Carlo Dionisotti. Nemici per le lettere (1995)

LUnità 16 ottobre 1995
 di Giuseppe Gallo

Nel corso della sua lunga attività di storico della letteratura italiana, Carlo Dionisotti si è distinto anzitutto per l’originalità del metodo impiegato nell’approccio ai testi e ai fenomeni studiati. È stato tra i primi infatti a tenere conto nello studio della letteratura della dimensione geografica, mettendo in luce l’influenza esercitata sui nostri scrittori dalle differenti tradizioni regionali o municipali.
I suoi interessi, d’altra parte, si sono concentrati proprio sull’età in cui la tensione fra le tradizioni regionali e le aspirazioni unitarie diviene in campo artistico-letterario più marcata, e cioè quella umanistico-rinascimentale. Tale preferenza si è andata chiarendo alla fine degli anni universitari. Dopo aver seguito soprattutto i corsi di francesistica, Dionisotti si è laureato infatti nel ’29 (era nato a Torino nel 1908) con una tesi sulle Rime di Pietro Bembo. Negli anni successivi alla laurea ha insegnato nelle scuole medie superiori di Torino, Vercelli, Roma.
Divenuto libero docente nel 1937, per tre anni ha insegnato in qualità di supplente presso l’università di Torino. In quel periodo ha curato fra l’altro gli Indici del Giornale storico della letteratura italiana, una delle più importanti riviste letterarie italiane nata nel 1882 per iniziativa di alcuni studiosi allora assai noti appartenenti alla cosiddetta «scuola storica». Tra il 1944 e il ’46 è stato assistente di Natalino Sapegno a Roma. Nel 1947 ha ottenuto un incarico come lettore presso l’università di Oxford. Dal 1949 fino al ’70 è stato professore di letteratura italiana presso il Bedford College di Londra.
Fra gli studi più significativi si ricordano soprattutto Geografia e storia della letteratura italiana (Einaudi, 1967), Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento (Le Monnier, 1968), Machiavellerie (Einaudi, 1980) e Appunti sui moderni (II Mulino, 1988). Di rilievo inoltre due appassionati testi di carattere commemorativo: Ricordo di Arnaldo Momigliano (II Mulino, 1989) e Natalino Sapegno dalla Torino di Gobetti alla cattedra romana (Bollati Boringhieri, 1994). Per i tipi della Jaca Book è infine uscita all’inizio di quest’anno una raccolta di saggi, Appunti su arti e lettere, tesi a illuminare i rapporti tra letteratura e arti figurative nel periodo che va dal Quattrocento di Filippo Brunelleschi al Seicento di Giambattista Marino. Insieme a Nuto Revelli e al cantautore Paolo Conte è stato di recente insignito del premio Terre di Piemonte Grinzane-Cavour, un evento che può forse permettere di approfondire il carattere di questo illustre studioso, maestro di concretezza e di rigore filologico.
Professor Dionisotti, negli anni Venti, intorno all’università di Torino si raccolsero alcuni giovani di grande genio. Quale ricordo ha di loro?
Per la verità, la maggior parte di loro era già andata via. Quando io sono approdato all’università, Gobetti era appena partito, morì l’anno dopo, nel 1926. Insieme a lui erano già usciti dall’università gli altri giovani della sua generazione: Sapegno, Fubini, Chabod, tutti ormai entrati nell’insegnamento. Ho conosciuto invece Giacomo Debenedetti perché, dopo essersi laureato in giurisprudenza, aveva pensato di prendere una seconda laurea in lettere, che infatti prese nel ’27. Con lui ho avuto rapporti molto amichevoli. Io ho fatto l’università insieme a Mila, Argan, Leone Ginzburg, Arnaldo Momigliano, Lalla Romano…
In quegli anni l’università torinese era ancora in gran parte legata al cosiddetto «metodo storico». Quali debiti crede oggi di avere nei confronti di questo indirizzo di studi?
Noi giovani eravamo tutti crociani per la pelle. I nostri maestri no. In diverso grado avevano recepito la lezione di Croce ma con molte riserve. Ferdinando Neri dedicava gran parte del suo interesse alla letteratura francese moderna, in campo pittorico Lionello Venturi a sua volta si era ampiamente occupato della corrente impressionistica e Santorre Debenedetti si occupava di filologia: tutti campi di ricerca che Croce non gradiva molto. Non parliamo poi dei filosofi che insegnavano allora in quell’ateneo: erano anticrociani in blocco. A Torino abbiamo trovato insomma un ambiente piuttosto impermeabile all’influsso crociano e io credo che questa circostanza abbia avuto dopo la guerra una qualche importanza. Noi abbiamo potuto prendere dalla lezione di Croce quello che in essa vi era di fertile e di utile, senza però mai divenire succubi della sua autorità.
Quale merito riconosce oggi a Croce?
Dopo d’Annunzio, Croce è stato certamente il più grande uomo di lettere che l’Italia contemporanea abbia avuto. Io non sono un filosofo e quindi non posso giudicare la sua statura filosofica. Però è indubbio che egli abbia esercitato un influsso fortissimo sulla cultura italiana della prima metà del secolo e almeno in parte anche dopo. Si potranno discutere i suoi giudizi, le sue tesi, le sue conclusioni. Ma si deve pur riconoscere che egli ha saputo unire, come pochi altri hanno saputo fare, rigore speculativo e curiosità storica. Quest’uomo ha letto e studiato una quantità enorme di testi, di avvenimenti. E lo ha fatto dando prova di possedere una mente eccezionalmente capace di riflessione sistematica. Non era un semplice erudito, non era un «collezionista» di letture: era un uomo che le cose che leggeva le aggrediva, le considerava criticamente.
Lei si è trasferito in Gran Bretagna proprio nel momento in cui l’astro crociano volgeva al tramonto. Quale ambiente ha trovato lì?
A Oxford, dove inizialmente sono stato come lettore, c’era stata una piccola cellula crociana. I principali ammiratori di Croce in Gran Bretagna erano proprio professori a Oxford, ed erano coloro che avevano tradotto i suoi libri. Era però appunto soltanto una cellula: Croce era stimato e onorato, ma letto in modi particolari, come potevano fare uomini che appartenevano a un mondo molto diverso rispetto a quello idealistico italiano. Quanto a Gentile, di lui non si parlava neanche. Oggi da qualche parte si tenta di presentare Gentile come un filosofo di statura europea. Ma a guardare i cataloghi delle biblioteche ci si rende conto che di questo filosofo allora esisteva una sola traduzione, americana. In generale, posso dire insomma che in Inghilterra mi sono reso conto dei limiti della nostra cultura. La vecchia Italia di Dante e dei grandi autori dell’età medievale e umanistica aveva esercitato un’influenza significativa sulla cultura e sulla letteratura inglese: si pensi ad esempio a quanto essa contò per Shakespeare o per Milton. L’Italia moderna, invece, questa influenza non era più in grado di esercitarla.
Durante quei primi anni inglesi si andava sviluppando in Italia un intenso dibattito, letterario e civile. Che impressioni suscitò in lei che poteva valutare gli eventi da un osservatorio più ampio?
Purtroppo io appartengo a una generazione che in gioventù non ha avuto un’educazione politica. Quando noi siamo entrati all’università la partita era già chiusa: il fascismo aveva già conquistato il potere. Noi avevamo anche degli interessi politici ma insieme ai tanti altri interessi che un giovane può avere. Con le dovute eccezioni (io sono ancora un amico strettissimo di Aldo Garosci, politicamente impegnato fin da allora), per la nostra generazione la passione politica ha avuto un’importanza minore di quella che ha avuto per i giovani che ci hanno preceduto e che erano stati compagni di Gobetti e di Granisci. Va tenuto tuttavia in considerazione che proprio perché non abbiamo avuto esperienze politiche negli anni che hanno preceduto l’avvento del fascismo noi abbiamo potuto più facilmente avvertire i limiti di quello stato liberale che al fascismo si era arreso. Quando Croce pubblicò la sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915 la nostra reazione è stata piuttosto forte, perché capivamo che l’Italia che lui celebrava era un’Italia che aveva perso la sua battaglia e davanti agli occhi ne avevamo le ceneri. Da parte nostra insomma c’è stata meno partecipazione al dibattito politico e nello stesso più distacco rispetto al passato. Ed è un fatto che bisogna considerare se per esempio si vogliono capire le origini del partito d’azione e i motivi che stanno alla base del contrasto fra Croce e quel partito.
In Gran Bretagna, lei è entrato in contatto anche con un modo diverso di organizzare la trasmissione del sapere. Quali differenze l’hanno più colpita rispetto all’Italia?
Allora, nel 1947, quando ho cominciato a insegnare in Inghilterra ed ero fresco di esperienza italiana la differenza mi è saltata agli occhi. La mia impressione era che la scuola inglese fosse molto più efficiente della nostra da un punto di vista sociale: lo sforzo che qui si cercava di compiere era di portare alla seconda classe superiore il maggior numero di persone possibile, e ciò assicurava alla società inglese una coesione maggiore di quella che aveva la nostra. La scuola italiana è poi viziata da un eccesso di enciclopedismo che rende i nostri programmi inefficaci, quasi improponibili nella realtà. Là è normale che già nel liceo ci si specializzi in due-tre materie. Arrivati all’università, si approfondisce una materia sola. E certo in questo restringimento dell’area di studio si possono individuare molti limiti. Però all’interno di quei limiti gli studenti inglesi raggiungono un grado di approfondimento che uno studente italiano fatica a raggiungere.
Veniamo alle sue ricerche. Come è nato il suo interesse per la letteratura umanistica?
Negli anni Venti, io ero stato inizialmente attratto dalla grande letteratura francese contemporanea. Del resto, è noto a tutti che cosa significò allora per l’Italia in generale e per il Piemonte e Torino in special modo la pubblicazione dei libri di Proust. Proprio Giacomo Debenedetti fu uno di coloro che più contribuirono a far conoscere da noi questa grande letteratura. C’è però un momento in cui uno si interroga su che cosa potrà fare poi, dopo la laurea. Allora ho pensato che avrei dovuto imparare un po’ di letteratura italiana, perché probabilmente sarei andato a insegnare questa materia. Ho incominciato così ad occuparmi del Bembo, un po’ insolitamente, dato che il petrarchismo cinquecentesco era quanto di più lontano ci fosse da Proust e dalla letteratura francese che amavo. L’interesse per l’umanesimo e il rinascimento in Inghilterra si è andato poi precisando quasi naturalmente: dato che, come dicevo, quello era il periodo della nostra letteratura che lì era meglio conosciuto.
Lei è stato uno dei primi a suggerire uno studio della storia letteraria condotto secondo un’angolazione geografica. Come valuta il successo che questo suggerimento ha incontrato soprattutto in tempi recenti?
Io ho cominciato a prestare attenzione alla dimensione geografica in anni tragici per l’Italia. E mi sono portato sempre dietro questo ricordo doloroso. Le liti, i contrasti regionali, municipali, familiari che hanno avuto tanta parte nella storia d’Italia sono reali, e il critico deve prenderne atto: ma non sono una gran bella cosa. Tutt’altro. Tali divisioni sono fra le cause principali della crisi e dell’arretratezza del nostro Paese, e già lo aveva visto Dante quando diceva di questa «serva Italia» che era «non donna di provincie, ma bordello». A me pare, ecco, che gli studiosi più giovani abbiano preso un po’ troppo allegramente queste differenze geografiche.
Un’ultima domanda. Quali sono le letture più liete degli ultimi anni?
Mah, ormai leggo poco. Nel mio campo fare ricerca vuol dire muoversi, frequentare biblioteche, e questo non lo posso più fare: oggigiorno mi muovo con fatica. Devo lavorare con quello che ho sotto mano: e quindi le mie letture sono piuttosto reminiscenze, rievocazioni del passato prossimo. Leggere più che altro per me ora è un po’ un ricordare.
© Giuseppe Gallo (1995)
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