venerdì 21 dicembre 2007

Mozart & Da Ponte:
le sabbie mobili dell’amore

Lorenzo Da Ponte è una figura straordinaria, addirittura romanzesca: nato da una famiglia ebrea convertita al cattolicesimo, si fa prete, ma la passione per il gioco d’azzardo e le donne lo costringono ad abbandonare la tonaca. Per sfuggire al processo per libertinaggio, si trasferisce a Dresda e poi a Vienna, dove diventa librettista di Antonio Salieri e di Mozart (per il quale scrive tre capolavori). Ma dopo la morte di Giuseppe II cade in disgrazia, emigra a Londra e di lì negli Stati Uniti, dove insegna lingua e letteratura italiana.

A lui voglio dedicare queste note dopo aver visto Così fan tutte, riproposto a Milano in un allestimento che segue le note di regia di Giorgio Strehler: un’edizione freschissima, che si segnala anche per le notevoli qualità teatrali degli interpreti (non commento invece l’esecuzione perché, nonostante sia un melomane bulimico, non ho competenze di critica musicale).

L’opera è ricca di versi popolari: «È la fede delle femmine come l’araba fenice: che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa», «Stelle! Sogno o son desto?», «Quello che è stato è stato, scordiamci del passato.» La storia, ambientata a Napoli, appartiene del resto a tutti gli effetti al genere comico, e si nutre degli ingredienti classici della commedia: la scommessa, i travestimenti, la furbizia, l’infedeltà e le pene d’amore, le spassose ibridazioni linguistiche, il lieto fine. Ma i protagonisti non sono quelli tradizionali della comicità, appartengono ai ceti medio-alti: due ufficiali dell’esercito e due dame. Già questo è un fattore di enorme originalità creativa, che anticipa il dramma borghese otto-novecentesco.

Sul piano dei contenuti, tuttavia, la carica innovativa è ancora più sconvolgente. Così fan tutte termina con questi versi: «Fortunato l’uom che prende / ogni cosa pel buon verso, / e tra i casi e le vicende / da ragion guidar si fa.» Perché fortunato? Perché «quel che suole altrui far piangere» per l’uomo guidato dalla ragione sarà «cagion di riso» e anche «in mezzo ai turbini» del mondo «bella calma proverà». Siamo del resto negli ultimi anni dell’illuminismo (la prima rappresentazione dell’opera avvenne il 26 gennaio 1790). Ma per Da Ponte (e per il non meno libertino Mozart) che cosa vuol dire qui ragione?

Vuol dire prendere atto dell’incostanza dell’animo umano, che affonda le sue radici nelle sabbie mobili del desiderio. La psicologia settecentesca non soffoca né reprime le passioni. Tutt’altro. Vi si abbandona allegramente, in quanto elementi della natura. Ma non ne fa il principio regolatore del comportamento umano. D’altra parte, al contrario di quanto a volte si è sostenuto, il gioioso dramma mozartiano non ha alcun carattere misogino. La condizione umana è comune a entrambi i generi sessuali. Afferma il filosofo don Alfonso: «Solo saper vorrei / che razza di animali / son queste belle, / se han come tutti noi carne, ossa e pelle, / se mangian come noi, se veston gonne, / alfin, se dee, se donne son...» Gli fa eco la cameriera Despina: «Di pasta simile / son tutti quanti: / le fronde mobili, / l’aure incostanti / han più degli uomini / stabilità.»

Insomma, non la donna è mobile: è mobile l’essere umano in generale, per sua costituzione. E, per dimostrarlo, don Alfonso adotta il metodo sperimentale della cultura moderna: invita gli amici Guglielmo e Ferrando a verificare di persona, attraverso l’esperienza. Il risultato dell’esperimento esclude ogni sorta di moralismo: gli uomini non hanno colpa per quella che è una «legge di natura» (come la chiama Despina, doppio di don Alfonso, con espressione che non potrebbe essere più settecentesca). Semmai ci sarebbe da stupirsi se qualcuno a tale legge sfuggisse. Che cosa fare, stando così le cose? Lo dice la cameriera alle due sorelle, sue signore: «piuttosto che in vani / pianti perdere il tempo, / pensate a divertirvi», fate «all’amor come assassine», perché lo stesso «faranno al campo» anche «i vostri cari amanti».

La potente affermazione sembra riproporre l’etica libertina, che appena pochi anni prima aveva trovato espressione in quel capolavoro noir che è il Don Giovanni (alla cui stesura aveva collaborato anche Casanova). Ma qui il libertinaggio è in realtà appena accennato, e diventa piuttosto strumento di maturazione, non di perdizione eterna. A Guglielmo e Ferrando, sconvolti dalla scoperta dell’infedeltà delle amanti che essi stessi hanno provocato, don Alfonso risponde: «Ebben pigliatele / com’elle son. Natura non potea / fare l’eccezione, il privilegio / di creare due donne d’altra pasta / per i vostri bei musi», «l’amante che si trova alfin deluso / non condanni l’altrui, ma il proprio errore», «in ogni cosa / ci vuol filosofia.»

È errore illudersi: incolpare l’altro di non poter essere diversamente da come la natura ci ha fatti. È “filosofia” valutare i comportamenti considerando la “struttura” nella quale si concretizzano. In questo senso, il travestimento, a cui si sottopongono prima Guglielmo e Ferrando, poi Fiordiligi e Dorabella, non ha più niente da spartire con gli schemi del comico. Appartiene piuttosto alla tradizione iniziatica (che, un anno dopo, sarà al centro del più complesso ed enigmatico capolavoro mozartiano, Die Zauberflöte): bisogna diventare altro da sé per scoprire se stessi e la realtà delle cose.

Sorretto da una sostanziale fiducia nell’esistenza e nel destino condiviso, Così fan tutte propone appunto a un pubblico già culturalmente borghese un’iniziazione ai sentimenti, che si ponga alla base della famiglia moderna, assicurandone la stabilità. La famiglia che nasca per scelta, e non come esito di trattative diplomatiche – lasciano intendere Da Ponte e Mozart –, può basarsi soltanto su una ragione così intesa, che sappia attraversare gli inferi della passione e ritornare alla luce carica di una disincantata consapevolezza. Perché soltanto la consapevolezza della natura umana (comune a tutti) permette di apprezzare le qualità specifiche del singolo.


Così fan tutte
di Wolfgang Amadeus Mozart
uno spettacolo di Giorgio Strehler
libretto di Lorenzo Da Ponte ● maestro concertatore e direttore d'orchestra Christopher Franklin ● regia Carlo Battistoni ● ripresa Gianpaolo Corti ● scene Ezio Frigerio ● costumi Franca Squarciapino ● luci Gerardo Modica ● collaborazione alla regia Marise Flach ● Produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d'Europa in collaborazione con Accademia Teatro alla Scala

Personaggi e interpreti: Fiordiligi Teresa Romano ● Dorabella Francesca Ruospo ● Despina Irina Kapanadze ● Ferrando Leonardo Cortellazzi ● Guglielmo Christian Senn ● Don Alfonso Elia Fabbian

martedì 18 dicembre 2007

Le geometrie di Cronenberg

Le strade e le piazze di Milano, in questi giorni, fanno a gara per apparire più brutte. Tra il blu psichedelico di piazza Cinque Giornate, i poliedri di piazza della Scala, i putti verdi di via Manzoni e gli sgorbi alati di via Turati non so che cosa sia peggio. E dire che persino negli anni della Milano da bere ci si limitava ad addobbare gli alberi di palle colorate, a luci intermittenti. Nonostante il craxismo dilagante, quella era una città che conservava un aspetto familiare, casalingo. Gli alberi colorati nei giardini e nelle aiuole erano solo un po’ più grandi di quelli che si tenevano in salotto. La differenza non era sostanziale.

Oggi, gli alberi sono soffocati da bardature luminose che sembrano prese a prestito dalle più chiassose discoteche. È la violenza il comun denominatore delle illuminazioni milanesi sotto Natale, non la gioia della festa. La violenza spersonalizzata del potere, un potere piccolo, minuscolo (chi sa il nome dei responsabili di quelle luci?), che tuttavia non accetta di passare inosservato e vuole strappare l’attenzione dei passanti. E lo fa con la stessa aggressività dei decibel del traffico urbano. Un potere che ama la morte, non la vita.

È quanto ho pensato uscendo dal cinema dopo aver visto un film estremamente duro, ambientato proprio durante le feste di Natale, che parla di un diverso genere di violenza: quello della mafia russa, trapiantata a Londra. La promessa dell’assassino (Eastern promises) di David Cronenberg è un grande film, che si distingue anzitutto per la recitazione senza sbavature dei suoi interpreti: Armin Mueller-Stahl (l’affabile e duro Semyon, proprietario di un lussuoso ristorante e spietato capogang), Vincent Cassel (nel ruolo del nevrotico figlio Kirill, ubriacone e criptogay), Viggo Mortensen (il cinico quanto enigmatico autista Nikolai), Naomi Watts (l’ostetrica Anna Kithrova).

Ma la violenza di La promessa dell’assassino non è quella spersonalizzata del potere, è piuttosto quella della tragedia, che vede contrapposti uomini che, nonostante le loro debolezze, si sforzano di ergersi al ruolo di eroi, sia pure del male. Non mancano le scene d’azione e lo spargimento di sangue. Ma è il dialogo il motivo di forza di questo film che, come in ogni vera tragedia, concentra l’attenzione sui rapporti fra i personaggi, raccontati attraverso una serie di splendide geometrie e parallelismi.

Nella famiglia di Anna è assente la figura paterna, sostituita dal burbero zio Stepan, nella famiglia di Semyon manca invece quella femminile. Ma tre sono i membri della famiglia dell’ostetrica, tre sono i mafiosi con i quali il destino la costringe a confrontarsi. Un doppio triangolo. Triangolare è anche il rapporto fra Anna, Kirill e Nikolai. Triangolare quello fra Kirill, Nikolai e Semyon. E si potrebbe andare avanti con gli esempi.

In questo universo tragico, la violenza è un dato della natura, non appartiene alla Storia (che fa capolino solo di striscio, con la trasformazione del KGB). È una presenza quasi metafisica che la vita non può espungere. Ed ha un carattere estremamente ambiguo. Buoni e cattivi si confondono, usando gli uni e gli altri i medesimi mezzi. Questo è un tema centrale in ogni moderno thriller. Cronenberg, laureato in letteratura inglese presso l’Università di Toronto, ha il merito di avergli conferito una profondità esistenziale.

lunedì 3 dicembre 2007

McEwan: raccontare da voyeur

Avevo apprezzato lo sguardo chirurgico, alla Harold Pinter, e lo stile denotativo da erede del Nouveau Roman delle precedenti prove narrative di Ian McEwan (soprattutto Amsterdam, Espiazione e Sabato). Non mi è piaciuto, invece, Chesil Beach, un romanzo che promette bene ma non prende mai quota. L’impressione è che lo stesso autore non vi abbia creduto abbastanza. E che lo abbia considerato, lui per primo, un testo minore: uno di quelli che si pubblicano per tenere aperto il canale con il pubblico in attesa di portare a compimento l’opera maggiore. D’altronde, anche se bravo, McEwan è a tutti gli effetti un narratore di successo, ben introdotto nei meccanismi dell’industria culturale. È comprensibile che ragioni in questo modo.

La debolezza del romanzo deriva dal soggetto, cioè dall’idea che dovrebbe sorreggerne l’impalcatura. La si può sintetizzare in una domanda. In sostanza, l’autore si è chiesto: che cosa può accadere nella notte di nozze di due giovani agli inizi degli anni Sessanta, diventati adulti prima della rivoluzione sessuale? La domanda è legittima. E poteva offrire l’occasione per una riflessione critica sugli sviluppi recenti della modernità. Ma McEwan si ferma prima, non sentendosela di portare fino alle estreme conseguenze l’idea abbozzata e accontentandosi di pochi cenni storico-sociologici, a volte abbastanza scontati («I cambiamenti sociali non procedono mai con passo regolare»). Un’occasione perduta. Perché, in letteratura, per risultare viva, la Storia deve essere avvicinata con maggiore determinazione.

Il narratore avrebbe potuto seguire anche una diversa ipotesi di sviluppo, facendo della vicenda una specie di caso da laboratorio utile a indagare «come il corso di tutta una vita» possa dipendere «dal non fare qualcosa.» Ma anche questa è una potenzialità che accenna appena, senza tuttavia seguirla coerentemente. Il risultato è un testo concettoso, che appare schizzato e quasi abbandonato subito dopo. Come se l’autore non avesse avuto voglia o tempo per lavorarci più a lungo.

Anche un’opera non riuscita, tuttavia, può avere qualcosa di interessante da dire. Mi è piaciuta soprattutto la struttura e, in particolare, la modulazione del ritmo narrativo. La vicenda si articola su tre piani cronologici: la prima notte di nozze, raccontata au relenti, dilatando i tempi e con il massimo della concentrazione dei dettagli; l’adolescenza dei due protagonisti, narrata sommariamente in flash back; e il dopo – la loro vita successiva all’evento catastrofico – riassunta in una vertiginosa appendice, in felice contrasto con il resto del racconto: centoventi pagine per narrare una notte e cinque per narrare quarant’anni. Efficace!

Bello anche il punto di vista adottato. Il narratore scava insistentemente nell’animo dei giovani personaggi, dando loro raramente la parola (et pour cause, dato che non hanno una reale coscienza di sé). Ma evita ogni forma di scontato psicologismo. La sua insistenza sembra piuttosto quella di un voyeur, che voglia spiare nell’intimità e nella camera da letto delle sue creature. Valeva la pena di accentuare questa scelta strutturale. Ne sarebbero derivati interessanti spunti per riflettere narrativamente sullo statuto interno dell’io narrante. Ma per fare ciò, era necessario un diverso linguaggio e una maggiore disponibilità a indagare gli aspetti morbosi dell’animo, come sarebbe stato congeniale a un Apollinaire o a un Cocteau, ma che, purtroppo, il britannico McEwan non si può permettere.

Ho apprezzato anche certe impennate al limite del grottesco, che ricordano la migliore tradizione realistica, da Geoffrey Chaucer in su. Un esempio. Il protagonista maschile, Edward, si è imposto una settimana di astinenza per essere nel pieno delle forze al momento del grande evento. Lei, Florence, prova invece il più completo disgusto nei confronti del sesso ed è inorridita all’idea di «fare entrare» qualcuno dentro di sé. Così, quando lui la bacia, dopo aver tanto mangiato e bevuto, la prima idea che le viene in mente è che possa vomitarle in bocca.

Ultima nota, a margine. Edward ama il rock’ n’roll, Florence (di professione violinista) la musica da camera. E, ascoltando le melodie moderne, ammette di non capire la necessità delle percussioni: «Con brani così elementari, in larga misura semplici quattro tempi, che bisogno c’era di tutto quel battere e martellare? A che scopo, quando già c’era la chitarra ritmica, e spesso anche il pianoforte?» Naturalmente, questo è il punto di vista del personaggio, che il narratore non può fare proprio.

Ma quella domanda non è, poi, tanto peregrina (coglie anzi una tendenza fondamentale della musica moderna, sulla quale sarebbe bene ritornare). Me la sono ricordata vedendo Across the Universe, il dispendioso filmino, ambientato nella stessa epoca, che Julie Taymor ha tratto dalle canzoni dei Beatles (e chissà quanto ha speso per i diritti d’autore e per le scene di massa!): di fatto, un lungo e insapore videoclip, servito con un frugale dialogato, qualche sparuta battuta di spirito (divertente quella sullo specchio), qualche bel grandangolo e una straripante insalata di balletti e di banalità. Imperdonabile, per lo sfarzo retorico, la cover di Let it Be.

Ian McEwan
Chesil Beach
EINAUDI
pp. 136, € 15,50
traduzione di Susanna Basso

lunedì 19 novembre 2007

Le sorelle di Čechov

Era da almeno una dozzina d’anni che non rivedevo Le tre sorelle di Anton Čechov. E, se avevo ben presente la storia, non ricordavo tuttavia quant’è potente la sua carica innovativa. Questo capolavoro della drammaturgia contemporanea è un vero e proprio concentrato di modernità. Non ha perso niente della sua freschezza. Ne rende pienamente conto la regia di Massimo Castri, che riesce a tenere insieme tutti i complessi fili del racconto, senza lasciare che un tema prenda il sopravvento sull’altro.

Il testo, del resto, richiede uno sforzo di recitazione fuori del comune. Sarebbe fin troppo facile affogare la poetica čechoviana nel minimalismo o eccedere in certe accensioni melodrammatiche. In questo, Castri è stato più che convincente, è riuscito a tirare fuori il massimo dai suoi attori: capaci di reggere alle tante sfumature del testo e di variare impeccabilmente l’intonazione della voce o i gesti a seconda del registro, che spazia dal drammatico all’umoristico a una fragorosa vivacità da operetta (commovente per bellezza l’uscita di scena a metà del primo dei due atti in cui è stato ridotto il dramma, originariamente in quattro).

Sulle Tre sorelle si è scritto molto. Perciò, mi permetto di concedermi un gioco: il gioco delle associazione letterarie. Me ne sono venute in mente tante, durante lo spettacolo. Ne cito qui qualcuna, perché esercizi di tale genere aiutano a riflettere sull’unità culturale dell’Europa e sul suo senso della crisi. Incomincio da Madame Bovary.

L’insofferenza per la monotonia della vita in provincia e l’ansia di un altrove morale che accomuna le sorelle Prozorov («Andare a Mosca! Vendere la casa, liquidare tutto qui, e via a Mosca!») è comune al grande personaggio di Flaubert, ed esprime la nostalgia di una pienezza esistenziale che continua a essere attesa e rincorsa, ma che non sarà mai trovata perché, in realtà, appartiene al passato, a quel paradiso perduto che è l’infanzia.

A differenza di Flaubert, tuttavia, Čechov ha studiato da medico, come Freud: ragiona da scienziato, in modo analitico. Deve accertare tutte le possibilità fenomenologiche: non gli basta un solo personaggio per investigare la psiche (scrive del resto nel 1901, un anno dopo la pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni). Deve moltiplicarlo, per ambizione di completezza. Ol’ga, Maša, Irina e il fratello Andrej hanno lo stesso DNA, sono parte di un comune destino. Ma, nel contempo, di quel destino mettono in luce aspetti differenti: rappresentano diverse sfaccettature della medesima psiche collettiva.

L’essenziale scenografia evidenzia molto bene le tensioni del mondo familiare in cui si trovano a vivere. Per tutto il dramma, la scena è occupata da pochissimi oggetti: un grosso tavolo rotondo, una dozzina di sedie e altrettante valigie. La simbologia è chiara. Da una parte, il radicamento vissuto come costrizione metafisica (le sedie che trattengono i personaggi , in una casa spaziosa quanto asfittica). Dall’altra, il desiderio di cambiamento, la prossimità di una partenza sognata e sempre rimandata.

Ma quelle valigie mi richiamano alla memoria anche En attendant Godot. L’attesa è uno dei temi centrali della letteratura novecentesca (e si potrebbero ricordare tanti altri titoli, a partire da Il deserto dei tartari di Buzzati). Non mi meraviglierei se, in qualche modo, il dramma di Čechov avesse contribuito a ispirare Beckett. Il raffronto è meno azzardato di quanto sembri. Ci sono tante battute che sembrano anticipare il teatro dell’assurdo (un esempio: «Se la stazione fosse vicina non sarebbe lontana, ed essendo lontana non è vicina», afferma Solënyj). E le discussioni fra le sorelle e i loro ospiti attorno a quella grossa tavola, per la loro inconsistenza quotidiana e l’impossibilità di una reale comunicazione, sembrano tanto anticipare i colloqui strampalati della Cantatrice calva di Ionesco. Forse è solo una mia suggestione. Eppure, è difficile non intravedere nelle Tre sorelle anche potenzialità di tale genere.

Certo, Čechov non può portare alle estreme conseguenze le novità della sua fantasia creatrice. Ha una formazione ottocentesca, rimane al di qua dell’avanguardia: avverte il bisogno di dare un ordine circolare alla sua storia. Il suo intento è quello di proporre un’aggiornata Comédie humaine. Assolutamente esplicita. Non a caso, il medico Čebutykin, leggendo il giornale, afferma meravigliato: «Balzac si è sposato a Berdicev.» È il riconoscimento, naturalmente ironico, di un’eredità culturale.

D’altronde, come Balzac, anche Čechov non può ignorare la realtà sociale, che tenderà a passare in secondo piano nella tradizione novecentesca. Il suo dramma mette in scena la lenta decadenza dell’aristocrazia russa, occidentalista come tutte le aristocrazie militari: inutilmente colta, poliglotta, intrisa dalla testa ai piedi di cultura latina e amante della civiltà francese a cui guarda con spirito di emulazione.

Ma questa aristocrazia si situa in una realtà senza rapporti dialettici. Siamo in Russia e la borghesia è troppo fragile per minacciarne il potere plurisecolare. Né Čechov prova simpatie per il movimento anarco-populista al quale s’interessarono Dostoevskij e Tolstoj. L’aristocrazia čechoviana entra in crisi per ragioni che sono tutte interne alla sua classe: una sorta di processo di necrosi. Ma perché? Perché entra in crisi?

Certo, c’è il corrompimento dell’integrità morale: la proprietà Prozorov finirà ipotecata a causa dei debiti di gioco contratti da Andrej, l’irrequieto fratello che aspira vanamente a una cattedra universitaria a Mosca. Ma il motivo scatenante della crisi è un altro, di ordine metafisico. Il dramma si conclude con queste parole pronunciate da Ol’ga: «La banda suona così allegra, così giocosa, e sembra quasi che tra non molto potremo finalmente sapere perché viviamo, perché soffriamo… Saperlo! Oh, saperlo!»

Ecco. Questa aristocrazia non ha più coscienza di sé, ha smarrito il senso della sua funzione storica. È priva dell’«elemento maschile», nel senso metaforico di Gramsci e nel senso psicologico di Freud. La morte del padre, avvenuta un anno prima dell’inizio del dramma, potrà anche essere di sollievo per Andrej, che dalla sua autorità si sentiva schiacciato, ma getta la famiglia Prozorov allo sbando.

Naturalmente, Čechov non può che prendere le distanze da questa umanità alla deriva, e la sua ironia quasi brechtiana provvede a evitare ogni equivoco interpretativo. Siamo assolutamente al di fuori del naturalismo ottocentesco. Nello stesso tempo, però, il grande scrittore russo prova un moto di partecipazione per le sue creature, e occorre rendere merito a Castri per avere dato risalto a questa fertile doppiezza.

A me viene in mente un’ultima suggestione, Il cielo sopra Berlino. Come l’angelo wendersiano, Čechov osserva l’umanità dei suoi personaggi da lontano, con occhio stupito: li osserva correre verso la rovina, senza poterli fermare, senza potere fare nulla. Ma quanto li ammira, questi personaggi che conservano una ricchezza d’animo che la sofferenza non riesce a soffocare! Perché nella sventura la vita pulsa anche più forte che nella serenità.

È un accostamento eccessivo? Non troppo, considerato che in tutta la storia del cinema non c’è autore più čechoviano di Wenders. Così lontano, così vicino.

Tre sorelle
di Anton Čechov
regia Massimo Castri
con Mauro Malinverno, Claudia Coli, Bruna Rossi, Laura Pasetti, Alice Torriani, Paolo Calabresi, Sergio Romano, Roberto Salemi, Milutin Dapcevic, Renato Scarpa, Roberto Baldassari, Angelo Di Genio, Miro Bandoni ● scene e costumi Maurizio Balò ● luci Gigi Saccomandi ● Produzione Teatro di Roma

mercoledì 14 novembre 2007

Le coop senz’anima

Non so per quale ragione l’ufficio stampa di Marsilio abbia voluto mandarmi Falce e carrello, il veemente libro di Bernardo Caprotti (con prefazione di Geminello Alvi) che, documenti alla mano, cerca di dimostrare che molte iniziative di Esselunga sono state ostacolate da Legacoop con l’appoggio delle amministrazioni locali. Non sono un economista e, anche se severamente critico nei confronti della mia parte politica, rimango un uomo di sinistra. Ma proprio per questo ho letto il libro (che altrimenti mi sarebbe passato inosservato) con maggiore interesse e attenzione.

Caprotti, ottantun anni, originario della Brianza, è l’imprenditore che ha introdotto i supermercati in Italia, e ancora oggi è alla guida della sua creatura: Esselunga. Non sono in grado di valutare la fondatezza del suo j’accuse. D’altronde, il suo è il punto di vista di chi è parte in causa. Il lettore serio e obiettivo dovrebbe sentire anche la voce della controparte. Di sicuro, si può dire che questo è un libro che vale la pena di consigliare. Per quel che mi riguarda, mi sento comunque di fare alcune osservazioni a margine.

La Legacoop (come ricorda Stefano Filippi nel lungo saggio pubblicato in appendice) fu fondata nel 1886 e raccoglie l’eredità delle società mutualistiche nate allo scopo di «migliorare le condizioni familiari e sociali dei soci». Ma è solo nel secondo dopoguerra, nell’Italia del miracolo economico, che Legacoop conobbe una progressiva espansione fino a trasformarsi in un vero e proprio impero economico. Oggi, con oltre 50 miliardi di euro, il gruppo è per fatturato la terza impresa italiana (dopo ENI e FIAT-IFI). Ha società quotate in Borsa, possiede assicurazioni e supermercati, costruisce case, è attivo nel settore delle grandi opere e, di recente, è entrato anche in quello dei telefonini.

Un tale gigante non persegue più scopi solidaristici, è un operatore economico a tutti gli effetti. Lo stesso Bruno Trentin, ex segretario della CGIL, lo ha detto in modo colorito quanto efficace: «Le cooperative hanno perso l’anima.» E i lavoratori che vi sono occupati non hanno affatto condizioni migliori che altrove. È giusto che le cooperative continuino a godere di un regime fiscale estremamente favorevole e di un’ampia serie di privilegi? No. La sinistra guidata dal PD, se vuole essere coerente con i propri principi, farebbe bene a ripensare all’intero sistema cooperativistico. Ne guadagnerebbe in chiarezza, ed eviterebbe di trovarsi di nuovo esposta a critiche pesanti sul piano elettorale come quelle che hanno fatto seguito alla tentata scalata di UNIPOL alla BNL.

Del resto, è venuta meno anche la finalità politica delle cooperative, la cui espansione coincide non solo con gli anni del boom ma anche con quelli della Guerra Fredda. Allora, per la sinistra comunista, era importante ramificarsi nel territorio attraverso una varietà di cinghie di trasmissione. E nelle regioni rosse le cooperative sono state anche più importanti delle sezioni di partito. Ma oggi la formazione e l’organizzazione del consenso passa attraverso altre vie. D’altronde, se è vero, come assicurano gli ex dirigenti DS, che il «collateralismo è finito» (e cioè che le cooperative sono ormai indipendenti dal partito), allora dovrebbe essere caduto anche l’ultimo ostacolo alla riforma: il tornaconto economico.

Tuttavia il libro di Caprotti può essere letto anche da un’altra angolazione, e cioè come un affascinante capitolo, scritto in prima persona, della storia dell’industria e del capitalismo in Italia. Ed è istruttivo rileggere le lotte sindacali dalla prospettiva di chi stava dall’altra parte della barricata: si capiscono molti degli errori compiuti. Ma bisogna anche dire quello che l’autore-imprenditore tace. Caprotti appartiene a una borghesia operosa, dotata di un forte senso civico (proviene da una famiglia antifascista) e cresciuta nel culto del lavoro. Quella borghesia non esiste più. Il capitalismo italiano, come quello internazionale, batte ormai altre strade. Lo ha ben documentato Luciano Gallino in L’impresa irresponsabile (edito da Einaudi nel 2005). Anche il capitalismo è rimasto senz’anima.

Bruno Caprotti Falce e carrello
prefazione di Geminello Alvi, MARSILIO, pp. 192, € 12,50

venerdì 9 novembre 2007

Le lingue di Mircea Eliade

Quale prezzo è lecito pagare per risalire «all’inarticolato momento del Principio»? Si potrebbe sintetizzare così – con questa domanda senz’altro enigmatica – il senso di Un’altra giovinezza, il film che Francis Ford Coppola ha tratto dall’omonimo romanzo di Mircea Eliade, edito da Rizzoli. Confesso di essere andato a vederlo senza aver letto nulla prima (ignoravo persino che il controverso intellettuale rumeno avesse scritto dei romanzi). Non so quindi come lo abbiano interpretato gli altri. Di un film così mi sento di parlare solo per punti.

Il plot. Indubbiamente, Eliade ha doti di grande soggettista. La storia prende avvio da una felice trovata, una di quelle che tutti quanti vorremmo avere. E che non riassumo, per non rovinare la sorpresa a chi ancora non avesse visto il film.

L’armonia incompiuta. In questa storia, con un inizio tanto folgorante, si affastellano tuttavia troppi ingredienti che non riescono ad armonizzarsi fra loro. Il risultato è una vicenda involontariamente barocca, intellettualistica e con un’ossatura traballante. La causa va cercata nell’esuberanza di Eliade, che scriveva troppo e troppo in fretta. Ma mi hanno sempre affascinato le storie di questo genere, che ambiscono potenzialmente al capolavoro ma si arrestano prima di arrivare alla compiutezza. Perché attraverso di esse – e cioè attraverso i molti spigoli rimasti, le ruvidezze, i passaggi incerti – si coglie la fatica dell’arte. Si può sbirciare nell’officina dell’autore e vederlo alle prese con una materia che oppone resistenza alla volontà creatrice. E così indipendentemente dalla sostanza di cui è composta la materia: parole, pigmenti, suoni, marmi, legno…

Il tempo. In questa storia ci si muove, avanti e indietro, lungo la linea del tempo. È un altro dei temi che mi interessano molto, e non vi trovo niente di fantascientifico o di fantastico. Vi vedo piuttosto una trasposizione letteraria di quanto facciamo ogni giorno. Quello che chiamiamo passato in realtà vive attorno a noi, nelle città e negli edifici che abitiamo, nelle parole che utilizziamo… Il senso della storia ci insegna a confrontare le differenze del divenire, ma il piacere della lettura ci fa ancora dialogare con Omero, Dante o Shakespeare come se fossero dei contemporanei.

Le lingue. Eliade ha probabilmente tentato un’impresa impossibile: è difficile infatti raccontare narrativamente le lingue. Ma, come mostra la tragedia, anche nel fallimento si può essere grandi. E di sicuro Eliade è stato grande nel trasmetterci l’amore per le lingue, antiche e moderne. A quell’amore sono particolarmente sensibile. Invidio chi conosce tante lingue. Non solo perché la realtà acquista senso unicamente nel momento in cui viene verbalizzata. Ma anche perché solo per mezzo delle lingue possiamo avvicinarci a quel Principio che, per il faustiano protagonista del racconto, rappresenta la fissazione di una vita. Secondo me, è qui la chiave di lettura, lo spitzeriano click: Dominic Matei come moderna incarnazione di Faust, al quale lo accomunano i poteri magici e il rimpianto d’amore.

Il click. Si può sacrificare l’amore per un’assoluta vocazione al sapere? O l’amore mette in crisi ogni vocazione? E se, scegliendo la vocazione al sapere, il sacrifico fosse fallimentare? Se restiamo con un pugno di mosche? («The Tree of Knowledge is not that of Life» ricorda un altro faustiano personaggio: il Manfred di Byron.) Avremo un’altra opportunità, un’altra giovinezza? E, avendola, per quale scopo la useremo? La saggezza degli anni ci consentirà di evitare i medesimi errori?

La Storia. Mi piacciono le storie che non ignorano la Storia. Eliade avrebbe potuto ambientare il suo plot in un tempo e in uno spazio “vuoti”, senza riferimenti agli avvenimenti del destino umano. Poteva scegliere la strada della metafora, dell’allegoria, della parabola. Invece, ha deciso che la nuova giovinezza del suo protagonista dovesse coincidere con la sventura dell’Europa: la dominazione nazista. Le contrapposizioni simboliche forse appesantiscono ancor più i contenuti. Ma, narrativamente, la scelta è efficace, perché conferisce al personaggio una più robusta solidità.

La regia. Mi piacciono i registi che hanno il senso dei dettagli, e in questo Coppola è maestro: il ventilatore sopra la scrivania, i cerchi del fumo di sigaretta… C’è da chiedersi come gli venga in mente di disporre certi oggetti in una scena o di suggerire agli attori determinati gesti. Meno mi sono piaciute le luci: troppi azzurri, troppi rossi (il tramonto da cartolina, le tre rose), troppo manierismo. Avrei preferito una maggiore sobrietà. Straordinaria la recitazione: grandissimo Tim Roth, sempre notevole Bruno Ganz (vorrei tanto rivederlo in Dans la ville blanche, diretto da Alain Tanner).

martedì 6 novembre 2007

Tanto rumore per nulla

Quando, dopo l’11 settembre 2001, l’amministrazione Bush varò una serie di misure antiterrorismo che limitavano le libertà individuali, espressi il mio dissenso sul settimanale per il quale allora lavoravo. Ma capivo il senso di quelle scelte. Devo confessare invece che, in questi giorni, seguendo la polemica sul diritto alla sicurezza che occupa le prime pagine dei giornali italiani, mi è difficile capire di che cosa si parli in concreto e soprattutto quali scopi si intendano perseguire. Mi sembra, quanto meno, che si sovrappongano con una certa disinvoltura tre problemi attigui ma distinti: quello dei rom, non integrabili o difficilmente integrabili; quello degli immigrati dell’est, potenzialmente integrabili; e quello della microcriminalità in generale.

Esiste un’emergenza come quella che dovette affrontare Bush? Nient’affatto. Questi sono gli ordinari problemi che uno Stato deve affrontare di volta in volta, sapendo che potrà tutt’al più ridurli ma mai risolverli una volta per sempre. A meno di voler fare come lo Stato fascista che, per dare l’impressione di aver riportato l’ordine nel Paese, pensò bene di censurare le pagine di cronaca nera dei quotidiani e di impedire che i romanzi polizieschi avessero protagonisti italiani.

Forse è vero che dalla società italiana proviene una «domanda di sicurezza». E capisco che a Fini & Co. non paia vero di poter cogliere un’occasione per rafforzare a poco prezzo il loro consenso elettorale. Ma converrebbe fermarsi a riflettere su che cosa vuol dire realmente quella domanda. Finora mi sembra che la discussione si sia concentrata tutta sugli stranieri. Vuol dire che l’opinione pubblica chiede di cacciare gli immigrati? Anche quelli della UE, come sono i rumeni? In tal caso, il governo rischia di far propria una presa di posizione mistificante. È comodo pensare che il problema della sicurezza si riduca essenzialmente al problema dell’immigrazione. Ma non è così.

Per rendersene conto, e per non scostarsi troppo dall’attualità (la violenza alle donne), basta andare a rileggersi l’indagine Istat presentata a Palazzo Chigi lo scorso 21 febbraio. Da quei dati risulta che la maggioranza degli stupri e delle violenze a danno delle donne italiane (ben il 69,7%) deriva da partner o ex-partner. I fatti di Tor di Quinto rappresentano l’eccezione, non la regola. Per punire reati di tale genere abbiamo già le leggi. Non si capisce perché non debbano bastare le consuete vie giudiziarie che, in uno Stato liberal-democratico, reprimono a posteriori il responsabile del delitto, senza invocare una preventiva nemesi etnica, che il diritto contemporaneo non può ammettere. «Giustizia senza vendetta» o vuol dire questo o non vuol dire niente.

Semmai i dati Istat suggeriscono di ripensare il ruolo della famiglia o, almeno, di rimettere in discussione la falsa immagine, salvifica e aproblematica, che ne viene data. Forse è chiedere troppo. Ma se questo non lo fa la sinistra, chi altri lo può fare? D’altra parte, varrebbe la pena di chiedersi se è proprio vero che le minacce alla sicurezza hanno raggiunto, rispetto al passato, livelli insostenibili che oltrepassano il grado fisiologico di criminalità in uno Stato democratico. Se la risposta è positiva (cosa che io non credo), allora attribuire una maggiore licenza d’azione ai prefetti sarebbe il minimo.

Vogliamo dirlo? I diritti sono in conflitto fra loro: dare la priorità a uno vuol dire ridimensionarne un altro e viceversa. Si può difendere seriamente il diritto alla sicurezza solo limitando le libertà individuali, a cominciare dal diritto alla privacy. Così è avvenuto nell’America di Bush, così è avvenuto nell’Italia degli anni di piombo, quando esisteva una reale emergenza. Coloro che chiedono più sicurezza sarebbero disposti a rinunciare a una parte della loro libertà o pretendono che la magistratura indaghi solo sugli altri: gli alieni, i mostri, gli stranieri, i disgraziati, i poveri cristi? Naturalmente, né il governo di centrosinistra né l’opposizione di destra pretendono di arrivare a tal punto.

La nostra odierna classe politica non vuole scontentare nessuno: strizza l’occhio a quelli che chiedono il polso di ferro e, insieme, a quelli che reclamano maggiori libertà e più tolleranza. E non sceglie, non decide: cavalca l’emozione del momento. La destra non fa eccezione. Quando era al governo, si è dimostrata più severa verso l’immigrazione extracomunitaria, perché sensibile ai voti popolari dei quartieri periferici che la sinistra, ormai attenta solo ai ceti medi, ha abbandonato al proprio destino, ma ha messo i bastoni fra le ruote ai giudici, per venire incontro alle necessità della nicchia più spregiudicata del capitalismo italiano, ma di fatto ostacolando l’intero corso giudiziario. Per questo, ho il sospetto che si faccia tanto rumore per nulla.

Ma, personalmente, non sarei nemmeno sicuro che più integrazione, più lavoro e più giustizia sociale (i sacrosanti scopi tradizionali della sinistra illuminista) vogliano dire più coesione e quindi minori tensioni civili. La storia, purtroppo, non dà ragione all’illuminismo. Democrazia e libertà avvantaggiano l’onesto quanto il disonesto. L’unico strumento che abbiamo, per quanto debole, è il governo della legge. Non certo quello della demagogia.

lunedì 5 novembre 2007

Il Galileo di Brecht

Appartengo a una generazione che per ragioni anagrafiche non ha fatto in tempo a vedere l’allestimento della Vita di Galileo di Giorgio Strehler con Tino Buazzelli. Questo mi ha permesso di apprezzare meglio l’odierna edizione (molto sfrondata rispetto all’originale) di Antonio Calenda, con l’ottimo Franco Branciaroli: certamente, uno dei grandi avvenimenti culturali di quest’anno. D’altra parte, a Milano, nel teatro intitolato a Strehler (che rimane uno dei migliori per acustica e visibilità) è impossibile non avvertire un sovrappiù di emozione.

Il testo è uno di quelli teatralmente più ostici. Non solo per la sua complessità tematica. Ma anche perché è costruito, di fatto, intorno a un unico personaggio centrale, che richiede all’interprete un’abilità e una misura da mattatore, capace di affacciarsi sul tragicomico e di rimanervi in bilico, senza cadere al di là: l’insistenza sul cibo si trascina dietro il ricordo della commedia («mi piace mangiar bene, e di solito è quando mangio che mi vengono le buone idee»), ma lo trapianta nel dramma contemporaneo. Il rischio è quello di strafare o, viceversa, di appiattire le tante sfumature di questo antieroe.

Il punto di vista degli avversari di Galileo (il potere e l’opinione pubblica) non trova invece espressione in un antagonista a tutto tondo, dalla personalità corposa, come può essere Claudio, re di Danimarca, in Amleto (l’altro grande capolavoro del dubbio, sia pure di tutt’altra natura). Si frammenta piuttosto nelle battute di figure minori, schizzate in modo unidimensionale: la signora Sarti, interprete di un pragmatico quanto miope buonsenso; il procuratore dello Studio di Padova Priuli; il pavido filosofo («Signor Galilei, la verità può portarci chissà dove»), la vacua figlia Virginia, i cardinali, eccetera.

Di qui, l’ampio spazio riservato all’analisi di coscienza di questo Galileo che ha sì una visione netta e chiara di che cos’è scienza ma, come noto, è anche tormentato da profonde incertezze interiori rispetto alla sua umanità e al suo ruolo di intellettuale. La scelta di Calenda di far indossare a Branciaroli la giacca “cinese” di Brecht (gli altri personaggi, ad eccezione del felliniano cantastorie, sono in costume d’epoca) accentua forse troppo una simbologia già sovraccarica nel testo. In compenso, il regista sottolinea in maniera molto persuasiva questo esame di coscienza del protagonista, che in gran parte incrina la poetica brechtiana del teatro epico, e trascina nel suo campo magnetico anche le figure a lui più vicine, al punto che queste ultime sembrano quasi delle proiezioni della sua coscienza.

È certo infatti che la tormentata trasformazione del discepolo Andrea Sarti e dell’amico Sagredo (dalle certezze consolidate al dubbio) replica un’analoga e ancor più tormentata maturazione che lo stesso Galileo deve aver compiuto in un tempo precedente al dramma. Non potrebbe insistere tanto nell’affermare che la scienza vive solo nel dubbio, se egli stesso non avesse vissuto quel dubbio sulla propria pelle. Il suo sarcasmo ha l’aspetto dell’ironia socratica, e non a caso il suo destino è analogo a quello del filosofo greco, a cui lo unisce anche la consapevolezza di non sapere («Sono stupido io. Non capisco niente di niente. Perciò sono obbligato a turare i buchi della mia conoscenza»). E ciò, anche se a differenza di Socrate, sfugge al tragico destino: per debolezza o codardia, certo, ma anche perché l’età della tragedia è definitivamente tramontata insieme all’universo politico-sociale che l’ha prodotta. Il giudizio di Brecht (nonostante i diversi ripensamenti nel corso delle tre stesure) è tutt’altro che categorico: l’autore prende le distanze dal suo personaggio, ma gli riconosce quel realismo delle «mani sporche», che nel 1948 Jean-Paul Sartre fece proprio elevandolo a morale positiva, contrapposta al velleitarismo dell’utopia rivoluzionaria.

Ma che cosa conserva di attuale questo capolavoro della drammaturgia contemporanea? Certo, non il conflitto tra scienza e potere o scienza e Chiesa, che era già risolto ai tempi in cui Brecht scriveva (e che, coerentemente, Calenda ridimensiona). La scienza ha risolutamente vinto la sua battaglia. È vero che, nel dramma, Galileo ricorda di continuo il destino di sconfitta di Copernico e Bruno. Ma questi due intellettuali sono stati sconfitti soltanto sul piano umano. Se Galileo li può citare è perché le loro ipotesi sopravvivono e travalicano la loro esistenza personale (lui stesso, d'altronde, afferma che un’opera di scienza non può essere scritta da un uomo solo). Il potere ha la facoltà di reprimere gli uomini, non di arrestare lo sviluppo delle idee.

Quello che rimane attuale, secondo me, è piuttosto il conflitto tra verità e ideologia, che è un tema più ampio e problematico. Naturalmente, Galileo ha una concezione della verità scientifica prenovecentesca: per lui, ciò che è vero, contrapposto a ciò che si crede, è quello che si può vedere sperimentalmente con i propri occhi, attraverso l’ausilio di appropriati strumenti (il telescopio). A tal proposito, c’è una scena famosa, molto emblematica. Trasferitosi dalla Repubblica di Venezia alla corte dei Medici a Firenze, Galileo riceve nel suo studio un filosofo e un matematico, e li invita a guardare nel telescopio le nuove «stelle medicee», come le ha battezzate con furbizia. Il filosofo gli chiede prima la «cortesia di una disputa», in pieno stile medievale. Lo scienziato risponde: «Permettetemi un consiglio: cominciate col dare un’occhiata. Vi convincerete subito.» Ma i suoi interlocutori rifiutano ostinatamente, e dopo un’accesa discussione il matematico mette termine così alla discussione: «Se fossi sicuro di non irritarvi ancor più, mi permetterei di affacciare la possibilità che ciò che si vede attraverso l’occhiale sia ben diverso da ciò che è nel cielo.»

Siamo di fronte al contrasto più forte di tutto il dramma. Da una parte, c’è il punto di vista di Galileo che confida nell’autoevidenza della verità, che ha bisogno soltanto di essere guardata. Dall’altra, quella di chi, accecato dall’ideologia, rifiuta di guardare, ritenendo che se quanto vediamo è in contrasto con quel che dimostra l’auctoritas (in questo caso, Aristotele), allora vuol dire che i sensi ci traggono in inganno. Branciaroli sottolinea con un breve ma eloquente silenzio la reazione sbigottita di Galileo. È il silenzio di chi, dopo essersi illuso della forza della ragione umana, si accorge all’improvviso che è vano discorrere con i sordi.

Ma, forse, è anche il silenzio di chi, almeno per un istante, valuta la possibilità che gli avversari, nell'errore, abbiano tuttavia ragione. Galileo non conosce Nietzsche, non conosce Einstein, non conosce Max Planck. Ma Brecht sì, è cresciuto a pane e avanguardia. Sa molto più del suo personaggio. Sa che anche quella verità scientifica che Galileo pretende di ricostruire per mezzo di un telescopio è parziale e, a sua volta, mischiata all’ideologia. Sa che la scienza contemporanea ha rinunciato a parlare in termini di verità e di ragione: non ci garantisce più che le sue scoperte sono vere, si limita a dirci che sono probabili.

La scienza ha vinto la sua lotta con il potere. Ma è stata costretta a riconoscere di non essere di gran «vantaggio all'umanità». Si presenta, per sua stessa ammissione, debole, incapace di riscrivere il maestoso libro della physis. Concettualmente debole. Non ha più quella fiducia nel sapere e nella rigenerazione civile che il Galileo brechtiano continua a coltivare fino all’abiura, tende piuttosto a ridursi a tecnica e a confondersi con questa che è la sua più formidabile creatura. E ciò la espone alle manipolazioni che ben conosciamo. E che Brecht non poteva ignorare.

Vita di Galileo
di Bertolt Brecht
traduzione Emilio Castellani
regia Antonio Calenda
con Franco Branciaroli e (in ordine alfabetico) Lello Abate, Giancarlo Cortesi, Daniele Griggio, Giorgio Lanza, Lucia Ragni ● scene Pier Paolo Bisleri ● costumi Elena Mannini ● musiche Germano Mazzocchetti ● luci Gigi Saccomandi ● coproduzione Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e Teatro de Gli Incamminati

giovedì 1 novembre 2007

Andersen e la democrazia

Nel suo commento del 18 ottobre, Greystoke ha scritto con efficacia metaforica: «Nelle stanze del Palazzo si respira un’aria di insicurezza. La maschera mediatica è ormai sgualcita, si è aperto uno squarcio nel cielo di carta del teatrino politico». Non credo che intendesse unirsi al coro di quanti sostengono che il governo Prodi (che pure, certo, non gode di buona salute) sia arrivato al capolinea. Conoscendo le sue simpatie pasoliniane, mi sembra più probabile che volesse richiamare l'attenzione sulla perdita di vitalità del nostro “sistema”: cioè il modello di democrazia e di organizzazione sociale che si è storicamente realizzato in Italia e in Occidente. Così intese, le sue parole suggeriscono alcuni spunti di riflessione.

1) Anzitutto, è utile precisare che un’aggiornata riflessione critica sulla democrazia e sul capitalismo non scaturisce, necessariamente, dal velleitarismo ideologico. È lecito dissentire da ogni nostalgia per i grandi Balzi in Avanti del passato recente e, nello stesso tempo, chiedersi se per caso il modello politico-sociale uscito vittorioso dalla Guerra Fredda non si porti dietro delle contraddizioni che rischiano di alterare o addirittura capovolgere i suoi scopi. Certo, si può osservare con soddisfazione che la democrazia è andata conquistando sempre più Stati al mondo: secondo il censimento della Freedom House, siamo passati dalle ventidue democrazie del 1950 alle attuali ottantacinque. Ma questa non dovrebbe essere una scusa per chiudere gli occhi di fronte ai mali congeniti alle democrazie dell'Occidente, a cominciare dall’inadeguatezza dei governi a contrastare l’anarchia finanziaria e dal cedimento della politica alle tentazioni della demagogia (una deviazione, quest'ultima, che di recente ha denunciato, sulle pagine del «Corriere della Sera», anche un liberale DOC come Giovanni Sartori).

2) Il re è nudo: si potrebbero sintetizzare così le parole di Greystoke. Anche nella fiaba di Andersen, tuttavia, non basta che il re sia nudo: è necessario che i sudditi ne prendano atto e che non si ostinino, per piaggeria o per paura, a negare l'evidenza di quel che sembra un'assurdità inconcepibile. Ma neppure la «voce dell’innocenza», che dice ciò che gli altri tacciono, è di per sé sufficiente. Perché, in assenza di alternative, i sudditi potrebbero convincersi che bisogna tenersi il re che è toccato in sorte, malgrado l’esibizione delle sue vergogne. E nemmeno la presenza di un’alternativa è in quanto tale sufficiente. È vero, come osserva Machiavelli, che «li uomini mutano volentieri signore credendo migliorare», ma solo per accorgersi subito dopo di «avere peggiorato». La disillusione dell’esperienza storica potrebbe indurre i sudditi a ritenere che, a conti fatti, è preferibile un re nudo – ma di cui sono note le debolezze – a un’alternativa che promette molto ma della quale sono ignote le potenzialità negative. Lo scetticismo ha le sue buone ragioni, e sarebbe sbagliato liquidarlo snobbisticamente. Se vuole affermarsi, il nuovo che avanza (quando esiste) ha sempre l'obbligo di confrontarsi con la saggezza dell’esperienza consolidata. E sforzarsi di proporre una diversa e più fertile filosofia della storia.

3) Nella fiaba di Andersen (di argomento eminentemente politico), il re si espone nudo di fronte ai sudditi a causa della sua vanità: la passione per le stoffe e i vestiti. «Mentre di solito di un re si dice che è nella sala del Consiglio, di lui si diceva soltanto: “È nel vestibolo!”» Trascura, insomma, gli affari del governo a vantaggio dell’apparenza. Poiché le fiabe, come i miti, mettono in scena strutture profonde dell’anima e della società, che scavalcano i limiti temporali, non sarebbe troppo anacronistico leggervi una metafora della sudditanza al potere mediatico a cui si adeguano, per scelta o per forza, tutti i leader contemporanei (non solo italiani, non solo dell’Occidente).

4) Ma, a mio parere, è un altro il cancro che rischia di esaurire la nostra democrazia, e cioè la sua debolezza decisionale. Per sua natura, la democrazia è costretta a riconoscere (e disciplinare) un numero sempre crescente di diritti che, a loro volta, sono per definizione in conflitto tra loro. Con la conseguenza che i governi si trovano a dover affrontare un numero sempre maggiore di problemi (sconosciuti alle origini delle democrazie) e, allo stesso tempo, sono sempre meno nelle condizioni di governare, perché nell’era della globalizzazione i problemi maggiori sfuggono ai confini nazionali. Di qui, lo scandalo di un apparato di governo sempre più elefantesco e burocratizzato, al quale non corrisponde un’adeguata efficienza nell’azione.

5) Naturalmente, la complessità di tali questioni richiederebbe un approccio ben più approfondito. Qui, si vuole solo ricordare che, così come è esistito un socialismo reale che era l’opposto dell’ideale socialista ma nello stesso tempo ne portava alla luce le contraddizioni interne, analogamente esistono una democrazia e un capitalismo reali che hanno poco da spartire con quella democrazia e quel libero mercato immaginari le cui virtù sono universalmente e fin troppo acriticamente decantate. Ma la critica, se vuole essere tale, non può ammettere alcun principio sacro: nonostante la sua voce non sia mai quella dell’«innocenza» di cui parla Andersen, ha l’obbligo di mettere in discussione anche le materie più scabrose.

martedì 16 ottobre 2007

La guerra dei numeri

Ieri sera, a Porta a porta, Enrico Letta ha ripetuto la sua soddisfazione, e quella degli altri architetti del Partito democratico, per i 3 milioni e rotti di persone che domenica si sono recati a votare alle primarie per l’elezione del segretario e dell'assemblea costituente del nuovo partito. Andrea Ronchi, a sua volta, ha ribattuto ricordando le 500 mila persone che sabato hanno partecipato a Roma alla manifestazione di Alleanza nazionale. E Paolo Bonaiuti, di Forza Italia, ha fatto valere i 2 milioni accorsi il 2 dicembre scorso in piazza San Giovanni ad ascoltare Berlusconi.

Di fronte a queste cifre si ha l’impressione che l’Italia sia un esempio di salute pubblica che fa impallidire quella degli stati in cui la democrazia ha più antiche radici: Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti. Del resto, poche ore prime, a Otto e mezzo, Fassino aveva sottolineato che da noi la partecipazione politica è più alta che altrove (ed, evidentemente, oltre alle manifestazioni recenti, aveva in mente le elezioni politiche del 2006, che hanno visto un’affluenza alle urne dell’86 %, inusitata altrove).

Ma, in un blog seguito da poche persone e che non ha problemi di consenso, possiamo dire quello che per ragioni di opportunità si deve tacere in televisione e sulla stampa: dal punto di vista della democrazia, quei numeri significano poco. Sono il prodotto, anzi, di una battaglia politica drogata (diverso è il caso dei cinque milioni di lavoratori che si sono espressi nel referendum sul Protocollo in materia di welfare, come nel salotto di Vespa ha ricordato un Gavino Angius più realista degli altri, ma anche molto più sottotono).

Perché, nonostante il loro carattere altisonante, quelle cifre lasciano perplessi? Per due ragioni.

La prima è che il senso delle azioni che hanno portato a quei risultati è viziato dalle condizioni in cui si svolge la politica odierna, e cioè dall’eccessiva esposizione mediatica, dalla personalizzazione dei leader (ormai non più distinguibili dai vip dello spettacolo) e dall’insistita logica dell’emergenza a ogni costo. Quelle cifre testimoniano il successo di un grande spettacolo di massa. Ma il loro reale contenuto politico è assai modesto. Il governo non è più debole a causa delle manifestazioni di AN o di FI (lo è semmai per ragioni interne, dovute alla sua costituzione). E il 75 % dei voti raccolti da Veltroni dimostrano solo che le primarie sono uno strumento di facciata: il plebiscito non è un metodo della democrazia, lo avevamo scritto tutti quando nel marzo 2004 Putin stravinse le elezioni presidenziali in Russia con il 71,3 % dei voti. La democrazia esiste laddove c’è una reale competizione e non dove il risultato è scontato (non a caso, ai tempi della Guerra Fredda e della conventio ad excludendum ai danni del PCI, dicevamo che in Italia la democrazia era bloccata. Possibile che proprio coloro che hanno subito quella condizione lo abbiano dimenticato tanto facilmente?).

La seconda ragione è che questa battaglia per l’audience risponde a puri obiettivi tattici. Da una parte, serve alle holding partitiche a mantenere costantemente vivo il contatto con il loro “pubblico”, e per questo nel “discorso della politica” (come lo chiama Habermas) la funzione fàtica (quella che richiama l’attenzione dell’ascoltatore) rischia di prendere il sopravvento sulla funzione referenziale (ciò di cui si parla, le idee, i progetti, gli scopi). Dall’altra parte, serve a mandare un messaggio all’avversario e intimidirlo mostrandogli la propria forza: un modo, insomma, per esibire i muscoli. Entrambe queste manovre tattiche sono fondamentali per la politica, e non c’è da scandalizzarsi. Ma non sono affatto un segno di novità. Tutt’altro. E, soprattutto, non sono di per sé garanzia di buona amministrazione dello Stato.

venerdì 12 ottobre 2007

Il laburismo all’italiana

Sull’«Unità» del 7 ottobre, Piero Fassino è tornato a spiegare le ragioni che fanno del Partito democratico uno «strumento per cambiare la politica italiana» e «ridisegnare il sistema politico», superandone la «crescente frammentazione» (14 gruppi in Parlamento, 11 partiti al Governo). Il ragionamento, lucido ed equilibrato, mira a rassicurare gli scettici di sinistra, ribadendo che la nascita del PD non è «un’operazione burocratica di apparati o di ceto politico».

Su questo punto possiamo credergli. Del resto, da buon piemontese, Fassino è alieno ai toni trionfalistici, e ha una coscienza delle difficoltà e dei problemi del suo fronte politico che manca ad altri. Non a caso scrive, onestamente, che il PD ha la «possibilità» (cioè un'opportunità da cogliere e da "costruire", piuttosto che qualcosa di già certo) di essere il «primo partito italiano», rappresentando «oltre un terzo del corpo elettorale». Ma, soprattutto, insiste che il PD è uno «strumento» (usa ben quattro volte questa parola in una sessantina di righe): ovvero un mezzo che «donne e uomini» sono invitati a usare fin dalla sua fondazione, domenica prossima. Va bene, questa è una novità nel panorama politico italiano, diamogliene atto. Ma uno strumento non ha importanza di per sé, acquista valore soltanto in virtù degli scopi che ci si prefigge e in funzione dei quali viene messo in atto.

Ed è, per l’appunto, quando dovrebbe parlare degli scopi che Fassino risulta colpevolmente deludente. Il segretario DS evita infatti di approfondire la questione, preferendo piuttosto concentrarsi sulle conseguenze della nascita del nuovo partito, «un progetto che unisce» («in una politica segnata da divisioni, scissioni e separazioni») e che pertanto costringe anche le altre forze politiche a riflettere su nuove e più ampie forme di aggregazione. D’accordo. Ma cosa farà il PD? Quali compiti si porrà, una volta «ridisegnato» il sistema politico italiano e superata la frantumazione parlamentare?

La risposta arriva solo indirettamente e in modo molto sintetico. Il PD sarà quello che «tutti chiedono» (sic!): cioè «una grande forza progressista e riformista capace di tenere insieme modernità e diritti, innovazione e tutele, crescita economica e coesione sociale, meriti e bisogni, partecipazione e decisione». Evviva! Gli scopi sono questi. E ne saremmo contenti, se non fosse che sono scopi drammaticamente in contraddizione fra loro. Al di là della vaghezza di linguaggio, è chiaro infatti che Fassino vuole salvare capre e cavoli: da una parte, venire incontro alle esigenze del moderno capitalismo che chiede più duttilità e meno vincoli; dall’altra, garantire quella protezione sociale che rimane una necessità per la stragrande maggioranza degli italiani.

Questo vuol dire che il Partito democratico sarà il partito della sintesi, di marxiana memoria? Oppure sarà un partito ondeggiante e incapace di scegliere, come già sembra nella culla? Insomma, un ibrido. Un partito che mostra di avere tanta voglia di adeguarsi alle parole d’ordine del neoliberismo, che Tony Blair ha largamente sdoganato a sinistra e alle quali, del resto, i dirigenti ulivisti guardano con tacita simpatia fin dall’epoca dei governi D’Alema. Ma, nello stesso tempo, un partito che non se la sente di sacrificare quella morale solidaristica che ha ereditato dalla sua tradizione e si fa ancora tanti scrupoli di coscienza che, invece, il partito laburista britannico più cinicamente ignora, nonostante i ben più stretti legami sindacali.

Lo storico Eric Hobsbawm, una volta, definì Blair una «Thatcher in pantaloni». È quello il modello inconfessato e inconfessabile a cui il PD vorrebbe ispirarsi ma non può?

martedì 9 ottobre 2007

Antipolitica e antidemocrazia

I politici hanno l’obbligo di mostrare il lato buono del loro volto, e provare a suscitare entusiasmo in chi li ascolta o li legge. A modo suo ci prova anche Romano Prodi, il meno combattivo dei politici italiani. E, sul numero zero del bimestrale «PD» (fantasia del nome!), neonato organo di discussione del nascente Partito democratico, scrive: «Il PD può respingere l’antipolitica, uno dei più gravi rischi che il sistema democratico può correre». Bene. Ne siamo felici. Vorrà dire che sarà un partito molto forte. Era ora!

Ma a che cosa diavolo allude il premier parlando di antipolitica? Possibile che abbia in mente le sparate autunnali di Beppe Grillo? Intendiamoci. Qui, non si vuole affatto negare che il comico genovese sia un incosciente e che abbia fatto la cacca dove non doveva. Però possiamo sinceramente pensare che lui e il suo pubblico siano tanto potenti da rappresentare «uno dei più gravi rischi che il sistema democratico può correre»? Suvvia, siamo seri!

E, poi, anche ammesso che sia così, che cosa potrebbe fare il Partito democratico per respingere l’antipolitica? Emarginare i sediziosi? Risolvere le contraddizioni politiche e sociali che sono il vivaio dell’antipolitica? O tutte e due le cose insieme (un colpo al cerchio e uno alla botte)? Ma questi non dovrebbero essere compiti del governo più che di un partito?

Forse, però, quella di Prodi è semplicemente un’uscita propagandistica. L'ipotesi è verosimile, visto che qualche riga sotto il presidente del Consiglio si prende il gusto di lanciare una frecciatina (tanto innocua, per la verità) all’indirizzo dell’eterno rivale Berlusconi: «Noi abbiamo voluto un partito vero, disciplinato da regole e che si configuri come organismo collettivo. Tutto il contrario dei partiti oligarchici o personali.» Mah! Speriamo. (In ogni caso, perché un partito oligarchico o personale sarebbe meno vero di un partito che si configura come organismo collettivo? Boh! E, comunque, il partito vero è anche più efficace dei partiti non veri? Ha idee più chiare? Saprà convincere gli elettori?)

Ancora più probabile, tuttavia, è che, parlando di antipolitica, Prodi alluda in realtà al più generale clima di sfiducia, che avvolge non tanto la politica tout court, vagamente intesa, quanto i concreti risultati delle decisioni politiche e il modo in cui esse vengono prese in un sistema democratico. In questo bisognerà piuttosto vedere un’influenza dell’antidemocrazia, che storicamente ha sempre avuto più successo della democrazia stessa (chissà perché lo si dimentica così facilmente, nonostante le molte dittature dell'Europa occidentale: non solo il fascismo e il nazismo, ma anche la Spagna di Franco e la Grecia dei colonnelli). Ma bisognerà vedervi anche una legittima protesta dei cittadini, insoddisfatti di fronte alle troppe promesse non mantenute.

Se fosse così, altro che Partito democratico! Ci vorrebbe ben di più. A cominciare da un serio riesame della storia della democrazia moderna così come si è realizzata in Occidente e, magari, da uno sforzo per correggere almeno le principali storture. Per fare tanto, tuttavia, bisognerebbe rinunciare agli slogan propagandistici e alle conclusioni prefeconzionate. Chissà se è chiedere troppo.

domenica 30 settembre 2007

Il Mondo Nuovo di Walter

Sulla «Stampa» del 21 settembre, Walter Veltroni ha illustrato i principi e gli obiettivi di politica estera di cui il futuro Partito democratico dovrebbe farsi carico per un "mondo sostenibile". La riflessione prende le mosse da questa premessa: «All’inizio del XX secolo la popolazione del pianeta superava di poco il miliardo di persone; in soli cento anni, il numero si è sestuplicato e due abitanti su cinque della Terra sono indiani o cinesi. E’ un mondo nuovo, che vede crescere l’aspettativa di vita degli europei di quasi tre mesi ogni anno e che registra il calo drammatico della vita media nei Paesi più poveri dell’Africa.»

Di qui, una serie di priorità che Veltroni propone all'attenzione delle «risorse della nostra comunità nazionale, in particolare delle nuove generazioni». L'elenco è lunghissimo: il multipolarismo, le sfide globali, la riforma delle Nazioni Unite, il processo di integrazione politica europea, la posizione geostrategica del Mediterraneo, la questione dei Balcani e la questione turca, il rapporto con gli Stati Uniti, i problemi dell'Africa, la difesa dei diritti umani e la lotta all'ingiustizia, la crisi ecologica e le risorse energetiche, la minaccia nucleare.

Curiosamente, Veltroni non fa menzione della questione israeliano-palestinese e, nel citare positivamente il multilateralismo, non si cura di chiarire come dobbiamo regolarci nei momenti di attrito con il mondo islamico. Ma il punto non è questo.

Il punto è che Veltroni ragiona come se fossimo una superpotenza e potessimo imporre la nostra agenda politica agli Stati alleati, e come se in Italia avessimo un sistema presidenziale con un sistema bipartitico perfetto e non fosse necessario scendere a compromessi per mantenere in vita un governo di coalizione, sempre sull'orlo della crisi. Per di più, finge che in politica estera basti la buona volontà per realizzare le cose. Naturalmente, sa bene che non è così. Sa che il mondo è il campo di battaglia di poderosi interessi in contraddizione fra loro. Ma preferisce non dirlo. Del vecchio adagio gramsciano gli è rimasto in mente solo l'ottimismo. E propone una visione sorridente della politica, strizzando l'occhio alla «generazione figlia del programma di Erasmus».

Ma il suo elenco è tanto zeppo quanto inutile, perché a sorreggerlo non c'è alcun chiarimento strategico. E, soprattutto, è troppo sproporzionato rispetto alla realtà. Il rischio è di trovarsi con un pugno di mosche. Essere ambiziosi non vuol dire spararle grosse. Ma saper individuare una strada percorribile, possibilmente spaziosa, e che porti lontano.

mercoledì 26 settembre 2007

L’ombra del passato

E se il Partito democratico andasse incontro allo stesso destino del PDS? Una delle più forti motivazioni a favore del cambiamento, addotte da Achille Occhetto e dalla maggioranza del Comitato centrale del PCI, a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, era che bisognasse dare vita a una nuova formazione politica per aggregare le forze riformatrici emergenti nel Paese, che la tradizione comunista non era in grado di avvicinare. La motivazione, in sé, era nobile. Ma il calcolo fu disatteso. Perché, nel corso di un decennio e mezzo, il PDS prima e i DS dopo si sono ritrovati all'incirca con la metà dei voti del vecchio PCI.

Che cos'è successo? È successo che, dopo il crollo del muro di Berlino, gli ex comunisti hanno fatto sì i conti con il passato, ma sul versante più semplice e scontato. Si sono limitati a ribadire la loro distanza dal socialismo reale, così come si era articolato nell'Unione sovietica e nei paesi dell'Est europeo. Già! Ma il PCI era stato filosovietico soltanto a parole, nei fatti aveva incarnato a tutti gli effetti una forza socialdemocratica. Troppo facile lasciarsi alle spalle le parole d'ordine del leninismo e dello stalinismo!

È su un altro versante che bisognava fare i conti: quello della crisi delle socialdemocrazie europee, appunto, già annunciata negli anni Ottanta (gli anni della Thatcher e di Reagan), e poi esplosa nel decennio successivo. Tali conti non sono mai stati fatti, neppure ora. Eppure non si tratta di una cosa da poco. Perché, per dirla un po' grossolanamente, a cosa serve una sinistra di governo, se gli Stati non hanno più la forza, né economica né politica, di assicurare quell'uguaglianza delle opportunità senza la quale non esiste nessuna politica di sinistra?

Di fatto, quella del governo Prodi è una politica democristiana: un occhio alle esigenze del mercato e un altro alla sicurezza sociale. Per giunta, una politica al ribasso su entrambi i fronti. Ma se è la stessa sinistra a riconoscere che questa, al momento, è l'unica soluzione realistica possibile, allora perché l'elettorato non dovrebbe preferirle le forze storiche che di quell'esperienza sono le più coerenti eredi?

sabato 15 settembre 2007

La scaletta della sinistra

Una volta appartenevo, più o meno, all’area di destra del PCI. Per la verità, mi disturbava l’eccessiva indulgenza verso il craxismo dimostrata da molti leader del riformismo milanese. Però ne apprezzavo la lucidità di ragionamento, così lontana dallo sterile ideologismo che paralizzava tanta parte della sinistra, italiana ed europea (per tacere di quella latinoamericana). Ma, soprattutto, del riformismo condividevo gli obiettivi fondamentali: il programma di lavoro.

Per dirla in parole semplici, ero convinto che "migliorare" la società volesse dire provare a combinare gli scopi del liberalismo e quelli del socialismo. Da una parte, le libertà; dall’altra, l’uguaglianza. Una sintesi tutt’altro che facile e sempre instabile, che però si era già rivelata fruttuosa in qualche parte dell’Europa occidentale, garantendo un’organizzazione della società più giusta ed equa. Era realistico pensare che potesse funzionare anche in Italia.

Su una politica di questo genere, socialisti e comunisti avrebbero potuto tornare a convergere. Se i loro fini tattici per il momento differivano, il DNA era lo stesso. La storia era lì a dimostrare che entrambi i due principali tronconi della sinistra italiana si collocavano di fatto nella piccola ma operosa famiglia della socialdemocrazia europea, non in quella più grande ma miope del socialismo reale. Questa era la mia convinzione.

Poi, mi sono sentito scavalcato a destra. E ho smesso di fare politica in modo attivo (continuando però a interessarmene, da elettore e da giornalista). Perché non capivo più. Intendiamoci, sono più aristotelico che platonico: non sopravvaluto l’importanza e la forza delle idee. Ma, secondo me, un faro nell’azione è meglio averlo. È difficile scrivere un articolo o un libro senza stendere prima una scaletta, che certo si potrà poi correggere e, se necessario, anche ribaltare, ma possiamo correggerla appunto perché l’abbiamo prima abbozzata. E la scaletta dell'odierna sinistra italiana mi pare alquanto confusa o, quanto meno, troppo poco ambiziosa.

In fondo, al di là delle dichiarazioni programmatiche, ci accontentiamo di amministrare il presente. E va bene, niente vieta di farlo. Ma, in questo caso, la politica muore. Si riduce a pura tecnica o a sistema d'impresa. La bontà o meno di un'azione o di un programma di governo si misura allora nei termini dell'economia. Sappiamo offrire ciò che gli elettori domandano? La nostra offerta è migliore di quella della destra? E se, per disgrazia, scoprissimo che loro amministrano meglio? Questo è un interrogativo che mi riempie di angoscia.

domenica 9 settembre 2007

Un’idea onirica

Nel vocabolario della sinistra, c’è una voce che è stata del tutto rimossa: alienazione. E, forse, meglio di qualcunque altra cosa è tale rimozione a dare l’idea di quanto sia radicale la mutazione genetica avvenuta in questo fronte del mondo delle idee.

Mettere in soffitta Marx è stata una decisione saggia dal punto di vista della politica praticata. Ma, dal punto di vista della cultura (la teoria politica), era necessario fare un bilancio più sereno e meno frettoloso, evitando di gettare il bambino con l'acqua sporca. In effetti, la critica dell’alienazione collocava la cultura di sinistra all’interno di una più ampia tradizione: quella di un umanesimo democratico e industrioso, che si poneva l’obiettivo di liberare l'uomo dai suoi mali storici. L’antitesi di quell’altro umanesimo, aristocratico e letterario, notoriamente incline a rifuggire dalla realtà per ripiegare nel culto di una bellezza tanto squisita quanto sdegnosa.

Fu questa tensione liberatoria (molto più del confuso programma di una società alternativa) ad avvicinare al movimento comunista una massa di intellettuali di varia provenienza: neorealisti, esistenzialisti, neopositivisti, liberali, francofortesi... Certo, non tutto è oro quel che luccica. A sostenere quella tensione era un eterogeneo bagaglio ideologico che - a dispetto delle intenzioni - finiva spesso con il mettere le «braghe» alla Storia.

Nessuno può seriamente rimpiangere le dispute dottrinarie che hanno tanto accalorato molti funzionari di partito e molti intellettuali, limitandone di fatto la forza creativa e irrigidendone la produzione delle idee. L’ideologia è sempre una brutta bestia. Ma la critica all’alienazione conteneva, in nuce, anche la critica all’ideologia, in quanto essa stessa strumento di alienazione.

Qui, la rottura con il passato è stata più che deleteria, e ha finito con l’abbandonare ogni progetto di liberazione a forze religiose di varia natura, che possono oggi legittimamente presentarsi come le sole rimaste a difendere le ragioni dell’uomo contro le minacce delle due forze uscite vincitrice nella lotta della modernità: il Capitalismo e la Tecnica.

Questo blog nasce, senza farsi troppe illusioni, dall’idea quasi onirica che la sinistra, se vuole sopravvivere, debba tornare, con il senno di poi, a ripensare la propria funzione critica, e farsi di nuovo portatrice di un umanesimo aggiornato, capace di mettere il dito nella piaga delle alienazioni. Non si proporranno ricette né programmi, e neppure si trarranno conclusioni (non è questo il luogo).

Si proverà, invece, a verificare qualche ipotesi. E, soprattutto, ad affondare lo sguardo in alcuni fatti emblematici del presente culturale e politico, cercando - se possibile - di estremizzarne le contraddizioni, perché è la critica che può salvarci dall’ideologia e dalle opinioni passivamente ricevute.

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