Conversazione con Paolo Villaggio (1999)

di Giuseppe Gallo

Paolo Villaggio, per il pubblico della letteratura il suo nome rimane legato anzitutto al personaggio del ragionier Ugo Fantozzi, apparso in volume per la prima volta nel 1971 ma ideato nel ’68, in un’epoca che sembrerebbe distante secoli da quella attuale. A cosa ritiene si debba un successo tanto duraturo?

Allora la spinta proveniva anzitutto da una circostanza esterna: la televisione. I racconti di Fantozzi li pubblicavo settimanalmente su «L’Europeo». Poi, una sera, il mio amico Nicola Carraro, che veniva spesso al Derby di Milano dove lavoravo, mi disse che valeva la pena di riunire quei racconti in un libro. E così avvenne. Alla Rizzoli allora c’era Mario Spagnol, e ne stamparono diecimila copie. In seguito, ne hanno fatto trentasette edizioni. A quei tempi, facevo un programma che andava in onda la domenica pomeriggio, intitolato Quelli della domenica. E durante la trasmissione, oltre a interpretare Franz Krantz, un impacciato prestigiatore, leggevo anche le storie di Fantozzi. Era una cassa di risonanza strepitosa, e allora nessuno aveva ancora coscienza di quale terribile potere fosse dotato il mezzo televisivo.

E fra le componenti testuali quali ritiene che abbiano influito di più sul successo?

L’invenzione maggiore era il linguaggio ricco di neologismi («megapresidente», «salivazione azzerata») e soprattutto di forme sintetiche, ellittiche. Scrivevo cose del tipo: «Fantozzi si volta, si alza di scatto, craniata patetica!» I nessi logici li omettevo, e quel modo di raccontare era una cosa assolutamente nuova. Ma soprattutto Fantozzi faceva ridere, perché il suo destino era davvero tragico. Lo sguardo di chi leggeva si concentrava sulla condizione umana rappresentata nei racconti. Naturalmente, le misure erano paradossali, iperboliche. A quei tempi dicevo «Fantozzi si buttò in strada e ci stette nove ore». Oggi, le nove ore sono diventate una regola. Questa mattina sono uscito con mio nipote e a un certo punto ho dovuto lasciare la macchina in un garage, perché per attraversare Roma ci si impiega ormai un tempo infinito.

Ma, secondo lei, il pubblico rideva perché si immedesimava nelle vicende di questo antieroe oppure perché vi vedeva l’inetto, lo sfigato, quello che stava peggio di chiunque altro?

Sembrerà paradossale, ma anzitutto il pubblico vi vedeva un vendicatore: uno che ti dà il coraggio di dire quello che normalmente si tiene nascosto. Tanti anni fa ero in Costa Smeralda con mio figlio e sulla corsia opposta ho visto una coda terrificante: cinque chilometri di automobili ferme che aspettavano il traghetto, e di traghetti non ce n’erano a causa di uno sciopero selvaggio. A un ingorgo ci siamo fermati anche noi. Una vecchia ha tirato giù il finestrino e ha cacciato un urlo, una cosa molta emozionante: «Ha visto, Villaggio?» ha esclamato «era proprio come diceva lei.» E gli altri a farle eco: «È da tre giorni che siamo qua, i bambini sono senza latte. Un caldo!» Era una tragedia. Però mi erano molto grati, perché con Fantozzi li avevo aiutati a esorcizzare la paura di essere isolati. La scoperta di essere in molti a soffrire o a essere incapaci di vivere era talmente liberatoria che si poteva tradurre in allegria. E, infatti, quelli avevano messo fuori i tavolini: aspettavano giocando a carte o conversando spassosamente.
Quindi le sembra appropriata la descrizione del ciclo di Fantozzi come epopea della piccola borghesia.
Sì. Per mezzo del ridicolo, il personaggio di Fantozzi rende visibili gli effetti devastanti di una sottocultura che vive di feticci: la macchina, la vacanza al mare, la settimana bianca, l’amante... Una volta i lettori mi dicevano: «Sa, le risate! Fantozzi è identico a mio cugino, a mio zio, a mio fratello.» Oggi, mi dicono: «Fantozzi sono io.» È un passo avanti: si può prendere atto di essere infelici quando si sa che è un destino che non tocca soltanto a noi. L’idea che tutti dobbiamo morire non è affatto tragica. Poi, Fantozzi ha inciso profondamente sull’immaginario collettivo, ha colpito molto la fantasia dei bambini, anzitutto perché i bambini sono attentissimi, in secondo luogo perché nei primi quindici anni di vita patiscono le sofferenze più tremende. È inaudito a quante violenze sono normalmente sottoposti i bambini. Magari qualche cambiamento adesso c’è stato. Ma tradizionalmente i bambini della piccola borghesia sono impacciati, timidi, non parlano mai in pubblico. Diventano adulti e sono insicuri, non sanno tenere un discorso. Lo vediamo, no? Invitano il presidente Scalfaro da qualche parte e lui arriva con un fogliettino in mano, e legge. Non parla, legge. Il politico italiano non sa parlare. Per forza poi il suo linguaggio è artificioso, insopportabile, una rottura di palle! Perché il suo modo di esprimersi non ha niente a che vedere con la lingua parlata.
Però oggi i nostri leader si sono emancipati, mostrano una certa verve da uomini di spettacolo, all’americana. Non crede?
Ma è peggio. Il pericolo maggiore dell’americanizzazione è l’omologazione. Sono tutti vestiti allo stesso modo. A me è capitato di andare a vivere a Los Angeles. E Los Angeles è uno dei posti più belli al mondo, ha un clima! Ma non riesci a farti degli amici, perché gli americani frequentano soltanto le persone che in una determinata fase della vita sono loro utili: fanno un affare con sei persone e frequentano solo quelle. E sono gentili, carini. Il giorno che si smette di lavorare insieme, basta, non li vedi più. La verità è che se non hai un po’ di curiosità, diventi prevedibile. Gli americani si presentano con fierezza, ci tengono a far apparire il loro paese come il paese della libertà. Ma non è vero che gli Stati Uniti sono un paese libero: hanno abolito ogni differenza. Se ascolti parlare un avvocato di successo di Los Angeles e dopo un po’ senti la sua dattilografa, ti accorgi che parlano allo stesso modo. E, in definitiva, il loro linguaggio è quello banalizzante e mostruoso dei talk show televisivi che negli Stati Uniti sono ancora più orrendi di quelli che si vedono sul piccolo schermo da noi. Ovvio che siano poi così coartati, così poco interessanti. Nel punire Saddam Hussein erano tutti d’accordo, tutti uniti, i giornali, le tv, la gente. L’opinione pubblica americana non possiede un minimo di dubbio, quindi non è libera, e non lo sono neanche i liberal come Woody Allen. Ma quante bombe hanno lasciato cadere sopra Baghdad? Due, tre volte quelle che hanno buttato durante tutta la guerra del Golfo. Lo dicono addirittura con un certo compiacimento. E abbiamo preso a dirlo anche noi: e non mi riferisco soltanto a Emilio Fede, lo dicono anche il «Corriere della sera», «Repubblica»... Ti fanno vedere lo schemino, i disegni: sono tutti ammirati per i risultati della tecnologia applicata alle armi. I missili intelligenti! Ma i bambini squartati?
Il pericolo del nuovo millennio è quindi l’americanizzazione?
Sì. La logica dell’affarismo americano ha pervaso anche il cinema, che è l’arte più importante del Novecento, ed è un’arte nata in Europa. Però oggi il cinema è ormai americano. Certo, a Natale andiamo a vedere Aldo Giovanni e Giacomo, perché fanno film divertenti, oppure si va a vedere Verdone. Ma il resto dell’anno è il cinema americano a fare il pieno: raggiunge il 90% del fatturato. Ma è una logica perversa. Non ci si chiede se Salvate il soldato Ryan è una bella pellicola (e i primi venti minuti lo sono, ma solo quelli), ci si chiede quanto ha incassato. Un milione di dollari nella prima settimana? E allora si va a vedere quel film lì, perché si pensa che se ha incassato tanto vuol dire che è un film di valore. Così è per la televisione. Che audience ha fatto la Carrà? Nove milioni, 25% di share. Ah, cazzo, ma allora è una trasmissione bella! Ormai si ragiona così. E hai voglia a dire che una sequenza di Hitchcock o di Buñuel o di Bergman vale tutta la filmografia di Spielberg! La verità è che il cinema europeo è stato tagliato fuori, spazzato via. Io ho ha avuto la possibilità di trascorrere molto tempo con Fellini negli ultimi anni della sua vita. E per montare il suo ultimo film, La voce della luna, lui ha dovuto penare per cinque anni, andando a elemosinare soldi a destra e a manca, persino a un commerciante di scarpe. Una cosa umiliante!
E l’Europa? Che possibilità ha di arginare questa deriva? Cosa dovrebbe fare?
L’Europa non ha molte scelte, deve trasformarsi in una grande potenza economica. Un conto è avere una Germania forte, un conto avere degli Stati Uniti d’Europa forti, tra i quali naturalmente siano compresi anche la Russia e la Turchia. Un’Europa forte ha un peso politico gigantesco. Comunque, io ho fiducia nell’Europa. Se cammini per le strade di Firenze o di Venezia, in qualche modo respiri l’armonia di quelle città, ti entra dentro, te la porti con te. La cucina popolare europea poi – spagnola, francese, italiana... – è così diversificata, così varia. In Americana c’è solo McDonald’s. Se da Miami ti portano bendato a Vancouver, tu non hai un’idea dello spostamento, non fai un viaggio né nello spazio né nel tempo, è come se fossi sempre nello stesso punto. E la cosa che dà più fiducia agli americani è entrare da McDonald’s (c’è dappertutto!) e sapere che l’hamburger di Vancouver è uguale a quello di Kansas City. È la loro fonte di tranquillità.
Pare di capire che, nonostante quello che ci ha detto prima su Fantozzi, per lei la fonte di salvezza risiede invece nella diversità?
Certamente, è l’unica cosa che ti permette di liberarti dall’ansia di ricercare dei surrogati. In questi giorni, ho accompagnato mio nipote a comprare dei vestiti. E lui si è scelto una divisa: un paio di pantaloni fatti in maniera strana, pieni di tasche ovunque, degli scarponi, un cappello (e i ragazzi il cappello lo portano con la visiera di dietro, come i neri dei ghetti, anche se non lo sanno che la moda deriva da lì). Gli ho chiesto: ma ti piace? Mi ha risposto: non tanto, ma... Tutti vestiti allo stesso modo, da Berlino a Roma a Londra. Forse nei paesi arabi il senso della differenza è rimasto. Ma neanche tanto. I rampolli della borghesia bene di Teheran o di Baghdad si vestono come gli occidentali, anche sotto le bombe. Quando ero a Milano, dopo il Derby, potevi andare in un posto in San Babila dove c’erano i Ricchi e i Poveri, che allora erano molto carini. Adesso ci sono le discoteche terrificanti: c’è un tale frastuono, un rumore terribile, bevono, s’impasticcano, sudano, puzzano come capre. E senti questi odori insopportabili, sembra di essere caduti in un barile di aringhe. Poi, se vuoi, le ragazze sono anche molto eccitanti. Però... Sono ritornato a Milano l’anno scorso per fare Arpagone al Piccolo Teatro, ora ci sono ritornato per Il vizietto. E ho ripreso un pochino ad amarla.
Che cosa, invece, non ama di Milano?
La moda! È un fenomeno che odio ferocemente. Sono stato a cena con un sarto che si chiama Lorenzo Riva e mi ha portato in giro con queste modelle alte un metro e novanta. Ce n’era una, peraltro bellissima, che aveva due anelli sulla lingua. E passi il piercing se ci si buca un capezzolo o l’ombelico. Ma sulla lingua! Per fortuna queste non mangiano un accidenti, sono anoressiche. Però la cena è stata impressionante. Ha ordinato dei cappelletti in brodo e, poi, ha incominciato: tin tin tin tin.
Torniamo al mondo tragico dei suoi racconti e dei suoi film. È un mondo dominato dalla crudeltà, dal deforme, dall’accanimento sadico. Non c’è mai una figura positiva. Perché?
Si tratta di una forma di finto cinismo o di finta cattiveria. Il fatto è che io diffido di quelli che amano indossare la maschera del benpensante, del buono. Ci sono alcuni che per forza devono ostentare che amano la vita, la famiglia, i figli, le istituzioni. Poi, tuttavia, posti di fronte agli eventi, dimostrano di essere l’opposto di quello che dicono di essere. Questo papa, per esempio, sono sicuro che in Dio non ci crede. Altrimenti avrebbe compiuto degli atti di coraggio. Invece no, non li ha compiuti. Mai. Ecco, quelli che mi suscitano più diffidenza sono coloro che si presentano con l’aspetto dei santi.
Ma lo spettacolo delle disgrazie è veramente un incentivo all’appagamento delle pulsioni antisociali?
Mi è capitato di fare un viaggio in India, e alla fine del viaggio sono stato a Calcutta, una città di dieci milioni di abitanti, una cosa spaventosa. Lì c’è l’essenza dell’India, e c’è anche l’immagine di quello che può diventare il nostro futuro. Al confronto Blade Runner non è niente. Il trenta percento della popolazione di Calcutta vive per le strade, ed è gente miserabile, storpi, mendicanti: tutti chiedono l’elemosina, e li vedi persi, disperati. Nessuno ti si avvicina con un bel cartellino come fanno nelle metropolitane da noi, dicendoti ho quattro figli piccoli, non abbiamo casa, non abbiamo da mangiare. Né si mettono a suonare o a improvvisare numeri di mimo come fanno tanti altri da noi. Questi qui si mettono sotto l’albergo e per tutta la notte urlano dalla fame. Se esci vieni letteralmente aggredito. Mi sono lasciato andare a dire all’autista: «Guardi, proprio non ce la faccio». E lui mi ha chiesto se fossi stato disposto a spendere cinquanta dollari al giorno. Se rispondi di sì, ti assolda una guardia, armata di sfollagente. Quando cammini per strada, quello ti precede e ci pensa lui: se si avvicina qualcuno, storpio o lebbroso che sia, giù una bastonata. La prima volta reagisci: «Ma no, cazzo!, non volevo dire questo!» Passano tre giorni, e ci fai l’abitudine. E allora ecco che da dietro i vetri della macchina scorgi una bambina cieca, e con sicurezza subito comandi: «Senta, guardi mi abbatta quella ragazzina là. Poi, già che c’è, vede quei due lercioni? Li faccia fuori».
E di santi ne ha conosciuti?
Altro che! A Calcutta sono andato dal console e gli ho domandato se vi era la possibilità di fare visita a suor Teresa. Mi hanno accompagnato al lebbrosario, e me l’hanno fatta conoscere. Una nana! Piccola, cattiva, feroce. Mi osserva come si osserva un rettile o uno scorpione. Poi ordina: «Dite a suor Lucia, che parla italiano, di portare questo qui in giro per il lebbrosario.» Arriva la suora – era di Ancona – , e mi fa vedere questo e quest’altro posto, mi dice qui si fanno i pantaloni, là invece i restauri, eccetera, eccetera. Perché i lebbrosi li fanno lavorare a pieno ritmo: non sono stipendiati, però insomma li mantengono. Poi domando: «Ma lei com’è?» Risponde: «Fisicamente, molto forte, una roccia.» Va bene, però io volevo sapere un’altra cosa: «Ma è una santa?» Non mi ha risposto, mi ha rivolto una diversa domanda: «Lei ha mai sentito parlare di noi? » E ho capito tutto. Madre Teresa è stata una manager, aveva uno studio faraonico con i computer, una barca di segretarie. Tra i lebbrosi, non ci andava mai. Erano le sue centosettanta consorelle a tirare avanti la baracca.

© Giuseppe Gallo (1999)
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