mercoledì 26 novembre 2008

L’utopia laica: storia di una sconfitta

Partiamo dal fondo. Tracciando un quadro riassuntivo delle tendenze politiche degli ultimi due decenni in Italia, nel capitolo conclusivo di Storia dei laici Massimo Teodori scrive: «Fino agli anni Ottanta, le forze laiche valevano ancora un quarto dell’elettorato italiano mentre, dopo Tangentopoli, precipitarono a poco più del 5% del consenso nazionale.» E, più risolutamente: «In Parlamento non sono mai stati approvati tanti provvedimenti illiberali e non furono mai ostacolate tante leggi liberali come nella Seconda repubblica.»

Siamo agli antipodi dell’agiografia intellettuale. Quella che, dall’interno, Teodori ci racconta è la storia di una sconfitta. Non solo nel nostro Paese il laicismo è sempre stato minoranza e, dopo la fine del totalitarismo fascista (a cui pure ha contribuito in modo decisivo), non è riuscito a candidarsi a governare il processo di modernizzazione. Addirittura, nel momento in cui è venuto meno uno dei suoi antagonisti storici – il totalitarismo comunista –, ha perso l’occasione che gli si presentava, assistendo inerte alla progressiva erosione del proprio margine di consenso.

Il sofferto atto d’accusa che proviene dal libro è, insomma, forte. Impossibile fraintendere. I molti personaggi che affollano questo «romanzo di idee» (come lo ha efficacemente chiamato Filippo La Porta) sono tutto fuorché dei santini. Assomigliano piuttosto a «pazzi malinconici» (per usare una definizione di Gaetano Salvemini, ricordata dall’autore): intellettuali eretici e irregolari, sorretti da una poderosa tensione utopica e, nondimeno, incapaci di trovare un accordo per organizzare in maniera efficace la propria azione politica.

Teodori ripercorre la traiettoria di questi uomini, grandi e perdenti, con il rigore dello storico, e insieme con la passione del militante che, pur prendendo atto della sconfitta, non si abbandona alla rassegnazione. Lo scopo del libro è duplice. Da una parte, fare giustizia colmando il vuoto bibliografico che ha accompagnato questa tradizione e riconoscendone criticamente l’importanza fondamentale nella storia delle idee. Dall’altra, sollecitare un ampio e spregiudicato dibattito politico-intellettuale, che consenta di recuperare quanto di vivo quella tradizione ancora possiede e riproporre una prospettiva laica in Italia.

Non avendo specifiche competenze storiche, è proprio su questo terreno più teorico che vogliamo intervenire, e lo facciamo anche noi dall’interno (chi stende queste note ha avuto una formazione liberalsocialista e, pur essendo consapevole del carattere minoritario del socialismo liberale, continua a credere che i suoi strumenti analitici siano tuttora utili per comprendere il tempo presente).

Dunque, la sconfitta del laicismo. Quali ne sono le cause? Teodori le riconduce, coerentemente ai suoi presupposti, a circostanze storiche. L’esempio più stringente lo offre il resoconto delle divisioni in seno al Partito d’Azione dopo la Liberazione, che ne hanno determinato il rapido declino. Ma ci si può chiedere se, al di là delle circostanze storiche o degli errori umani, non abbiano agito cause più profonde, di tipo metapolitico (ci si passi il termine).

In sostanza. Tutte le molteplici correnti del laicismo hanno due fattori in comune: sono figlie del liberalismo e sono figlie del razionalismo sette-ottocentesco. Anche i movimenti laici nati nel secondo dopoguerra (il partito radicale) affondano le radici in una cultura precedente all’avvento della società di massa, e non hanno mai dimostrato di capirne appieno la realtà e i bisogni. (Del resto, non è un caso che, così come mancano studi complessivi «sul mondo laico e antitotalitario» che «vadano al di là delle monografie su singoli aspetti della nostra storia», come osserva Teodori in apertura al suo libro, allo stesso modo manchino anche studi riassuntivi sulla società di massa che non siano viziati da preclusioni ideologiche.)

In un vecchio libro sull’utopismo di Adriano Olivetti (Fini e fine della politica, scritto in collaborazione con Giulio Sapelli), Roberto Chiarini osservava che fra le ragioni del fallimento del movimento di Comunità va registrata anche la mancanza di un adeguato bagaglio di simboli in grado di competere con le parole d’ordine a forte impatto sociale dell’immaginario democristiano e comunista. Ma questa diagnosi la si potrebbe estendere a tutta la tradizione laica: liberale, liberaldemocratica, socialdemocratica, socialista riformista, liberalsocialista, azionista, radicale…

Qui, non si vuole ignorare il forte pathos attivistico che alimenta fin dalle sue origini questa tradizione. E tanto meno si vogliono ignorare i numerosi appelli a un liberalismo di massa, che si sono succeduti nel XX secolo. Ma, anche nella sua versione più “aperta” e operaista (quella di Gobetti), tale pathos si è espresso tutt’al più in un’andata verso il popolo, mai davvero verso le masse. Il laicismo rimane un fenomeno aristocratico, condiviso essenzialmente dalle élite intellettuali.

Sono piuttosto i totalitarismi (quello fascista, quello nazista, quello sovietico, quello clericale, quello odierno della Tecnica: e qui rimando a Heidegger e a Severino) ad aver intuito l’importanza delle masse e ad aver saputo trovare il linguaggio adatto a conquistarne il consenso. Un laicismo che non si rassegni a una posizione subalterna alle culture uscite vittoriose dai conflitti della modernità ha l’obbligo di riaprire senza pregiudizi il dialogo con le masse. Per dirla in modo molto spiccio, andare a scuola dagli ex DC e dagli ex PCI.

Ma c’è un altro punto che andrebbe sottolineato. Il liberalismo – che è premessa imprescindibile del laicismo politico (il secondo non esiste in assenza del primo) – ha esercitato la sua più autentica funzione storica anzitutto nell’ambito delle regole. L’importanza delle regole è la principale eredità che il liberalismo ci ha lasciato. Noi siamo liberi da tutto e siamo liberi di fare tutto, ma non siamo liberi dalla legge e non siamo liberi di infrangere la legge. La Legge è l’unico dio in Terra a cui il liberalismo riconosca il diritto di disciplinare la nostra vita collettiva. In questo senso, il liberalismo si colloca al di fuori della competizione politica: non è né di destra né di sinistra. Si preoccupa di definire anzitutto i confini entro i quali la competizione può svolgersi.

Su questo fronte, il liberalismo è stato persuasivo: la democrazia oggi è, per opinione condivisa, liberaldemocratica. Mentre le democrazie popolari sono sempre più viste come dittature mascherate, e questo non solo in Occidente. Certo, esiste pur sempre la possibilità che l’elettorato consideri le regole un “valore” secondario rispetto ad altre priorità e sia disposto a sacrificarle sull’altare di quest’ultime (la sicurezza, il benessere economico, la garanzia dell’occupazione…). I liberali, perciò, hanno il dovere di vigilare affinché le maggioranze non facciano demagogicamente perno sulle paure invalse per ridurre a proprio vantaggio i confini delle libertà.

Ma i liberali (a maggior ragione i liberali socialisti, i liberali di sinistra) renderebbero un modesto servigio se si limitassero ad assolvere questa funzione. Se vogliono riacquistare consenso, devono anche riuscire a dimostrare che il liberalismo è in grado di rispondere alle domande provenienti dalla moderna società di massa, la quale non è più la società opulenta di cui parlava Galbraith alla fine degli anni Cinquanta. Piuttosto è una società che ha una rabbiosa nostalgia di quell’opulenza e che, a ragione o a torto, intende difendere a denti stretti i privilegi che conserva (sempre più ridotti, ma ancora enormi rispetto alla situazione comune alla maggior parte dei Paesi del pianeta) dalle pressioni provenienti dalle folle dell’Est e del Sud che aspirano a sedersi a loro volta al banchetto dei ricchi.

È sempre possibile che le maggioranze sfruttino le grandi crisi economiche per ridurre i margini di libertà, mascherando gli interessi di parte dietro lo schermo del populismo. Ma è anche possibile che tali crisi, come le guerre e le carestie di Malthus, finiscano alla lunga col fare bene all’ecosistema (umano se non ambientale) e col porgere alle forze progressiste un’occasione per ridisegnare in modo più avanzato le linee guida del gioco politico.


Massimo Teodori
Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista
MARSILIO
pp. 363, € 19,50


lunedì 17 novembre 2008

Le ninfe di Darger

di Susanna Janina Baumgartner

Torino è la città dell’arte contemporanea. Lo dimostra la Triennale curata da Daniel Birnbaum: 50 lune di Saturno. Fra le opere esposte alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, colpisce il lavoro del cino-americano Paul Chan che fa esplicito riferimento alle opere di Henry Darger (foto sotto).


Darger è uno degli artisti presenti nella collezione dell’Art Brut a Losanna. Il suo lavoro, come scrive Giorgio Agamben in Ninfe, è particolarmente interessante per il geniale procedimento creativo. Poiché non sapeva disegnare, ritagliava immagini di bambine da album di fumetti o da giornali e le ricalcava con una velina. L’artista poteva così disporre di un repertorio formulare e gestuale (variazioni seriali di una Pathosformel, di un cristallo di memoria storica che possiamo chiamare ninfa dargeriana) che poteva combinare come voleva, attraverso collage o ricalco nei suoi grandi pannelli.

Agamben sottolinea l’analogia con Aby Warburg, perché il lavoro di Darger rappresenta il caso estremo di una composizione artistica unicamente per Pathosformeln, che produce un effetto di straordinaria modernità.


Paul Chan ha colto infatti tutta la modernità di Darger (1892-1973) e, attraverso la tecnica del video (foto sopra), ha riproposto la storia delle Vivian girls: sette bambine che guidano la rivolta contro i crudeli adulti Glandolinians, che schiavizzano, torturano, strangolano e sventrano le fanciulle.

Nella stanza in cui Henry Darger era vissuto per quarant’anni, il proprietario Nathan Lerner, fotografo e designer, trovò una quindicina di volumi dattiloscritti, rilegati a mano, che contenevano una sorta di romance di quasi trentamila pagine dal titolo In the Realms of the Unreal e pannelli cartacei, lunghi a volte fino a tre metri, che illustravano il romanzo.

In un paesaggio apparentemente idilliaco, bambine munite di un piccolo sesso maschile giocano tra i fiori e meravigliose creature alate (i serpenti Blengiglomean), ma sullo stesso piano, in un’inquietante sdoppiamento dell’immagine, vi sono scene sadiche di inaudita violenza.

I critici che si sono occupati di Darger hanno sottolineato gli aspetti patologici della sua personalità che non avrebbe mai superato i traumi infantili, presentando tratti autistici. Tuttavia è più interessante indagare non tanto le motivazioni alla base della sua opera, ma piuttosto il rapporto con le sue Pathosformeln.

«Certamente egli è vissuto per quarant’anni totalmente immerso nel suo mondo immaginario», scrive Agamben. «Come ogni vero artista, egli non voleva però semplicemente costruire l’immagine di un corpo, ma un corpo per l’immagine. La sua opera, come la sua vita, è un campo di battaglia il cui oggetto è la Pathosformel “ninfa dargeriana”. Essa è stata ridotta in schiavitù dai malvagi adulti (spesso rappresentati in veste di professori con toga e berretto). Le immagini di cui è fatta la nostra memoria tendono, cioè, nel corso della loro trasmissione storica (collettiva e individuale), incessantemente a irrigidirsi in spettri e si tratta appunto di restituirle alla vita. Le immagini sono vive, ma essendo fatte di tempo e di memoria, la loro vita è sempre già Nachleben, sopravvivenza, è sempre già minacciata e in attesa di assumere una forma spettrale. Liberare le immagini dal loro destino spettrale è il compito che tanto Darger che Warburg – al limite di un essenziale rischio psichico – affidano l’uno al suo interminabile romanzo, l’altro alla sua scienza senza nome.»

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