Jeremy Rifkin: la civiltà dell’idrogeno (2002)


di Giuseppe Gallo

L’Italia e l’Europa si trovano di fronte a una grande opportunità storica: riconquistare la leadership internazionale mettendosi alla guida del passaggio da un’economia fondata sui combustibili fossili (petrolio, carbone, gas naturale) a una fondata sull’idrogeno. È la tesi di Jeremy Rifkin, uno dei massimi economisti americani, presidente della Foundation on Economy Trends di Washington, docente alla Warthon School of Finance and Commerce, e autore del saggio Economia all’idrogeno (Mondadori, pp. 344).
Certo, la transizione non è affatto scontata, i fattori di resistenza sono forti e gli interessi in gioco enormi. Ma, secondo Rifkin, sarebbe un grave errore perdere un’occasione come questa che, a partire dal settore energetico, ci restituirebbe l’indipendenza dal Medio Oriente e dagli Stati Uniti. Del resto, proprio l’aumento del prezzo del petrolio (30 dollari al barile) potrebbe incoraggiare una politica che punti con maggiore decisione sulle fonti di energia alternativa. E l’idrogeno sembrerebbe quella più realistica: è accessibile, pulito, inesauribile.
Né si parte da zero: la sperimentazione è in corso, le tecnologie ci sono. Nel 1999 l’Islanda, per prima, ha dato il via a un piano per convertire in idrogeno la sua rete energetica. E la California ha votato una legge in base alla quale dal 2009 potranno circolare solo automobili con emissioni zero (e parliamo di uno dei principali stati al mondo per l’industria automobilistica). Noi possiamo fare altrettanto.
Ma c’è di più. «La questione energetica è il grande problema di oggi», dice Rifkin, «quello che non è ancora chiaro è che non ci troviamo di fronte a una crisi transitoria: siamo piuttosto di fronte alla fine dei una civiltà, quella del combustibile fossile».
Professor Rifkin, lei sostiene che questa civiltà ha esaurito le proprie capacità di sviluppo. Perché?
Perché non è più in grado di fare fronte al crescente fabbisogno di energia del pianeta. Grandi stati come la Cina e l’India hanno avviato un poderoso processo di modernizzazione, e questo vuol dire più fabbriche e più auto. Senza contare l’aumento della popolazione: oggi siamo sei miliardi e mezzo, saremo nove miliardi tra cinquant’anni. Il petrolio non può soddisfare tutte queste esigenze. E il problema non si presenterà quando saranno esaurite le scorte, ma prima, quando raggiungeremo il picco: cioè quando sarà stata consumata la metà del petrolio presente nel sottosuolo. Allora il prezzo del greggio aumenterà tanto da provocare un collasso economico mondiale. Lo eviteremo solo se saremo stati previdenti e avremmo diversificato il nostro portafoglio energetico.
Quando ci avvicineremo al picco?
I geologi dicono tra dieci anni, i più ottimisti fra trenta: comunque un tempo breve. Il greggio russo, che dall’autunno 2001 ha sommerso il mercato, sembra darci un po’ di respiro. Ma non durerà a lungo. Putin è consapevole della nuova posizione strategica di cui gode il suo paese (che ha peraltro i maggiori giacimenti di gas naturale al mondo) e gioca le sue carte, forse persino gonfiando le cifre. La verità è che le risorse dell’ex Urss sono in declino da vent’anni.
Ma quali vantaggi offre l’idrogeno?
È l’elemento chimico base dell’universo. Il sole e le stelle sono composte per il 40% di idrogeno. E sulla terra si trova ovunque: se sfruttato come fonte di energia, diventa un “carburante perpetuo”. Inoltre, non contiene atomi di carbonio e non emette anidride carbonica. Questo significa che possiamo arrestare il processo di surriscaldamento della Terra: l’energia che abbiamo bruciato negli ultimi secoli si è accumulata nell’atmosfera e influenza negativamente il clima e l’equilibrio degli ecosistemi. È il prezzo che stiamo pagando per lo sviluppo industriale. Ma è un prezzo divenuto oramai esorbitante: ricordiamo tutti le inondazioni di questa estate nel centro dell’Europa e la siccità negli Stati Uniti.
Lei sostiene che l’Europa può essere protagonista della rivoluzione dell’idrogeno più degli Stati Uniti. Che cosa glielo fa pensare?
L’America ha conquistato il suo primato internazionale grazie al petrolio: è sempre stata ricca di giacimenti e fino agli anni Cinquanta oltre la metà del flusso petrolifero mondiale partiva da qui. Ancora oggi gli Stati Uniti sono il principale consumatore di greggio al mondo: la popolazione americana costituisce solo il 5% di quella mondiale, ma consuma il 26% di tutto il petrolio prodotto ogni anno. Non meraviglia la determinazione con cui Bush vuole fare guerra a Saddam: al di là dei motivi espliciti, la sua speranza è di liberare i pozzi dell’Iraq (che è il secondo produttore di petrolio al mondo). Per l’Europa la questione è diversa: il petrolio è sinonimo di dipendenza. E dall’idrogeno non ha nulla da perdere. Qui, poi, c’è la struttura sociale più adatta per accogliere la nuova tecnologia.
In che senso?
Estrarre, trasportare, raffinare e distribuire il petrolio è un’attività complessa, che possono sobbarcarsi solo poche grandi Corporation. All’idrogeno invece è più congeniale una rete economica decentrata, basata sulle imprese medio-piccole e sulle cooperative, che costituiscono appunto l’ossatura dell’Europa e dell’Italia.
Perché?
Perché, a differenza del petrolio, l’idrogeno può essere prodotto localmente, attraverso dei micro-impianti simili a batteria: potenzialmente, ogni utente, ogni condominio, ogni azienda potrà produrre la quantità di energia di cui ha bisogno. Le aziende energetiche metteranno invece a disposizione la tecnologia e il software.
Detto così sembra una promessa di democrazia universale senza precedenti. Lo è?
Sì e no: certo è un’opportunità, la strada è aperta. Quello che accadrà dipende dalle scelte dei governi. Il rischio è che si ripeta quanto avvenuto con Internet. All’inizio ne parlavano tutti in maniera entusiastica: dicevano che sarebbe stata la vera rivoluzione democratica, che l’informazione diventava finalmente accessibile a tutti. Poi, Aol e Microsoft ci hanno messo le mani sopra e sono diventati i reali custodi e arbitri dell’era del Web.
C’è però un problema di politica internazionale. Tra dieci anni la quasi totalità delle risorse petrolifere si troverà nel Medio Oriente. Quale reazione dobbiamo attenderci nel momento in cui l’Occidente dovesse dire “basta, non abbiamo più bisogno del vostro greggio”?
I paesi arabi sanno che la “festa” non durerà in eterno. I segnali sono visibili. Quando nel 1973 i produttori mediorientali hanno alzato il petrolio provocando una recessione mondiale, si sono assicurati un benessere momentaneo. Ma hanno spinto i paesi occidentali a cercare nuove risorse e a sfruttare in maniera intensiva quelli già esistenti nei propri territori. Noi oggi importiamo dell’OPEC una quota inferiore a quella di venticinque anni fa. Con la conseguenza, per questi paesi, che i proventi sono diminuiti e che ora non sono più in grado di sostenere lo stato sociale che hanno creato.
E per i paesi del Terzo Mondo che cosa cambierà?
Sono quelli che hanno più da guadagnare dall’introduzione dell’economia all’idrogeno, in quanto viene tolta la maggiore causa del loro indebitamento: le nazioni in via di sviluppo sono state costrette a chiedere prestiti alle banche internazionali anzitutto per far fronte alle esigenze energetiche, in quanto non potevano sostenere l’aumento della spesa connessa con l’elevato prezzo del petrolio. E, inoltre, si offre loro la possibilità di produrre energia da soli. Immaginare un villaggio o un piccolo centro urbano connesso a una centrale locale non è utopia.

© Giuseppe Gallo (2002)

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