti accenti, nella sostanza infatti sono liberaldemocratici tanto Sarkozy quanto Zapatero o il New Labour, e in Italia tanto l’Udc quanto il PD.

Il rischio, per quanto riguarda il nostro Paese, è che ci sia un eccessivo affollamento in questo centro politico ma anche sociale. Destinatari elettivi del messaggio finiano sono difatti le fasce moderate dei ceti medi, le stesse a cui si indirizzano Casini e i tre candidati alla segreteria piddina. C’è quasi un’ossessione da parte degli interpreti più intelligenti dell’era postideologica a prendere le distanze dalle rispettive ali dello spettro politico (la destra-destra e la sinistra-sinistra) e, sul piano sociale, dai ceti popolari. Proprio l’elettorato in cui affondano le radici il berlusconismo e la Lega. E, chissà, forse il segreto del loro successo (deleterio per l’Italia) è proprio questo.

sabato 8 agosto 2009

Berlusconi e il caso Rai: l'assedio dell'assediato

Alla conferenza stampa di ieri a Palazzo Chigi sul consuntivo dei primi quattordici mesi di attività del governo, Silvio Berlusconi avrebbe potuto limitarsi a fare il suo one man show, come altre volte ha fatto nel salotto amico di Vespa. E scansare le domande dei giornalisti, rispondendo in modo vago senza perdere il controllo di sé (erano del resto domande prevedibili, che sicuramente il presidente del Consiglio si aspettava). Giuseppe D’Avanzo su “Repubblica” non gli avrebbe risparmiato il suo editoriale, perché molte delle cose pronunciate in conferenza stampa sono platealmente false: non c’è nessuna pace sociale, le contestazioni da parte delle vittime del terrorismo in Abruzzo sono quotidiane, il prestigio dell’Italia nel mondo non è mai stato così basso e nessuno a livello internazionale riconosce al nostro premier il ruolo decisivo che si arroga.

Ma tant’è. La propaganda avrebbe funzionato: il TG1 e gli house organ di famiglia avrebbero riferito i contenuti dello show dedicandogli ampio spazio e facendo ben attenzione a evitare ogni spirito critico. Come sempre. Invece il Cavaliere dimezzato dagli scandali come il visconte calviniano non ha resistito, e ha dato fondo a un’aggressività ancor più ingiustificata dopo le nomine RAI dei giorni scorsi e l’annuncio dei complementari balletti nelle proprietà di famiglia. La conseguenza è che si è messo da solo dietro il banco degli imputati, e la notizia del giorno è: Berlusconi attacca la libertà di stampa. Un formidabile regalo a un centrosinistra quanto mai sonnacchioso e distratto dalle sue stanche beghe interne. Un regalo che ha restituito un po’ di linfa persino a un ectoplasma come Franceschini, non ancora rassegnato a finire sotto naftalina, come meriterebbe per aver negato la sconfitta elettorale di giugno con una faccia tosta pari a quella del suo avversario.

Perché lo ha fatto? Perché un uomo come il Cavaliere sempre attento ai meccanismi della comunicazione è caduto in un errore apparentemente così dilettantesco? Certo, non è la prima volta che gli capita di aggredire, ed è pur vero che qualche volta l’aggressione paga, nel suo caso ha pagato. Ma non è questo il momento per mostrare i muscoli. Se vuole risalire la china (nonostante i finti sondaggi, Berlusconi sa bene che qualcosa si è rotto nel suo rapporto con l’opinione pubblica, sa bene che persino una cospicua fetta del mondo cattolico gli è contro), il Cavaliere deve essere anzitutto rassicurante, mostrare il volto buono, stendere una mano pacificatrice. Proprio quello che non è stato e non ha fatto ieri a Palazzo Chigi.

Dunque perché? Perché tanta aggressività? Effetto di un egocentrismo smisurato che non tollera dissensi, come lascia intendere D’Avanzo? Può darsi. È possibile anche che giochi un ruolo il nervosismo che attanaglia vistosamente il premier dall’affaire Noemi in poi: un premier incapace di togliersi dallo stato di assedio in cui lo ha ficcato la sua esuberanza sessuale, un premier per giunta lasciato solo dai collaboratori più vicini, nessuno dei quali è intervenutio in suo soccorso, fatta eccezione per i soliti yesmen che sapranno senz’altro confortare il suo poderoso narcisismo ma che gli sono poco utili alla bisogna. E, anzi, con le gaffe che scaturiscono sempre dall’eccessiva prodigalità servilistica hanno rischiato di causargli più danni che altro.

Ma, considerata l’astuzia comunicativa del Cavaliere (il quale, com’è arcinoto, non lascia nulla al caso), non si può escludere che quell’aggressione sia almeno in parte ispirata anche da una sorta di calcolo tattico. Per dirla in modo molto spiccio: Berlusconi attacca perché ha interesse a essere attaccato. Se infatti l’antiberlusconismo ha bisogno del Cavaliere per rimanere unito e sopravvivere, il Cavaliere ha un maledetto bisogno dell’antiberlusconismo per rimanere saldamente in sella al suo fronte, la cui unità fin dal 1994 è sempre stata messa a repentaglio da potenti fenomeni sismici.

È un’esigenza divenuta ancor più prioritaria dopo giugno, con una Lega scalpitante che giorno dopo giorno conquista sempre più la scena mediatica con le sue spettacolari baggianate che possono far ridere i lettori ingenui ma impensieriscono gli stranavigati alleati, che sanno intravedere dietro quelle uscite strumentali lo scopo reale: far cassa, incamerare i frutti del recente doppio successo elettorale, strappare quote di potere al partito di maggioranza. Per questo, Berlusconi ha bisogno di un centrosinistra che sia debole ma non così tanto debole. Ha bisogno che i «comunisti» facciano ancora paura («non voglio immaginare che cosa sarebbe successo se ci fossero stati loro al posto mio», ha detto non a caso in conferenza stampa). Ha bisogno insomma di una rinnovata forma di consociativismo che consenta a lui di mettere a tacere gli amici-nemici interni e al PD di fronteggiare le derive movimentiste della sinistra allo sbando. L’uomo, ancorché dimezzato, è diabolicamente astuto (non sarebbe arrivato dov’è, se non lo fosse). Meglio non dimenticarlo.

mercoledì 22 luglio 2009

Tiziano Scarpa: il mondo salvato dalle parole

La sedicenne Cecilia, protagonista di Stabat Mater di Tiziano Scarpa, è stata allevata nella musica. Abbandonata ancora in fasce dalla madre davanti all’Ospitale della Pietà di Venezia, ha appreso qui a suonare il violino, dimostrando un talento naturale che sarà prontamente colto dal suo nuovo istruttore, don Antonio Vivaldi: «Io sono sempre immersa nella musica» confida nelle lettere che scrive di notte all’ignota madre. «Nella mia mente la musica non smette mai di risuonare.»

Proprio sotto la guida del grande compositore Cecilia imparerà a sondare per mezzo della musica l’ignoto che alberga dentro di lei e a prendere familiarità con ciò che la trascende, la Natura: «Sono stata tutto questo, burrasca, tempesta, tuoni, lampi, ho pianto nel sentirmi diventare tanta furia, oltrepassando me stessa. Mi sono commossa di potermi trasformare in così tanto.»

Si capisce che l’esperienza estetico-taumaturgica sia ancor più dirompente per un’adolescente come lei assuefatta a vivere in un microcosmo soffocato tra le mura dell’orfanotrofio, senza la possibilità di alcun reale rapporto con l’ambiente urbano circostante che non sia quello fugace delle esibizioni nelle case della nobiltà veneziana, peraltro rigorosamente a volto coperto.

Eppure a Cecilia la musica non basta, la ragazza ha bisogno d’altro: ha bisogno delle parole. La simbologia è chiara: in mancanza di fogli bianchi, la giovane orfana raccatta quelli utilizzati per la copiatura delle parti delle strumentiste e delle cantanti, riempiendo di parole i righi, gli «interstizi», gli «spazi bianchi». La scrittura, insomma, come mezzo per colmare il vuoto lasciato dalla musica.

Ma perché a Cecilia il talento musicale non basta? Perché solo le parole sono in grado di aiutarla a fronteggiare l’angoscia («una bestia che conosco bene») e a «non soccombere» sotto il suo peso. Certo, la musica è in grado di farle fare «il giro del mondo e del tempo», la può trasformare in ciò che non è (farla diventare «la gentilezza e la furia»). In sintesi, può mitigare le pene della sua misera esistenza. Non ha però il potere di cambiarla. Non è in grado di liberare la ragazza dalle grate, dalle «barriere traforate», e di restituire la vita al suo giovane corpo anonimo cui è negata ogni epifania: la libertà di mostrarsi allo sguardo degli uomini.

«Noi siamo sepolte vive in una delicata bara di musica» sentenzia in modo emblematico la narratrice. E, per quanto addolcita dalla presenza delle note, una bara rimane pur sempre un simbolo di morte. Ci vogliono le parole, ci vuole la scrittura per spezzare le sbarre della prigione e illuminare la notte dell’anima.

Bisogna porsi tuttavia un’altra domanda: qual è la causa dell’angoscia che opprime Cecilia al punto da indurla ad alzarsi di notte per scrivere di nascosto a costo di soffrire il freddo e di andare incontro a una sicura punizione nel caso venisse scoperta? L’abbandono, l’assenza, l’orfanità? Sì, certo, è tutto questo. Ma cosa significa? Cosa vuol dire per Cecilia essere orfana? La risposta la suggerisce lei stessa: «Io sono venuta al mondo dal vuoto… Questo mi è stato dato in sorte, essere figlia del niente.»

Ecco il motivo profondo del dramma, la ragione dell’angoscia. Nella coscienza della ragazza, l’orfanità (l’essere venuta al mondo dal vuoto) equivale a una negazione dell’essere: i figli del niente sono a loro volta niente, impossibilitati ad avere una storia, ad affermarsi nel mondo, a essere riconosciuti per i propri caratteri distintivi di unicità irripetibile.

Siamo lontani dal sentimentalismo acquoso di tanta narrativa romanticheggiante, consolatoria per definizione. Quella che Tiziano Scarpa propone in Stabat Mater nei modi di un racconto sapienziale (come direbbe Harold Bloom) è piuttosto una riflessione sulla condizione umana che lo avvicina ai grandi scrittori-filosofi della letteratura moderna e contemporanea.

La piccola Cecilia non è certo priva di emozioni, patisce senz’altro anche una carenza affettiva. Ma non è delle carezze o del semplice affetto materno che va anzitutto in cerca. È piuttosto un’origine quella che insegue. Perché solo laddove c’è un’origine, una volontà procreatrice, può sussistere una storia individuale. Un «mondo senza madri» è un mondo senza un prima, senza un destino, un passato che ci lega a ciò che ci trascende (ciò che non siamo noi) ma che proprio per questo ci offre una possibilità di individualizzazione, e cioè di differenziarci, di essere altro dagli altri.

Questo è il punto. E Cecilia lo dice molto bene a modo suo: «Loro [le suore dell’Ospitale della Pietà] mi hanno sfamato e vestito, mi hanno dato un’istruzione, mi hanno insegnato un mestiere, un’arte… Loro mi hanno donato qualcosa di più grande di una mamma, mi hanno dato il Signore Dio e la musica… Loro stanno facendo di me una persona e io preferisco essere una figlia.»

Preferisco essere una figlia. Il vocabolo, riproposto qui in posizione assoluta senza espansioni, va interpretato in senso pieno, forte. Vale la pena di ricordare che il latino “filiam” ha la stessa radice indoeuropea di foeminam e fecundam, il cui significato è “generare”, “nutrire”. Come dire: si può essere fecondi, nel senso letterale del termine e in quello traslato (fecondi dal punto di vista intellettuale, emotivo, artistico…), solo in quanto figli, solo in quanto venuti al mondo da un ventre a sua volta fecondo. La contrapposizione non potrebbe essere più radicale. Da una parte, c’è quel «ventre di morte» che è l’Ospitale, popolato di «donne sterili» (le suore) che «hanno scelto di tenere dentro la pancia la loro paura di morire». Dall’altra, c’è la volontà di Cecilia di essere figlia, e cioè (come direbbe Nietzsche) di diventare se stessa: donna fertile e autonoma.

Apparentemente, la sua volontà si esprime in un’insistenza ossessiva a porre l’accento sopra se stessa in contrasto con l’indifferenziazione cui sono condannate le ragazze, vestite tutte uguali: «Io non sono questo sfacelo, io ce la posso ancora fare, io sono forte, io non voglio lasciarmi sciogliere dentro questo veleno nero, io non sono tutta questa morte che vedo, io non voglio inghiottire questo mare, io non lascerò che tutto questo buio entri dentro di me e mi cancelli» [corsivo mio].

Siamo sul piano di un volontarismo tanto ostinato quanto infruttuoso che si spiega con l’impazienza adolescenziale di un personaggio che non tollera più la condizione di dipendenza in cui le è toccato in sorte di vivere e che ancora non intravede una diversa modalità di esistenza, più corrispondente ai suoi desideri.

Nondimeno è un altro lo strumento cui Cecilia ricorre per conquistare la propria individualità, uno strumento che si rivela ben più proficuo: il dialogo epistolare. La parola indirizzata a un lettore. Il verbo. Perché è indirizzandosi a qualcuno, e cioè riconoscendo i caratteri di alterità dell’interlocutore rispetto a noi, che a nostra volta affermiamo il nostro carattere di alterità rispetto all’ambiente che ci circonda.

Cecilia non aspira a ricongiungersi alla madre per fondersi nel suo ventre in un moto di romantica follia narcisistica, aspira a ricongiungersi a lei in quanto sua origine per differenziarsene, per accedere a una salutare età adulta. Certo, il suo tentativo di dialogo è destinato a rimanere muto. E di questo Cecilia è pienamente cosciente: «Signora Madre, io vi invoco ma voi non rispondete. Voi siete soltanto nella mia testa, io guardo i miei pensieri che escono dalla punta della penna, li getto fuori dalla mia testa senza mai riuscire a liberarmi di voi.»

Ma le lettere della ragazza non sono vergate invano, troveranno comunque un lettore, anzi una lettrice: suor Teresa. E avranno il loro effetto, imprevedibile persino alla stessa mittente: commuoveranno la suora inducendola non solo ad astenersi dal punire la ragazza ma addirittura a premiarla offrendole le poche informazioni di cui dispone sulla sua nascita e, in tal modo, a infrangere a sua volta le regole dell’Ospitale.

Scrittura e lettura affratellano le due donne nel segno della trasgressione, ricucendo quella frattura genetica cui abbiamo accennato sopra. Anche qui la simbologia è fondamentale. La trasgressione è qualcosa di necessario (non è il mero frutto di uno spirito ribellistico), è ciò che proietta un individuo «non ancora nato» (esistenzialmente non ancora nato) nel divenire: cioè nella Storia, nella società. Se la musica prolifera in un rapporto privilegiato con la Natura, la scrittura non può prescindere dal rapporto con la Storia (ogni parola la porta dentro di sé, nel proprio grembo, la storia: una peculiarità che note e suoni non posseggono e non possono possedere). Per questo, la prima unisce, la seconda separa, distingue.

Prima di conquistare l’indipendenza (la libertà di risalire al goethiano regno delle madri), Cecilia dovrà fare tuttavia una duplice esperienza della morte, questa volta fisica, non metaforica: prima assiste al trapasso di un uomo, quindi è indotta dal suo maestro (don Antonio) a sgozzare un agnello. Un atto, quest’ultimo, di inequivocabile valore rituale. Ma è solo la parola ormai acquisita che permette a Cecilia di immedesimarsi nell’oggetto sacrificale e, quindi, immedesimandosi, di riconoscersi distinta da esso (bisogna appunto essere altro per potersi immedesimare in qualcosa).

Naturalmente, Cecilia è figlia del nostro tempo (un personaggio postniciano, a dispetto dell’ambientazione settecentesca), e quella a cui accede è una libertà incerta, che peraltro la costringe a rinunciare alla consolazione della musica: una libertà ancora tutta da scrivere e raccontare. Ma è questa incertezza ad assicurarle per la prima volta la facoltà di scegliere e a consentirle di correre verso il proprio destino: «Sto facendo una cosa che non avevo mai provato in vita mia. Mi sono tappata le orecchie, fisso le stelle, con il viso all’insù. Non ascolto, non guardo. Non c’è più nessun soffitto sopra la mia testa. Nel registro ho sostituito il mio segnale con un’immagine della Madre di Dio. Non è tagliata né strappata. L’altra metà del segnale non esiste, perché non è un segnale di carta, sono io in carne e ossa, tutta intera, che mi sono riconosciuta in me stessa, sono io che adesso vado incontro al mio destino.»

Anche qui le parole sono importanti. Cecilia corre verso sud-est, nella direzione dove ritiene si trovi sua madre (che poi è anche il luogo dell’origine della parola dell’Occidente: la Grecia). Ma non dice: “vado incontro a mia madre.” Dice: «vado incontro al mio destino.»

mercoledì 24 giugno 2009

PD: interrogativi sul congresso e le primarie

Dunque. Se ho capito bene, al congresso si discute, ma il segretario lo si elegge dopo, per mezzo delle primarie (al cui voto, sempre se ho capito bene, sono ammessi tutti, iscritti e no).

Supponiamo che il congresso sia un vero congresso. E cioè un luogo in cui ci si confronta non dico su documenti, tesi e mozioni (abbiamo capito che al PD piace cambiare il nome alle cose), ma comunque su progetti, linee, programmi. Domanda: questi progetti, linee e programmi o come si chiameranno vengono messi ai voti al congresso?

1) Se sì, ci sarà una linea prevalente, approvata dai delegati che, immagino, saranno stati a loro volta votati dai congressi di sezione, dei comuni, delle regioni. In questo caso, i delegati indicherebbero con il loro voto che cosa dev’essere e deve fare il PD, però non chi deve esserne segretario.

Cosa curiosa. Perché a questo punto o le primarie sono una pura formalità propagandistica che ratifica le scelte del congresso scegliendo il candidato già vincente (come nel 2007) oppure sono primarie vere, libere di assicurare la maggioranza dei voti all’outsider che sostiene una linea diversa da quella uscita maggioritaria al congresso.

Nel primo caso ci si chiede perché dovremmo sprecare tempo con le primarie, nel secondo perché dovremmo sprecare tempo con il congresso.

2) Poniamo invece che al congresso si discuta soltanto, e non si pongano ai voti né tesi né mozioni né progetti né programmi né altro. In questo caso, il congresso sarebbe una vetrina in cui i candidati alle primarie espongono, chiariscono e divulgano la propria linea e idea del PD.

Ma allora mi domando: serve proprio fare il congresso? In questo caso, non sarebbe più conveniente svolgere solo le primarie ma autentiche, più o meno all’americana? E cioè spedire i candidati in giro per le regioni, con il loro bel documento in tasca, lasciare che si azzuffino per un ragionevole numero di mesi, che si trovino i finanziatori, si sbattano, ci raccontino quello che vogliono fare, ci convincano, e infine scegliere il sopravvissuto? (Perché queste sono le primarie: una battaglia in stile Highlander, che metta alla prova intelligenza e tempra dei candidati.)

PS. Non è quest’ultima l’ipotesi che preferisco. Sono un reazionario: potendo scegliere, sceglierei un congresso in bianco e nero, fatto di documenti, tesi e mozioni, senza primarie, senza eufemismi e senza retorica del nuovo o ingenui appelli alla democrazia diretta. Ma l’ipotesi delle primarie autentiche (made in USA) la preferirei senz’altro al pasticcio che per ora sembra profilarsi.

martedì 23 giugno 2009

Berlusconi, i moralisti e i castigamoralisti

SulRiformista” di ieri, Ubaldo Casotto ha pubblicato una Lettera aperta sul nuovo moralismo, in cui denuncia quella che ai suoi occhi appare come un’insanabile contraddizione.

La lettera è rivolta esplicitamente ai «colleghi scandalistici» e ai «lettori scandalizzati della sinistra progressista», e in sostanza dice: ma come, quando vi fa comodo ostentate un’etica anticlericale, difendete la liceità dei costumi, siete per la legalizzazione della prostituzione, consigliate a preti, suore e monaci di «emanciparsi... insomma scopare», e poi quando «trovate uno che (pare) attua tutto quello che ci avete predicato... voi che fate? Citate con faccia triste le preoccupazioni di qualche tonaca vescovile (le stesse che irridete negli altri 364 giorni dell’anno) e lo impiccate alla corda del vostro moralismo.» E conclude in modo colorito: «Ma andate a farvi fottere!»

Qui però c’è un gigantesco equivoco, che certo forse qualche collega contribuisce ad alimentare, ma equivoco rimane. Rispondo per parte mia (senza pretendere di voler interpretare il sentire altrui), perché mi sento chiamato in causa: sono progressista, continuo a dirmi di sinistra (liberale e socialista), suggerisco senz’altro di dedicare una parte ragionevole del tempo libero al sesso, considero la «castità» un peccato contro natura (sebbene non la sconsigli a chi la pratica), eccetera, eccetera, eccetera.

Nondimeno, io non mi sognerei mai di rimproverare a Berlusconi la sua licenziosità. Nell’alcova faccia quel che gli pare nei modi che giudica più opportuni. Chi se ne importa? Lo porto alla barra per altre colpe, che però la sua vicenda privata aggrava. E questo, checché ne pensi Casotto, mi sento autorizzato a farlo. Oh sì, se mi sento autorizzato.

1) La doppia morale. Berlusconi si comporti a suo piacimento, ma non pretenda di ergersi a paladino della famiglia e dell’etica. Intendiamoci. Questo non lo consento a nessun politico (di destra, di centro o di sinistra), ma men che meno lo riconosco a uno che predica bene e razzola male. Anzi, in questo caso, mi sento libero di dar sfogo alle mie pulsioni sadiche e di ridicolizzarlo.

2) L’allegria e la realtà. Berlusconi faccia pure il divorziato allegro. Scajola ha detto al Corriere che Silvio «è praticamente single da parecchi anni, e ha il diritto di gestire come ritiene la propria vita». Non so se sia una saggia linea di difesa. Ma anche questo non mi interessa. Più semplicemente io pretendo che Silvio non «gestisca» la nostra vita con la medesima «allegria» con cui gestisce la sua. Insomma, ci risparmi l’appello all’ottimismo, e affronti le questioni aperte: la crisi economica, la ricostruzione in Abruzzo, ecc. Gli appelli all’ottimismo sono sempre insopportabili, perché sono indice di un volontarismo inconcludente, ma risultano ancora più insopportabili da parte di una persona frivola e leggera, perché a me viene il sospetto che sia frivolo e leggero anche quando prende decisioni di interesse collettivo.

3) Le ricompense. Berlusconi si circondi delle persone che gli tornano utili (nel senso tecnico illustratoci da Ghedini e in quello consueto a noi comuni mortali). Ma eviti di ricompensarle con un posto in parlamento o in un’istituzione pubblica. Paolo Guzzanti è andato giù più duro. Ha parlato (testuale) di «mignottocrazia». Ha ragione. Il neologismo va inteso però in senso molto ampio, non può essere riferito solo a vallette ed escort. Devo fare nomi? Credo che non ce ne sia bisogno.

giovedì 18 giugno 2009

Chi gongola per le sventure di Berlusconi?

C’erano già tante buone ragioni politiche per essere scontenti del governo Berlusconi, e metterne in discussione la leadership: dalla sottovalutazione della crisi economica allo sfruttamento mediatico della tragedia abruzzese, dall’aggressione alle libertà individuali (il testamento biologico) alla legge sulle intercettazioni che intralcia la sicurezza in Italia...

In questi giorni, tali temi sono passati in secondo piano, oscurati dalle vicende private del premier e dal «salto di qualità» che il caso D’Addario potrebbe imprimere al «velina-gate» (sono espressioni di Antonio Polito). Ma ciò non vuol dire che quei temi siano irrilevanti. Al contrario, i reali motivi del crescente malumore di quei settori del fronte berlusconiano che sognano una destra alla Merkel o alla Sarkozy vanno rintracciati anzitutto in quei temi, oltre che in una molto più antica, radicata e preconcetta diffidenza verso il tycoon, con cui Fini & Co. sono scesi a patti con l’intento mai celato di servirsene finché fosse necessario per scaricarlo al momento opportuno.

Per dirla senza mezzi termini: l’idea di un cambio di leadership covava da tempo in tanti circoli, segmenti e fondazioni del centrodestra. Già nella precedente legislatura berlusconiana se ne erano ampiamente visti i segnali. Ma finora per il centrodestra quella di liberarsi di una figura scomoda come Berlusconi era una prospettiva remota: certo un’eventualità da preparare e in vista della quale lavorare, ma senza irrealistici balzi in avanti. La scadenza non era all’orizzonte, le condizioni per un passaggio di testimone non c’erano, l’opinione pubblica non era preparata.

Oggi, le cose potrebbero essere cambiate. Non solo perché l’immagine del Cavaliere, comunque ne venga fuori, appare danneggiata (almeno a livello istituzionale e internazionale: lo confermano gli imbarazzanti aneddoti riferiti da Chirac e dalla moglie di Blair, che la parziale positività dell’incontro con Obama non può cancellare). Ma soprattutto perché la vittoria del PDL alle recenti elezioni amministrative, unita alla sconfitta personale di Berlusconi alle europee, potrebbe legittimamente indurre qualcuno a pensare che i tempi per una svolta sono maturi. Esiste una parte del centrodestra che da tempo si sente ormai adulta e ritiene di non aver più bisogno di un padre-sovrano per rimanere unita e vincere. Tanto più che si trova di fronte un centrosinistra indebolito e acefalo (o, se si preferisce, disorientato da troppi cefali: il risultato non cambia), che difficilmente potrebbe avvantaggiarsi da un’uscita di scena del Cavaliere.

Né è utile fare gli ingenui. Luigi Crespi ha perfettamente ragione a ricordare che «i complotti hanno accompagnato la storia del nostro Paese». Questo non sarebbe né il primo né l’ultimo. Noi non abbiamo in mano le informazioni che ha lui, non sappiamo se dietro alla fuga di notizie (o brandelli di notizie) riguardo alla vivace vita privata del Cavaliere ci sia o no una «regia». Quel che è certo è che più che la sinistra, alle prese con i suoi logoranti problemi interni, a gongolare delle sventure e degli errori di Berlusconi è una parte del suo stesso entourage (non solo i finiani).

Non a caso i colonnelli del PDL se ne stanno alla finestra a guardare: non intervengono né per garantire la loro solidarietà al capo né per smarcarsene. Lasciano ai comunicati stampa e all’avvocato Ghedini l’incombenza di difenderlo (peraltro male, molto male: la metafora dell’«utilizzatore finale» è quanto meno infelice). Solo Bossi si è speso per l’amico di Arcore. Lo ha fatto probabilmente per sincera amicizia (le cene del lunedì sono una consuetudine esclusiva, mai allargata agli altri leader del centrodestra) e per riconoscenza (la Lega sarebbe una forza isolata e impotente senza Berlusconi). Ma di sicuro lo ha fatto anche per calcolo politico. Il senatúr sa infatti che non è detto che i “golpisti” avranno la meglio. E gli conviene rischiare un po’, per chiedere poi il conto e mettere a frutto il recente successo elettorale (a cominciare per esempio da qualche poltrona in RAI).

lunedì 8 giugno 2009

Elezioni: rischio instabilità

Successo e insuccesso sono concetti relativi, condizionati in gran misura dallo scarto fra attese e risultati. E, dunque, quando mancano meno di quattrocento sezioni da scrutinare, di fronte al 35,2% del PDL è legittimo parlare di batosta. Non lo è in termini assoluti. Lo è perché il raccolto si dimostra molto inferiore alle speranze, e cioè ben al di sotto di quella soglia del 40% sbandierata in campagna elettorale da Berlusconi e dai suoi fedeli (nell’ultima ospitata nel salotto di Vespa, il Cavaliere si era incautamente spinto a citare un sondaggio che lo dava addirittura al 45%).

Questo avrà inevitabilmente un effetto sugli equilibri di governo e della coalizione. È vero che, a urne aperte, Bossi aveva dichiarato che, comunque fosse andata, niente sarebbe cambiato nei rapporti con l’alleato. Ma lo aveva detto prima di conoscere l’esito elettorale. A urne chiuse cambia tutto. Di fronte a un PDL indebolito e a una Lega rafforzata è difficile che, nonostante la sua lealtà verso l’amico di Arcore, il senatúr si astenga dall’alzare la voce sui temi più cari al Nord.

Non solo. Sarà ancor più difficile per il Cavaliere tenere a bada lo scalpitante Gianfranco Fini che sin dalla seconda legislatura berlusconiana non ha perso mai un’occasione per differenziarsi e accreditarsi come leader alternativo della destra. Il PDL non è Forza Italia: se la seconda era una monarchia personalistica ma non priva di momenti illuminati, la prima è una repubblica irrequieta, in cui convivono correnti autenticamente riformistiche (Brunetta, Frattini, Della Vedova...) e correnti regressive, di tipo clerical-nazionalistico. Berlusconi sarà costretto a prenderne atto a sue spese.

C’è da rallegrarsi di questo terremoto? Secondo me, no. Per niente. Potremmo rallegrarcene se da quest’altra parte ci fosse un centrosinistra forte, coerente e unitario, in grado di candidarsi a governare le contraddizioni del presente con maggiore persuasività. Ma questa sinistra non c’è: dal voto non esce. Per questo, il rischio è che dobbiamo attenderci un periodo di forte instabilità politica, alimentato da un’infinita, cronica conflittualità interna ai due fronti.

È inevitabile infatti che l’Italia dei Valori sia galvanizzata dal raddoppio del consenso elettorale, e si senta autorizzata a proseguire sulla strada di un radicalismo intransigente e muscolare. È quanto lasciano trasparire le prime gongolanti dichiarazioni di Di Pietro, rilasciate a caldo questa notte.

D’altra parte, in termini assoluti il PD prende una batosta ben più dolorosa di quella del PDL. Ma, ugualmente, potrebbe essere tentato di accontentarsi del 26,2% racimolato, giudicandolo comunque un passo avanti rispetto al 22-24% a cui il partito era dato nelle ultime settimane della gestione veltroniana. In sostanza, potrebbe imputare il calo a ragioni accidentali, dovute ai difetti di conduzione (anche di Franceschini, il quale ha fatto un’infelice campagna elettorale battendo su un unico tasto che magari avrà contribuito a ridimensionare l’avversario ma ha portato poca acqua al proprio mulino), e non a difetti del codice genetico che il PD si ostina a non voler vedere e a non affrontare seriamente come dovrebbe.

Insomma, anche se non può avere la botte piena e la moglie ubriaca, il PD potrebbe essere tentato di cercare di avere la botte mezza piena e la moglie mezza ubriaca. Un grosso errore. Perché, sulla distanza, finirebbe con l’indebolirlo ancor di più e con il rafforzare per contrasto il radicalismo galoppante oggi in Italia e altrove, a sinistra come a destra.

Questa eventualità potrebbe essere scongiurata, se il PD trovasse una nuova leadership, intellettualmente coraggiosa e che non abbia paura di mettere il dito nella piaga per ripulirla di quel pus che è la reale causa dei suoi mali. Ma, per il momento, all’orizzonte questa nuova leadership purtroppo non si intravede, né fra i vecchi né fra i giovani.


Poscritto

Mi sembra che i risultati definitivi delle europee e quelli ancora parziali delle amministrative corroborino le preoccupazioni qui espresse. Per quanto riguarda il centrodestra, nel weekend del 6-7 giugno si è registrata una sconfitta personale di Berlusconi, unita a una vittoria della Lega e del PDL che, nonostante le diplomatiche assicurazioni di fedeltà, avrà un’inevitabile conseguenza sui rapporti di forza interni (ne ha già dato prova la cena di Arcore) spingendo la coalizione verso posizioni più regressive.

Nel centrosinistra, abbiamo ascoltato tante dichiarazioni di autoconforto (comprensibili a caldo). Ma non sono mancati gli appelli ad analizzare senza pregiudizi le reali ragioni della sconfitta e ad avviare una nuova fase di discussione: per «fare un tagliando serissimo al nostro progetto», ha detto Giovanna Melandri. Sono appelli a cui ci uniamo senz’altro, sia pure non senza una ragionevole dose di scetticismo desideroso di essere smentito.


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