venerdì 23 gennaio 2009

Arte come esistenza:
storia della biografia artistica

Il nostro sguardo non è mai vergine: anzi, gli studiosi della percezione ci hanno insegnato che esso è sempre condizionato da un insieme di fattori psichici o culturali. Tanto meno è vergine uno sguardo estremamente complesso come quello artistico: vediamo ciò che abbiamo appreso a vedere e come abbiamo appreso a vedere. Oltre che animali sociali (o, meglio, proprio in quanto animali sociali), siamo anche animali gravidi di storia, abituati a valutare il nuovo in base al vecchio, il presente in base al passato di cui abbiamo esperienza.

In un’ipotetica storia della percezione estetica, un ruolo di primo piano nell’orientare la vista degli appassionati d’arte lo ha assolto per lungo tempo la biografia artistica. Alla metamorfosi di questo importante quanto ibrido genere letterario è dedicato il bel volume Art as Existence. The Artist’s Monograph and Its Project di Gabriele Guercio.

Lo studioso indaga in modo persuasivo le traiettorie «formali e concettuali» della biografia artistica dalle sue origini cinquecentesche (fissate dalle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani di Giorgio Vasari) al suo apogeo nell’Ottocento fino al declino novecentesco. E lo fa adottando una pluralità di strumenti critici che trovano la loro sintesi in un approccio che potremmo definire genetico-generazionale: una volta identificate le caratteristiche fondamentali dell’archetipo rappresentato dal trattato di Vasari, ne vengono indagate le successive variazioni e articolazioni.

L’approccio è fertile, perché è vero che la biografia è un genere quanto mai aperto, che può assumere peculiarità differenti: mirare a una ricostruzione scrupolosa e puntuale o avventurarsi nelle interpretazioni poetico-romanzeche, privilegiare la dimensione storico-artistica o indulgere nelle ipotesi psicologiche, enfatizzare gli apporti derivativi (dai capolavori dell’età classica, dagli insegnamenti appresi a bottega, dalle opere dei contemporanei) o esaltare l’individualità irriducibile... Ma è pur vero che la biografia conserva pur sempre un suo nocciolo stabile e imprescindibile, senza il quale essa diventa qualcosa di sostanzialmente altro (monografia critica, storia dell’arte, storia delle forme e del linguaggio artistico, ecc.).

Per quanto tautologico possa sembrare, la biografia artistica rimane infatti storia della vita di un uomo, meritevole di essere ricostruita e raccontata in virtù di quello che costui ha fatto e ci ha lasciato. Guercio dice bene quando afferma che c’è un «progetto nascosto» dietro il genere biografico, ed è l’impulso a trasformare la vita in arte e l’arte in vita. Potremmo anche aggiungere che la biografia, oltre a presentarsi essenzialmente come “prologo” all’arte (come si potrebbe dire parafrasando Borges), e cioè come strumento per facilitare l’approccio dei lettori alle immagini studiate, assolve tradizionalmente anche un compito esemplificativo: propone alla comunità culturale (usiamo questa espressione con significato quasi analogo a quello abituale di comunità scientifica) un modello esemplare da eguagliare per le qualità artistiche che lo elevano al rango dell’eccellenza (ricordiamolo: Vasari non ci racconta la vita di «architetti, pittori, et scultori» qualunque, ma solo, appunto, de’ più eccellenti). Precisiamo anche che per la tradizione classicistica eguagliare non significa imitare pedissequamente bensì elevarsi al rango del modello.

La questione è fondamentale, perché la storia della biografia artistica coincide con la storia del classicismo letterario (con il quale pure, sul piano del linguaggio, ha avuto spesso rapporti contrastati), e con il tentativo di accreditare una diversa immagine di umanità che riscatti le qualità tecniche del fare: un valore greco prima che protestante (la poiesis è appunto fare in senso tecnico). Ma soprattutto va osservato che prima del Cinquecento a prevalere erano stati due sottogeneri della biografia: quello che racconta le imprese memorabili degli uomini politici o dei grandi condottieri, e quella che racconta i miracoli o il sacrificio degli uomini di religione.

La biografia artistica introduce un nuovo soggetto di narrazione, appunto la vita dell’artista (pittore, scultore, architetto), e una nuova concezione di eccellenza, conseguibile all’interno dei normali confini della quotidianità prosastica, già culturalmente borghese. E ciò aiuta a spiegare non solo la modernità di questo genere ma anche il duraturo successo di cui esso ha goduto fin da subito. Rispetto ai precedenti politico-militari e religiosi la biografia conserva tuttavia un fattore di profonda consonanza: e cioè la metafisica che la sorregge e che giustifica la ricerca ricostruttiva. Si può infatti scrivere una biografia solo se si ha la certezza di poter ricostruire il senso del destino di un uomo: e cioè rimettere ordine nel magma dell’esistenza individuale riconoscendovi a posteriori una direzione, una vocazione.

La storia della biografia (e a maggior ragione del suo declino) coincide anche con la storia della messa in discussione di questa metafisica, drasticamente revocata in dubbio nell’Otto-Novecento: per la tendenza fondamentale del nostro tempo, difatti, nessun destino è concepibile, perché il destino sarebbe d’ostacolo al divenire (e quindi alla libertà assoluta degli uomini), che è alla base della nostra visione dell’esistenza (cioè del contemporaneo credo).

Gabriele Guercio
Art as Existence.
The Artist’s Monograph and Its Project

MIT Press
pp. 378, € 52,80

lunedì 12 gennaio 2009

L'amore comico

In una delle tante lettere anonime indirizzate a Mme Sabatier, donna di opulenta bellezza adorata allora da letterati, artisti e potenti parigini, Charles Baudelaire si domanda: «Non c’è forse qualcosa di essenzialmente comico nell’amore?» La frase, riportata da Roberto Calasso in La folie Baudelaire, rimane enigmatica. Baudelaire non precisa che cosa intendesse, lascia cadere con naturalezza questa verità come risaputa.

A colpire è soprattutto quell’avverbio: essenzialmente. Un termine familiare a chi si interessa di filosofia. L’avverbio è riferito all’aggettivo (comico) non al sostantivo (amore): vuol dire che nell’amore c’è qualcosa che è comico in sé, nella sua essenza.

Ma è chiaro che Baudelaire qui si riferisce pure all’essenza dell’amore: cioè nell’essenza dell’amore (l’amore in quanto tale) c’è qualcosa che è comico nella sua essenza (qualcosa che è comico in quanto tale). Questo significa che la comicità dell’amore trascende tanto il tempo (l’evoluzione dei costumi) quanto la nostra individualità. Il carattere comico dell’amore è cioè comune a ogni esperienza amorosa, indipendentemente dal tempo, dal luogo, dal modo particolare in cui la viviamo e dalla particolare coscienza che abbiamo dei nostri sentimenti. A tale carattere comico non possiamo dunque sfuggire, in quanto esso appartiene all’amore stesso.

Ma cosa c’è di essenzialmente comico nell’essenza dell’amore? Baudelaire non lo dice. Proviamo noi ad abbozzare qualche ipotesi. Abbiamo chiesto a un gruppo di amici di offrirci un commento, e ne abbiamo aggiunto qualcuno nostro. Naturalmente l’elenco è aperto, e chiunque può integrarlo.

■ Per amore diventiamo una caricatura di noi stessi, ma con l’attenuante di una nota tenera che rende il tutto comico e ci permette di sorridere. (Susanna)

■ Forse, piacevolmente rintontisce. Ma se si percepisce l’aspetto ridicolo, forse vuol anche dire che l’amore sta facendo le valigie ed è pronto a partire. (Bruno)

■ Assolutamente no. È una cosa intima. (Bussi)

■ Qualcosa di comico nell’amore? Sì, ma solo per il terzo che guarda. (Renzo)

■ Direi che è importante, nella domanda di Baudelaire, il forse. Quello che dà speranza una volta che hai recepito l’inevitabile aspetto comico. (Susanna)

■ Fin dall’inizio è maschera, e quella comica è la premessa dell’amore come Eros nel Simposio di Platone. Segue l’ubriacatura... (Massimiliano)

■ L’amore rivela, apre gli occhi. Se lo si interpreta al meglio tutto può avvenire con un sorriso. Una questione di giuste distanze utili per sempre. (Marta)

■ Non c’è forse qualcosa di tragicamente comico in tutto ciò che è la vita stessa? (Edoardo)

■ Sì, soltanto a condizione di riferirsi all’amore di coppia, carnale, passionale in senso materiale, sessuale. No, invece, per quello universale, non egoistico, direi sociale, per il quale non vedo spazio per alcuna vis comica. (Francesco A.)

■ Essenzialmente nudi, l’amore ci rende per forza di cose anche comici. Tutti. Questo è imbarazzante ma anche consolante. Tutti, la parola chiave per ridere. Anche noi, prima o poi, potremo ridere dell’amore. (Susanna)

■ Perché l’amore è essenzialmente comico? Perché fa fessi e contenti. (Anonimo parmenideo)

■ L’amore uccide, la comicità salva. (Vetra)

■ Mi viene in mente qualcosa che avevo letto, forse di Severino. Diceva che amore e comico si tengono equidistanti dal divino, l’uno impossibilitato a tornarci seppur desideroso, l’altro impossibilitato a sfuggirne seppur con smorfia di derisione, che rimane comunque paura. (Lorenzo)

■ Di essenzialmente comico nell’amore c’è solo un buon senso del ridicolo. (Susanna)

■ Ci vediamo come siamo, amando. Sempre mancanti e inadeguati. Meglio sorridere! (Giulia)

■ L’amore rende ciechi per troppo vedere. Giusto imbarazzo che sfocia, nel migliore dei casi, nella comicità. (Irene)

Tragicamente comico. Essenzialmente tragicomico. (Maria Giovanna)

Riguardo all’amore ho sempre pensato il contrario: che sia essenzialmente tragico... è vero però che comico e tragico sono collegati in modo probabilmente indissolubile. (Francesco I.)

Nell’amore non c’è nulla di comico quando lo vivi di prima persona. Magari se si raccontano dei propri drammi amorosi ad un amico, forse lui può trovarci del comico perché a volte quando si ama ci si comporta in maniera ridicola. (Milagros)

■ Il comico è in realtà un grande alleato dell’amore, perché ci fa intenerire dei limiti altrui che diversamente potrebbero disturbarci. (Guido)

lunedì 5 gennaio 2009

Otto punti sul Medio Oriente

Fermare Hamas, esigere da Israele il cessate il fuoco. Potrebbe essere questo (o uno simile) il titolo di un serio appello, che tenti di unire le forze riformiste del centrosinistra e del centrodestra. (Pur scritte in un momento in cui le informazioni s’accavallano in modo spesso contraddittorio lasciando inevitabilmente molti spazi oscuri, le note che seguono provano a partire dalla cronaca per individuare alcune provvisorie linee guida da offrire al dibattito per una tregua duratura).

1) Su Hamas ricade la responsabilità del conflitto in corso. Ma il proseguimento delle operazioni di terra da parte di Israele rischia di accrescere l’odio e di rendere più difficile il processo di pace. Israele ha già colpito un gran numero di obiettivi e ha ridotto duramente le capacità di aggressione di Hamas. Ora può fermarsi, e deve farlo in tempo. Deve cioè resistere alla tentazione di stravincere, di annientare l’avversario, per non rischiare di passare dalla parte del torto e perdere il consenso dell’opinione pubblica internazionale.

2) Ha il dovere di farlo anche perché il proseguimento delle operazioni di terra renderebbe più problematica la posizione degli arabi moderati e più arduo il loro compito nel tenere a freno il radicalismo interno. Abu Mazen ha più volte messo in guardia Hamas dai pericoli che correva nel rompere la tregua e ne ha riconosciuto le responsabilità nel dare avvio al conflitto. è comprensibile che oggi corregga parzialmente le sue posizioni: è una misura cautelativa necessaria per non attirare su di sé e su al-Fatah il risentimento interno. Ma questo cambiamento di tattica è una spia dei danni che il conflitto può provocare, indebolendo le forze più disponibili al dialogo. Lavorare per una tregua duratura vuol dire fare l’impossibile per riaprire il confronto con le fasce moderate del popolo palestinese e più in generale del mondo arabo. Senza un confronto e un accordo con esse, non può esserci alcuna pace duratura.

3) Israele ha il diritto di difendersi. Ma il governo di Israele dovrebbe chiedersi se la prolungata operazione bellica non finisca col fare gli interessi del network del terrore. Per alcuni anni, Israele ha condotto una serie di azioni mirate volte a colpire i massimi leader di Hamas fra i quali, nel marzo 2004, lo sceicco Yassin. Tali azioni hanno inferto, nell’immediato, un duro colpo all’organizzazione. Ma le hanno anche fornito un potente strumento di propaganda che nel gennaio 2006 ha contribuito alla vittoria elettorale di Hamas. La guerra in corso oggi non rischia di produrre effetti ancora più disastrosi?

4) è comprensibile che Israele si impegni per il mantenimento di una disparità di forze rispetto ai suoi vicini. è uno Stato democratico e liberale che in passato si è trovato circondato da Stati nemici e nel presente (dopo i trattati di pace stipulati con Egitto e Giordania) si trova nel mirino del radicalismo e del terrorismo. Nessuno può impedirgli di cautelarsi. Ma, a maggior ragione, uno Stato democratico e liberale ha il dovere di usare la propria forza in modo ragionevole, cioè proporzionato ai fini difensivi.

5) Non siamo più all’Intifada. Hamas dispone di un vero e proprio esercito, sia pure composto di guerriglieri mischiati alla popolazione civile. La logica di molti suoi capi tuttavia rimane quella del terrore: si basa sulla strategia della tensione, sulla vocazione al martirio. Hamas (come Hezbollah, come al Qaeda, come parte dell’Iran) può solo fantasticare di eliminare Israele e tutti gli ebrei dalla faccia della Terra. Non ha i mezzi per farlo. Può essere invece seriamente tentata di trasformare la Palestina in uno Stato kamikaze, cioè di trascinare i suoi abitanti in un immane bagno di sangue nel tentativo di scatenare una reazione a catena fra gli Stati arabi e nella popolazione araba in Occidente.

6) Gli arabi moderati sono perfettamente coscienti di questo pericolo. Sanno che, insieme a Israele e agli USA, loro sono il primo obiettivo del network del terrore (in proposito Bin Laden è stato più volte esplicito). Ciò significa che gli arabi moderati hanno tutto l’interesse a combattere il radicalismo nei propri confini. E questo è anche l’interesse dei moderati palestinesi. Ma è compito di Israele e dell’Occidente consentire ai moderati palestinesi di disporre dei mezzi per combattere il radicalismo.

7) In sostanza, Israele e l’Occidente si dovrebbero chiedere senza pregiudizi se non sia opportuno riconoscere all’ANP il diritto a disporre di un esercito regolare, sia pure sotto la supervisione della comunità internazionale. Lasciare il monopolio della forza ad Hamas non si è dimostrata una cosa saggia.

8) Durante la guerra dei Sei Giorni, USA e URSS intervennero con prontezza sulle rispettive sfere di influenza per evitare le possibili degenerazioni. Nessuno ha nostalgia del duopolio della Guerra Fredda. Ma, oggi, le istituzioni della comunità internazionale (come già è avvenuto nelle ultime precedenti guerre) danno prova di grande fatica nell’assolvere quella funzione di garante dell’ordine internazionale che un tempo il duopolio USA-URSS esercitava secondo i metodi tradizionali dell’equilibrio delle potenze. Questo è molto preoccupante, perché accresce il senso di tensione e perché incoraggia gli Stati (non solo del Medio Oriente) a regolare i propri conflitti autonomamente. Nonostante tutte le divisioni interne di origine storica, la UE dovrebbe avere interesse a ricercare una coesione di intenti in modo da esercitare una più forte pressione sull’ONU e impedire che le grandi scelte che riguardano il pianeta sfuggano alla logica del confronto democratico.

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