giovedì 31 gennaio 2008

La fretta del Cavaliere e gli amari confetti

Berlusconi non gioca a scacchi. Altrimenti ci avrebbe pensato due volte prima di rifiutare l’ipotesi di un governo istituzionale, a maggior ragione adesso che il Quirinale ha affidato al presidente del Senato un incarico «finalizzato» a verificare «le possibilità di consenso per una riforma delle legge elettorale». E, anzi, invece di lasciare da solo Veltroni a farsi paladino degli interessi dello Stato, avrebbe fatta sua quell’ipotesi. Se non altro perché gli avrebbe permesso di irrobustire la sua idea di Partito delle Libertà, che ora è costretto ad archiviare, per non indispettire gli alleati. Il Cavaliere ha visto la debolezza degli avversari e non ha resistito alla tentazione di chiudere la partita subito, cercando di dare scacco matto prima di sviluppare i propri pezzi: un errore che, come ben sanno gli scacchisti, potrebbe costargli caro. Per diverse ragioni.

1) Anzitutto, ostinandosi in una decisione tanto irresponsabile, scongiurata persino dalla CEI, da Confindustria e da Confcommercio, si espone alla critica di essere interessato unicamente al potere per il potere. Cosa che, verosimilmente, non gli impedirà di raccogliere i consensi degli italiani più esagitati e sensibili ai richiami della demagogia. Ma che potrebbe fargli perdere i favori dell’elettorato più politicamente attento e influente (addirittura di ampie fasce del capitalismo italiano), che potrebbe preferirgli altri candidati e altre forze.

2) Certo, se davvero il PD si presenterà da solo alle elezioni (come sembra intenzionato a fare), Berlusconi vincerà senza difficoltà. Ma è noto che dopo i confetti escono immancabilmente i difetti. E il padre-padrone del centrodestra potrebbe ritrovarsi con meno voti del previsto. Anzi, potrebbe addirittura risvegliarsi in una situazione molto imbarazzante: avere la maggioranza dei seggi ma essere declassato a capo del secondo partito del Paese. E ciò lo esporrebbe ancor di più agli inevitabili sgambetti di Fini e Casini, che non saranno più remissivi di quanto sono stati nella precedente legislatura. Se non vogliono perdere i propri elettori, infatti, entrambi sono costretti a porre sul tappeto una continua serie di distinguo, alimentando la concorrenzialità interna.

3) È vero che, nonostante le costanti minacce di crisi una settimana sì e l’altra pure, il governo Berlusconi era riuscito a reggere cinque anni. Ma il prezzo degli infiniti compromessi era stata una politica incoerente, svuotata di ogni contenuto in senso liberale. An, Udc e Lega sono gli alleati sbagliati per la politica che il Cavaliere ha in testa. Lo ha ripetuto egli stesso più volte, con la sua proverbiale mancanza di tatto diplomatico. D’altronde, solo un paio di mesi fa era stato officiato il funerale della CDL. Possibile che sia resuscitata tanto in fretta dalle sue ceneri e che i suoi padrini abbiano scoperto all’improvviso di andare d’amore e d’accordo? Difficile. Hanno scopi opposti. Del resto, se sono vere le voci che circolano, perché il Cavaliere sta cercando di raccogliere una congerie di liste che vanno da Storace a Mastella? Non gli occorre un fronte tanto esteso per battere il PD. Gli occorre però per arginare i malfidi alleati, impazienti di fargli le scarpe.

4) In ogni caso, se Marini fallisce nel suo tentativo e Berlusconi vincesse le elezioni con la vecchia legge, il nuovo governo si ritroverebbe di nuovo con il problema della riforma elettorale o del referendum. Potrebbe superarlo con disinvoltura se il clima di governo fosse sereno, per esempio approntando qualche ritocco al famigerato “porcellum”, compiuto a colpi di maggioranza. Ma, se il clima fosse burrascoso, la riforma elettorale potrebbe rivelarsi un cavallo di Troia. Insomma, il Cavaliere ha buone probabilità di vincere la battaglia, e altrettante buone probabilità di perdere la guerra, se non cambia strategia.

Naturalmente, è giusto domandarsi come possa un governo istituzionale fare in pochi mesi quello che non è riuscito a fare un governo politico in un anno e mezzo. Ma si può rispondere che, quando sono da decidere le regole del gioco, un governo istituzionale ha un grosso vantaggio, perché i partiti si trovano sullo stesso piano e non c’è rischio che la minoranza faccia ostruzione nel timore che gli avversari si attribuiscano tutti i meriti della nuova legge. Né, d’altronde, si riparte da zero. Una piattaforma difatti già c’è: anche se non è il meglio, il cosiddetto modello tedesco – che sostituisce il premio di maggioranza, che avvantaggia i «nanetti» (come li chiama Sartori), con una soglia di sbarramento al 5%, che taglierebbe le gambe ai partiti personali – conviene a molte delle forze medio-grandi. Su quella bozza, i deputati responsabili hanno l’obbligo di riflettere.

giovedì 24 gennaio 2008

Artaud, fra il baratro e il nulla

di Susanna Janina Baumgartner

Definire o descrivere Antonin Artaud è molto difficile, ancora più difficile, se non quasi impossibile, che tentare di rappresentarlo in teatro (e lo conferma l’omaggio che l’Arsenale e Milano hanno voluto dedicargli per i sessant’anni dalla morte). Nessuno come lui ha saputo e potuto parlare di se stesso oltre se stesso. Attraverso se stesso, ha visto infinitamente più di sé, descrivendo e raccontando un viaggio interminabile alla ricerca di un corpo. Quel corpo che è l’essere umano in tutto il suo mistero. Quel corpo che è azione di forze e che è azione indistruttibile, perché nulla riuscirà a spegnere l’energia di quel campo di forze.

AR-TAU:
«Io sono questa forza: captata, espropriata, rubata, perseguitata, sottratta, alla ricerca del proprio corpo, di un corpo martirizzato in nome di dio. Il corpo, bisognerebbe riprenderlo in qualcosa che assomiglia ancora a un soggettile, al volto come soggettile, l’abisso insondabile della faccia, dell’inaccessibile facciata. Perché dio col suo vero nome si chiama Artaud ed è il nome di questa specie di cosa innominabile tra il baratro e il nulla…» (da Succubi e supplizi).

Derrida in Antonin Artaud, forsennare il soggettile, ci tiene sul limite, quel limite che è parlare e scrivere di Artaud, quel limite dove si trova il soggettile: né dentro né fuori. Chi è il soggettile? Supporto, sottoposto o succube, esso sopporta (souffre) tutto ciò che viene ad adagiarsi o a gettarsi su di lui… Che cos’è il soggettile? Qualsiasi cosa, tutto e qualsiasi cosa? Il padre, la madre, il figlio e io? In breve, tutto e ogni cosa. Non è niente che sia, nessun essere determinato, dal momento in cui può assumere la figura determinata di qualunque cosa.

Trascendenza dell’Altro – e dell’Uno. Al di là dell’essere, per essere abbastanza indeterminato, abbastanza amorfo da prendere su di sé tutte le forme. Il soggettile raffigura l’Altro divenuto parte avversa, l’opposto supposto, luogo portatore di tutti i sottoposti, i succubi e gli incubi.

Scopo di tutte le figure disegnate e colorate è un esorcismo di maledizione contro gli obblighi della forma spaziale, della prospettiva, della misura, dell’equilibrio, e attraverso una vituperazione rivendicatrice una condanna del mondo psichico incrostato come una piattola sullo psichico che esso incuba o succuba pretendendo di averlo formato (parole di Artaud in libertà).

Allora l’attenzione è verso gli orifizi, i buchi del volto, come luoghi del nascere, dell’apertura possibile e dell’accadere. Qualcosa può accadere, nonostante tutto e pur nella compresenza delle forme del viso che attestano invece il furto, il passaggio, la metamorfosi. L’Altro, il soggettile, si mostra così essenzialmente intrattabile, permanendo in esso qualcosa di non assimilabile che sfugge a ogni definitivo tentativo di comprensione.

Eppure bisogna «forsennarlo», farlo uscire di senno e nello stesso tempo farlo diventare figura dotata di senso in una «indecisa alterità» e in un rapporto imprevisto e imprevedibile. Bisogna farlo soffrire e tormentarlo, bisogna stanarlo e determinarlo e fargli assumere, finalmente, un aspetto riconoscibile, identificabile, con cui possibilmente farla finita una volta per tutte estirpando la sua autorità o quella che è la sua insopportabile onnipresenza (da Alfonso Cariolato, Indecisa alterità).

E ci vuole coraggio, molto coraggio, perché: «Dopo che Bhudda fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna –un’immensa orribile ombra. Dio è morto, ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. – E noi – noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!» (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza)

Ci vuole il coraggio di farla finita col giudizio di dio, per poter vivere da uomini. «Che cos’è per te la cosa più umana? Risparmiare vergogna a qualcuno» (ancora Nietzsche). Quella vergogna che ha ucciso van Gogh e che Artaud ha descritto in Van Gogh, il suicidato della società, perché:

«È una tendenza delle nature elevate, sempre un grado al di sopra del reale, quella di spiegare tutto con la cattiva coscienza, di credere che mai nulla sia dovuto al caso e che tutto ciò che succede di male succeda per effetto di una cattiva volontà cosciente, intelligente e concertata.
Cosa che gli psichiatri non credono mai.
Cosa che i geni credono sempre.
Il fatto è che van Gogh era giunto a quello stadio di illuminazione in cui il pensiero in disordine rifluisce davanti alle scariche invadenti e in cui pensare non è più logorarsi, e non è più, e in cui non resta che raccogliere corpo…
Un giorno la pittura di van Gogh, armata e di febbre e di buona salute,
ritornerà per scagliare in aria la polvere di un mondo in gabbia
che il suo cuore
non aveva potuto sopportare.»


Quella vergogna è anche la vergogna di Artaud, perché:

«Mai la società attuale potrà credere che ci siano razze intere di uomini che si sono decise a vivere da animali
e che per ciò stesso si son viste spuntare degli organi che permettono loro di sottrarre la vita fluidica segreta dal corpo umano nel Sig. Antonin Artaud,
padre degli uomini.
La Società degli esseri è un vampiro
che non vuole andarsene
e che è legato
nervo a nervo
e fibra a fibra
al proprio oggetto:
lo sfruttamento indefinito del corpo dell’uomo umano.»

martedì 15 gennaio 2008

La legge dei nanetti e il ribaltone virtuoso

Le attuali controversie sulla riforma elettorale mi annoiano mortalmente. Non perché l’argomento non mi sembri importante. Tutt’altro. Ma perché trovo imbarazzante il continuo tira e molla dei partiti, delle loro correnti, dei singoli deputati. Vedremo come sarà accolta la bozza Bianco. A caldo, il sospetto è che sia frutto di troppi compromessi per essere efficace o anche solo per continuare il suo iter (e ciò nonostante sia da apprezzare l’enorme lavoro svolto).

In linea di principio, credo che un buon strumento per valutare la bontà o meno di una proposta di riforma elettorale sia la «legge dei nanetti», formulata mesi addietro da Giovanni Sartori: «Se una riforma elettorale è avversata dai partitini, vorrà dire che va bene; se invece piacerà ai partitini, vorrà dire che è cattiva.»

Sartori, tuttavia, non è tipo da farsi illusioni. Sa bene che la sua legge tiene conto di quello che sarebbe necessario per l’Italia d’oggi (garantire la governabilità, in quanto condizione necessaria e imprescindibile per esercitare il potere), ma ignora la situazione reale della politica italiana che trasforma quella legge in un paradosso. In effetti, la legge dei nanetti, che garantirebbe la governabilità, dovrebbe essere applicata dall’attuale sistema politico che versa in uno stato di ingovernabilità, e che pertanto fatica a prendere decisioni coerenti anche sulle “piccole” cose. Figuriamoci su quelle fondamentali!

Non possiamo pretendere che gli attuali schieramenti politici facciano come il barone di Münchausen e si tirino fuori dal pantano prendendosi per il codino. Né si può pretendere che i partitini vadano allegramente incontro alla morte politica, senza dibattersi e dare fondo al proprio istinto di sopravvivenza. Occorre un atto di forza dall’esterno – del sistema politico o degli attuali schieramenti: insomma, o il referendum o un diverso schieramento ad hoc. Nelle attuali condizioni, la seconda ipotesi sembra la meno probabile, ma è anche la più fruttuosa. Che cosa prevede? Prevede che i giganti – Forza Italia e Partito Democratico – si mettano d’accordo e siano risoluti non solo nei confronti dei nanetti ribelli e parassitari che infoltiscono le rispettive corti, ma anche nei confronti dei vassalli, che hanno ancora più interesse a indebolire la loro forza.

Almeno in teoria, non si tratta di un’eventualità impossibile. È più facile raggiungere un accordo tra due forze equivalenti per peso elettorale e (nonostante gli slogan ostili, consueti agli standard di una campagna elettorale permanente) non troppo dissimili in alcuni ambiti strategici che non fra una molteplicità eterogenea e squilibrata di forze, come sono quelle che reggono tanto la coalizione di centrosinistra quanto quella di centrodestra.

Intendiamoci: non sto dicendo che FI e PD siano uguali o che facciano la stessa politica (questa sarebbe una sciocchezza). Voglio dire che, sul piano istituzionale, hanno interessi comuni (il bipolarismo), che non possono condividere con i rispettivi alleati (i quali, giocando la carta del propozionale, mirano in realtà ad avere le mani libere, e cioè a rimettere in discussione la contrapposizione bipolare). Né possono fare i propri interessi senza cannibalizzare questi ultimi.

Del resto, l’operazione di restauro che FI (o partito delle Libertà) e PD hanno compiuto alla fine del 2007 non avrebbe senso se questo non fosse lo scopo. L’efficacia di quella operazione si misura in base alla capacità dei due partiti di snellire le coalizioni in cui si collocano: cioè, appunto, cannibalizzare gli alleati senza tanti complimenti. E potranno riuscirci meglio rinunciando a farsi guerra quando i loro interessi coincidono.

Certo, un eventuale accordo FI-PD potrebbe portare a una crisi di governo. Ma non è scritto nelle stelle. Nanetti e vassalli sanno che la festa non può durare in eterno (se tirano ulteriormente la corda, già tesa al massimo, provocano la bancarotta politica dell’Italia e quindi anche la bancarotta di se stessi). Di fronte a una presa di posizione ferma dei due giganti, potrebbero anche decidere che è più conveniente per loro serrare le fila attorno al naturale alleato, magari riunendosi in una formazione più ampia che offra loro maggiori possibilità di pressione (sono prospettive già in atto).

Senza contare che, insieme, FI e PD avrebbero una larghissima maggioranza: forse non proprio il 70% dei consensi elettorali che si ricava dall’ottimistica somma dei rispettivi sondaggi, però certamente una percentuale che farebbe dormire sonni tranquilli. Di fronte alla riottosità dei partner, potrebbero minacciare di ribaltare le attuali alleanze (cosa tutt’altro che contraria alle leggi della politica) e andare provvisoriamente uniti alle elezioni, al fine di togliere il Paese dall’impasse in cui si trova, ammodernare l’assetto istituzionale e tornare, una volta superata l’emergenza, a dividersi, com’è naturale che sia. L’elettorato capirebbe che si tratta di un atto di responsabilità civile (ovviamente, io non li voterei, ma questo è un fatto del tutto irrilevante).

È vero invece che l’eventuale accordo FI-PD impedirebbe anche soltanto di pensare a una legge sul conflitto di interessi. Ma si può obiettare che quella è una legge che l’odierno governo Prodi non è comunque in grado di realizzare. Tanto vale rinunciarvi, per il momento, in cambio di un fruttuoso accordo almeno sulla riforma elettorale (l’alternativa, come temo, è non avere né una seria legge sul conflitto di interessi né una buona riforma elettorale).

Ho tracciato un quadro da fantapolitica, me ne rendo conto. Ma non vedo perché la fantapolitica debba essere meno appetibile della farsa o della commedia degli orrori che quasi regolarmente ci propina palazzo Madama.

venerdì 4 gennaio 2008

Il mondo perduto di Tristano e Isotta

di Susanna Janina Baumgartner

Il Tristan und Isolde di Richard Wagner, che ha aperto la stagione del Teatro alla Scala, è un’opera troppo complessa perché se ne possa parlare qui in modo organico. Ciò non impedisce, tuttavia, di fare alcune osservazioni sulla tematica centrale.

Come scrive Maurice Blanchot in La comunità degli amanti, riferendosi proprio a Tristan und Isolde, perfino la reciprocità del rapporto d’amore esclude tanto la semplice corrispondenza quanto l’unità in cui l’Altro si fonderebbe con lo Stesso.

La passione sfugge alla possibilità, sfuggendo, per coloro che ne sono preda, ai loro stessi poteri, alla loro decisione e perfino al loro «desiderio». Li attira nell’estraneo in cui diventano stranieri a se stessi, in un’intimità che li rende stranieri anche l’uno all’altro. Non separati né divisi: inaccessibili e, nell’inaccessibile, in un rapporto infinito.

L’io e l’altro non vivono nello stesso tempo, non sono mai insieme, contemporanei, ma separati da un «non ancora» che va di pari passo con un «ormai non più».

Questo tempo indefinito di un rapporto infinito è quello che vuole esprimere, ed esprime, la musica di Tristan, sempre in attesa e sempre sospesa, senza inizio e fine, senza soluzione. Amore e morte che presuppone la scomparsa, ovvero lo sprofondamento del mondo.

Ricordiamo le parole di Isolde: «Abbiamo perduto il mondo e il mondo ha perduto noi.» Il compimento di ogni amore autentico sarebbe quello di realizzarsi soltanto nel modo della perdita, realizzarsi perdendo quanto non si è mai avuto. L’amore non ci appartiene, può solo essere quel momento che eternamente si rivela e nel contempo ci sfugge. Un mistero che non può essere svelato, ma solo vissuto e che viviamo paradossalmente soli, perché l’amore rivela l’altro come esistente, l’Altro.

Tristan und Isolde
di Richard Wagner

Direttore Daniel Barenboim ● Regia Patrice Chéreau ● Scene Richard Peduzzi ● Costumi Moidele Nickel ● Luci Bertrand Couderc

Personaggi e interpreti: Tristan Ian Storey ● Isolde Waltraud Meier ● Brangäne Michelle De Young ● Kurwenal Gerd Grochowski ● König Marke Matti Salminen ● Melot Will Hartmann

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