Abbate, Maggiani, Bettin, Papa: romanzi oggi (1992)

LUnità 15 giugno 1992
 di Giuseppe Gallo

Dibattiti letterari. Fulvio Abbate, Maurizio Maggiani, Gianfranco Bettin e Marco Papa discutono della narrativa dei nostri anni, più attenta ai critici che al pubblico, timida politicamente e intellettualmente. E accusano: manca di coraggio…

Paura di volare

Se non esiste una vitale civiltà culturale, non vi può essere nemmeno una seria riflessione critica sulla letteratura. Lo si è spesso ripetuto. Oltre che dal confronto delle interpretazioni, la critica letteraria trae alimento dalla discussione sui metodi di analisi e sui valori letterari: cosa che implica il coinvolgimento non solo delle nostre competenze tecniche, ma anche della nostra morale, della nostra ideologia, del nostro modo di vedere la vita.
A maggiore ragione non vi sarà nemmeno una fiorente produzione romanzesca. Il romanzo prende quota solo nei periodi di intensa vivacità culturale e di vasta partecipazione ai fatti di cultura. Nei periodi di ripiegamento individuale (forzato o voluto) sono altri generi a trovare terreno fertile: la lirica e la prosa d’arte.
Né si può dire che ai narratori d’oggi manchino gli spazi per discutere. Lungamente attesi prima e, ora, coccolati dall’intera comunità letteraria, godono di privilegi indiscutibili. A iniziare dalla costante attenzione che viene loro riservata da parte del mondo dell’informazione, destinato a integrarsi sempre più con i meccanismi della produzione editoriale. Sono, per lo più, scrittori molto scaltri, tecnicamente dotati. Come mai allora si dimostrano così fiacchi, così incapaci di rischiare? Così impauriti all’idea di scontentare i letterati a cui guardano (in linea di massima) con più attenzione che al pubblico? Ne abbiamo parlato con alcuni autori affacciatisi di recente sulla scena letteraria, disponibili a sporcarsi le mani e confrontarsi con tematiche spurie.
Secondo Fulvio Abbate (insieme a Marco Papa e Sandro Veronesi, uno dei più interessanti romanzieri fatti conoscere dalla casa editrice Theoria), la fiacchezza dei narratori odierni deve essere imputata anzitutto alla loro scarsa responsabilità morale.
«Oggi gli scrittori – sostiene – per la maggior parte sono paghi di se stessi, della propria scrittura; hanno una enorme timidezza intellettuale e di conseguenza politica, una timidezza che peraltro non è comune solo alla letteratura: la si ritrova nel mondo dell’arte, del cinema, della cultura in generale. Non stupisce che abbiano delle grandi difficoltà a capire il reale, a leggere il mondo, le cose. Così come non stupisce la loro assoluta mancanza di antagonismo. Se si dovesse instaurare un regime di tipo autoritario, è probabile che buona parte di essi continuerebbe a vivere piacevolmente come può aver vissuto piacevolmente un Papini durante il regime fascista».
Da questa timidezza derivano, secondo Abbate, due caratteristiche che accomunano la maggior parte dei nostri romanzieri più giovani. «Da un lato, un grande astio, un odio ferreo nei confronti degli anni Settanta, anni in cui si è tentato di elaborare un progetto comune, consapevolmente concepito. Dall’altra, una tendenza al crepuscolarismo, un dato, questo, che sopravvive soprattutto nell’area romana e che forse costituisce un segno distintivo della narrativa italiana da sempre, o almeno da un secolo a questa parte».
Opportunamente, tuttavia, Abbate invita a distinguere: a guardare ciò che differenzia e non solo ciò che unisce gli scrittori. «Non è vero per esempio che siano tutti acquiescenti alle leggi della società dello spettacolo. Molti non lo sono; sono più critici, più riservati. E anche fra le varie forme di scrittura bisogna fare delle distinzioni. Il “letterarismo” è un vezzo comune a una parte della narrativa contemporanea, non a tutta. E comunque ci sono modi e modi di essere “letterario”. Marco Lodoli è uno scrittore molto colto, incline a una prosa robusta, fortemente letteraria appunto; e tuttavia è anche uno scrittore che parla della realtà e che per di più risulta molto popolare».
Un contributo interessante alla riflessione sulla narrativa odierna lo offre Maurizio Maggiani (il cui ultimo romanzo, Felice alla guerra, affronta uno dei temi che più hanno diviso l’opinione pubblica: l’intervento del nostro Paese nella guerra del Golfo): «I grandi scrittori, da Tolstoi a Hemingway a Jack London sono sempre scrittori di storie morali. Ma appunto è questo ciò che oggi non riusciamo a fare: una letteratura che racconti vicende, storie, avventure. Il momento è sfavorevole. Per scrivere grandi storie bisogna avere grandi idee, grandi ideali, grandi orizzonti, grandi speranze, grandi tragedie e grandi libri. Questi non sono anni delle tragedie. Ma anni degli esiti. Noi viviamo gli esiti delle grandi storie e delle grandi speranze. La deregulation ha fatto man bassa delle capacità creative vere e profonde degli scriventi e dei parlanti. In una situazione di questo tipo gli scrittori si arrangiano, fanno quello che possono. Chi non è bravo a raccontare storie, trova altre strade, altri escamotage per tirare a campare; e io mi metto tra questi, perché pare che io scriva per i letterati: non mi piace, so che è un difetto, che è un limite. La mia aspirazione è scrivere, se posso dirlo, per un folto, vasto pubblico (“per il popolo”, recitava l’etichetta che si trovava sui frontespizi delle edizioni Sonzogno); ed è a un folto, vasto pubblico, che si indirizzano gli scrittori di storie che io ammiro e a cui mi inchino come a padri immeritati».
Da un altro presupposto – la fondamentale omogeneità della narrativa odierna – prende invece le mosse Gianfranco Bettin: «La grande maggioranza dei nuovi autori, mi sembra, scrive grosso modo nella stessa maniera, in una lingua media o medio-alta, a fondo tradizionale, piuttosto limpida e accurata. C’è una vera egemonia di questa forma stilistica che vede poche eccezioni. Non sono molti i giovani che seguono strade diverse: penso a Daniele Gorret che è uno dei pochissimi, credo, che continui a lavorare sulla forma, uscendo dagli schemi convenzionali del romanzo. Anche sul piano dei contenuti, vi sono significative costanti: una predominanza di certi temi, una netta preferenza per gli ambienti metropolitani, e per storie che come protagonisti hanno personaggi appartenenti ai ceti intermedi. Ed è, infatti, della nuova piccola borghesia, della nuova middle class, che si raccontano le storie, le vicende, i sentimenti».
Tale omogeneità appare, peraltro, congeniale al tipo di pubblico al quale gli scrittori si indirizzano, chiaramente identificabile, secondo Bettin, in termini sociali e generazionali. «In sostanza, i giovani autori si rivolgono a coetanei che condividono gli stessi gusti, gli stessi riferimenti culturali, politici: persino gli stessi ricordi di generazione. Di qui il loro limite fondamentale: i nuovi narratori sono vittime dell’equivoco di parlare anche ad altri come se stessero parlando a se stessi. La difficoltà specifica nasce nel fatto di non sapere andare oltre questo ambiente, oltre se stessi. C’è forse poca curiosità verso altri ambiti, verso altri ambienti, verso altre storie, altri personaggi».
Tra le voci ascoltate anche quella di Marco Papa. Interessato a mettere in luce le contraddizioni dell’universo interiore più che quello dell’universo sociale, sostiene che la narrativa odierna debba essere giudicata anzitutto «in base alla sua capa cità o meno di rendere conto del rapporto che si instaura fra l’io e la realtà (intesa più come problema che come dato oggettivo, definito una volta per tutte)».
«Proprio questo – aggiunge – è il compito fondamentale che la letteratura deve assumersi. E si tratta di un compito impegnativo. Non solo perché la realtà si modifica di continuo e dunque si modifica il rapporto dell’io con essa; ma soprattutto perché tale compito produce angoscia, disagio. Lo scrittore è costretto a prendere atto della frattura che lo separa dal mondo, che separa il mondo e l’io; una frattura che appare al romanziere d’oggi più chiara, più marcata di quanto apparisse ai narratori degli anni Settanta che potevano contare su una identità di «gruppo» venuta ormai meno. Il limite della narrativa odierna sta, forse, in una certa difficoltà a fare i conti con questa angoscia, con questa paura: in una certa tendenza a edulcorare la verità dolorosa».
D’altra parte, per analizzare a fondo il rapporto fra io e mondo, bisogna avere una buona dose di coraggio: «Soprattutto è bene che lo scrittore rinunci a ogni forma di falsa partecipazione: eviti, cioè, di contribuire a quel processo di spettacolarizzazione della cultura che sembra oggi inarrestabile. Più si tiene lontano dalle sale televisive e dai flash dei giornalisti meglio è. Io credo che si debba recuperare il senso della solitudine, del lavoro condotto con serietà anche isolatamente, in maniera appartata. Attraverso la scrittura si cerca sempre una riconciliazione con la vita. Ma per quanto paradossale sia, spesso tale riconciliazione può essere raggiunta solo allontanandosi dalla vita stessa, attraverso quindi la sua negazione».
I libri di Papa (in particolare il volume di racconti Le nozze) lo dimostrano: in essi, i risultati della perlustrazione dell’animo umano (compiuta in modo «impudico», con la crudeltà del l’eremita che scava dentro di sé sapendo che è dentro di sé che si annida il male) vengono comunicati in un linguaggio scarno e di grande impatto comunicativo che può risultare ammaliante per fasce di pubblico potenzialmente estese. 

© Giuseppe Gallo (1992)
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