sabato 29 marzo 2008

Politometro: il vittimismo di Boselli

In effetti, sì. Culturalmente, quella è la mia famiglia: il socialismo liberale. E avrebbe potuto essere anche la mia collocazione politica. Avrebbe potuto! Se non fosse che, per opportunismo o per debolezza della leadership, il partito di Boselli ha rinunciato a stroncare ogni folle nostalgia di revanchismo craxiano – come la saggezza imponeva –, preferendo tenersi alcuni nomi che simboleggiano il peggio di un’epoca segnata dall’affarismo e dall’incosciente competizione a sinistra.

Avrebbe potuto essere la mia collocazione politica. Se non fosse che un partito socialista che corre da solo contrapponendosi indistintamente tanto al PDL quanto al PD è un assurdo per il quale una persona seria dovrebbe provare almeno un minimo di vergogna e domandarsi se per caso non stia servendo il demone dell’orgoglio anziché il bene del Paese. Poteva essere la mia collocazione politica. Se non fosse che il masochistico vittimismo di cui Boselli non si stanca di dare prova nei salotti televisivi, sprecando il tempo a rinfacciare ai conduttori di non invitarlo quanto a lui piacerebbe, è il segno più triste e plateale che quella che è stata una grande forza del passato ha ormai definitivamente perso la sua funzione storica e, più in generale, il senso della Storia.

Quella poteva essere la mia collocazione politica più congeniale. Poteva esserlo. Se, anziché dare prova di una rivoltante litigiosità interna e perdere tempo nel vagheggiamento di una Costituente sempre procrastinata, il partito socialista avesse invece scelto fin da subito di coprire lo spazio che con la nascita del partito di Veltroni si apriva a sinistra e, riconoscendo al PD quel ruolo guida che solo un partito di massa può avere, avesse assolto una funzione critica al suo fianco, che è poi l'unica funzione assennata che un partito d’opinione può assolvere.

Per queste ragioni e per un’altra non meno importante – voglio un parlamento semplificato e un esecutivo con pochi partiti – voterò invece PD. E ciò malgrado mi senta distante dal kennedysmo veltroniano.

domenica 16 marzo 2008

Pardon. Riflessioni e passaggi da "Perdonare" di Jacques Derrida

di Susanna Janina Baumgartner

Pardon. Dono e perdono hanno un rapporto essenziale con il tempo. Per perdonare, deve esserci un passato che non passa e che io decido di far passare con un dono: prima di tutto a me stesso e poi all’altro. Per dono. Tempo donato e tempo da donare.

Si è sempre colpevoli, si ha sempre da farsi perdonare quando si tratta del dono e del “per dono”, che può diventare appello alla riconoscenza, un veleno, un’arma, un’affermazione di sovranità. Si prende sempre donando. Sono questi gli abissi che ci attendono e che ci minacceranno sempre.

Chi perdona? Chi domanda perdono a chi? Chi ne ha il diritto e il potere? Si perdona qualcuno o si perdona qualcosa a qualcuno? Il perdono è possibile solo alla condizione che sia domandato? Il perdono può essere accordato solo se il colpevole si mortifica, si confessa, si pente?

Vi è nel senso stesso del perdono una forza, un desiderio, uno slancio che esige che il perdono sia accordato, se può esserlo, perfino a qualcuno che non lo domanda, che non si pente. Il perdono prende senso (se almeno deve mantenere un senso, cosa che non è sicura), trova la sua possibilità di perdono solo laddove esso è chiamato a fare l’im-possibile e a perdonare l’imperdonabile.

Il perdono, se ce n’è, deve e può perdonare solo l’imperdonabile, l’inespiabile e quindi fare l’impossibile. Perdonare il perdonabile non è perdonare. L’analisi del “perdono”, di “perdono” è interminabile. Il perdono non dovrebbe essere permesso che dalla parte della stessa vittima. La questione, in quanto tale, del perdono dovrebbe sorgere solo nel faccia a faccia tra la vittima e il colpevole.

Bisogna, però, anche considerare se l’idea del perdono non debba liberarsi del suo correlato di espiazione. Un perdono possibile solo in relazione all’im-possibile. Un perdono al di là della parola richiesta, forse, dal perdono. Fare del silenzio l’elemento stesso del perdono, se ce n’è?

Certi animali fanno la guerra e fanno la pace. Non tutti, non sempre, come fra gli uomini. Non si può negare questa possibilità, addirittura questa necessità, del perdono extra- verbale, se non addirittura an-umano. Ogni colpa, ogni male è anzitutto uno spergiuro: ossia il mancare a una certa promessa, a un certo impegno, a una certa responsabilità.

Per essere giusto, in vista di essere giusto, devo domandare perdono, perchè per essere giusto, io sono ingiusto e tradisco. Tradisco sempre qualcuno per essere giusto, perchè è ingiusto essere giusto. Rischio sempre di tradire qualcun’altro perdonando, poiché si è votati a perdonare sempre nel nome di un altro.

Perdono! Perdonatemi di aver preso il vostro tempo così a lungo. Grazie. In fondo, voi non saprete mai quello che io vi dico quando vi dico, per concludere, perdono e grazie. Al principio ci sarà stata la parola “perdono”, “grazie”. Pardon

venerdì 7 marzo 2008

La vendetta senza destino

Sweeney Todd di Tim Burton è un film deludente, viziato da una caratterizzazione troppo macchiettistica dei personaggi, dalla banalità delle musiche, dal manierismo delle scene (quanto fumo in questa Londra digitale!). Ma è il tema che mi interessa: la vendetta. Dopo un periodo trascorso in carcere per un omicidio non commesso, Benjamin Barker torna nella capitale intenzionato a uccidere il giudice Turpin che lo ha condannato, rapendogli moglie e figlia. E, nell’attesa della resa dei conti, si esercita tagliando le gole dei clienti nella bottega da barbiere che ha aperto in Fleet Street.

A emergere sono due fondamentali elementi narrativi. Da una parte, la lunga attesa che fa dell’ansia di vendetta una vera e propria idea fissa, che rode il protagonista e ne assorbe le energie, trasformandosi nello scopo della sua esistenza. Dall’altra, il mondo capovolto che pone un criminale impunito (il giudice Turpin) nel ruolo di amministratore della giustizia.

Entrambi sono veri e propri archetipi del moderno immaginario collettivo, che trovano probabilmente la loro prima grande espressione letteraria in quel capolavoro della narrativa d’avventure che è il Conte di Montecristo. È in questo romanzo, infatti, che per la prima volta il concetto di vendetta si “imborghesisce”, assumendo il carattere di resa dei conti individuale per il torto subìto.

Ma le origini della vendetta affondano nell’età premoderna e preborghese, che non possiede il concetto di individualità e vive, anzi, ogni aspetto dell’esistenza come destino collettivo. La vendetta, in questa diversa metafisica, è un atto dovuto verso gli dèi e la società, al quale l’uomo di nobil animo non può sottrarsi. Perché il singolo è chiamato a contribuire in prima persona alla difesa della giustizia nella collettività della quale fa parte (una concezione che si conserva nella Costituzione americana).

Di questa metafisica si alimenta l’ira che Achille sfoga facendo scempio del corpo di Ettore per vendicare la morte dell’amico Patroclo. E di essa si alimentano anche gli innumerevoli episodi di violenza della Bibbia, della tragedia, del poema cavalleresco. La vendetta, per mezzo di questa metafisica, diventa allora lo strumento che lega l’uomo all’altro uomo, il fratello al fratello, i figli ai padri, una generazione a un’altra generazioni, la Terra al Cielo.

Probabilmente, è nell’Amleto che per la prima volta s’infrange quel rapporto armonico tra Io e Destino che aveva permesso di identificare senz’altro vendetta e giustizia. Agli esordi della modernità, gli dèi hanno già smesso di dialogare con gli uomini. Sono gli spettri ad averne preso il posto. E, proprio perché intenzionato a rispettare la giustizia, il principe di Danimarca – definitivamente solo a districarsi fra i tormenti della propria coscienza – non sa più se prestar fede o meno alle parole del padre morto. Si può obbedire ciecamente alla voce del Cielo, non a quella che proviene dal sottosuolo.

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