giovedì 19 febbraio 2009

Storia balneare d’Italia:
i “Gamberi” di Giovanna Nuvoletti

Nel panorama della narrativa di qualità, Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più di Giovanna Nuvoletti è senz’altro uno degli esordi più interessanti e letterariamente complessi. Il libro può essere letto come una riflessione narrativa sulla storia d’Italia, ripercorsa secondo un originale quanto straniante punto di vista: quello dei più o meno blasonati frequentatori della Capannina, il famosissimo locale di Forte dei Marmi, inaugurato nel 1929 da Achille Franceschi.

I grandi avvenimenti della storia collettiva (il fascismo, la guerra, la ricostruzione, il boom economico, la contestazione giovanile...) e le trasformazioni sociali che a essi hanno fatto seguito sono rivissuti appunto attraverso le conversazioni e i comportamenti di questo microcosmo privilegiato, che l’autrice – fotografa di razza e figlia di un maestro d’eleganza quale il “conte” Giovanni Nuvoletti Perdomini – conosce bene ma nel quale pure non si riconosce e che anzi dipinge con tratti di forte distorsione espressionistica.

Va subito aggiunto tuttavia che alla tematica storico-sociale se ne affianca un’altra di carattere privato: il trauma che la narratrice ha subito in età adulta per la morte della madre, esempio precorritore di femminilità spregiudicata e indipendente. Questa commistione tematica non deve stupire. Ha un precedente eccelso: Carlo Emilio Gadda. Ma, mentre l’autore della Cognizione del dolore non esita a dare espressione ai propri furori per la felicità sottrattagli, al contrario la Nuvoletti preferisce dissimulare narrativamente il proprio dramma, che solo l’ambigua dedica collocata alla fine del libro lascia trasparire: «Ad Adriana, quella vera. Che io non ho perdonato mai.» Sembra quasi che per lei la scrittura abbia assolto fra l’altro una tardiva funzione terapeutica che la sua morale aristocratica le impone di non esternare troppo.

Per contro, mentre l’inquietudine privata e lo sdegno per il tradimento morale della borghesia meneghina in Gadda trovano parziale conforto nella contemplazione del vitalismo elementare dei ceti popolari, nel suo libro la Nuvoletti non accondiscende ad alcuna forma di risarcimento. Anche la scarna e quanto mai essenziale descrizione paesaggistica non concede nulla all’intenerimento lirico, astenendosi programmaticamente dal registrare le meraviglie naturali delle Alpi Apuane e della porzione meridionale del mar Ligure. La narratrice si limita a offrire le informazioni ambientali necessarie a inquadrare la scena con un pressoché costante ricorso alla frase nominale: «Luna coperta a tratti da nuvole in corsa, mare che sbatte sonoro sulla riva» (p. 19); «Luce d’inizio estate, limpida e lattea. Il mare è spettinato da qualche folata di vento» (p. 65); «Notte. Tempo di guerra. Intorno alla Capannina buio e silenzio. Al parcheggio, niente automobili, solo biciclette. Dentro, niente orchestre né balli» (p. 71).

D’altra parte, ad avvicinare la narrativa della Nuvoletti allo sperimentalismo lombardo (Dossi, Bontempelli, Gadda, Arbasino, Umberto Simonetta) intervengono altri due motivi di consonanza poetica: la condivisione di un umanesimo critico sorretto da una pensosa visione morale del divenire storico che respinge ogni facile illusione nelle «magnifiche sorti e progressive» propria tanto del realismo socialista quanto di quello borghese ottocentesco; e il conseguente disinteresse per l’intreccio ad ampie volute popolato di personaggi tratteggiati in modo corposo, a cui qui viene preferita una narratività antiromanzesca, in cui s’avvicendano figure quasi bidimensionali o ectoplasmiche, appena accennate.

Il soggetto del resto – raccontare la storia d’Italia attraverso le vacanze di un gruppo di nobili, finti nobili e ricchi borghesi – impone una strutturazione esasperatamente ellittica dei materiali narrativi, disposti in brevi capitoli ciascuno dei quali focalizzato su un mese balneare: “Agosto 1929”, “Agosto 1930”, “Luglio 1931”... La scelta risulta ancora più marcata se si considera che su molte annate il racconto sorvola del tutto, con una frequenza crescente man mano che ci avviciniamo ai nostri giorni (1982-83, ’86-87, ’88, ’91, ’93-96, ’98-2003, 2004-2005).

Alla parzialità della scansione cronologica si sovrappone la parzialità del punto di vista dei personaggi cui spesso la narratrice addirittura nega una qualsiasi forma di individualità riconoscibile. L’uso degli indefiniti, dell’impersonale e dell’astratto al posto del concreto è insistente: «Qualcuno disse... Alcuni risero» (p. 41); «Una delle signore chiede... Un’altra risponde» (p. 25); «Si sorride. Si alzano bicchieri per brindare. Stancamente, si intreccia qualche pettegolezzo» (p. 66), «All’improvviso si alza una voce dall’accento milanese» (p. 16)...

Anche il ricorso al tricolon, depurato della morbida sensualità dannunziana, è volto a denunciare il carattere mistificante di una drammatica commedia mondana: «Sentiva arrivare le voci, eleganti, annoiate, disinvolte» (p. 11: dove l’aggettivo intermedio, annoiate, corregge in funzione antifrastica gli altri due). Non solo. Ad accrescere la distanza dai personaggi dell’io narrante contribuisce la saggezza postera di quest’ultima. «Nessuno ci separerà mai» promette la piccola Gemma al compagno di avventure della sua infanzia. «Furono separati» commenta con ironia la narratrice, che sa molto più delle sue creature, non perché s’arroghi una onnisciente superiorità ottocentesca, ma semplicemente perché conosce il seguito degli eventi e può valutare i fatti col senno di poi.

Col senno di poi, appunto, la storia d’Italia raccontata dalla Nuvoletti appare una successione di eventi scollegati fra loro, privi di un senso, di una direzione, di una logica unificante: insomma, una non storia. Si capisce che in questo contesto anche le forze idealmente portatrici di un messaggio di rinnovamento storico siano dipinte con sospetto: come in Gadda e in Arbasino, la borghesia imprenditoriale del Nord sembra più preoccupata di scimmiottare i modelli di comportamento della nobiltà che ha sostituito piuttosto che di garantire al Paese un governo all’altezza delle sfide della modernità.

Anche la contestazione giovanile e l’avanzata elettorale del movimento comunista negli anni Settanta passano senza lasciare il segno. Suscitano il temporaneo entusiasmo della giovane e ribelle Flora, alter ego molto mediato della narratrice. Non si dimostrano tuttavia in grado di produrre il cambiamento auspicato. A emergere dai Gamberi è insomma una diagnosi storica di aspra severità (forse troppo aspra per suscitare il consenso del pubblico di massa), frutto di una disillusione che non riconosce tuttavia diritto di cittadinanza alla nostalgia per il passato elitario.

I Gamberi sono il racconto di una scrittrice che ha avvertito un profondo senso di estraneità rispetto al milieu storico-sociale in cui l’è toccato in sorte di vivere e ha tentato sinceramente di emanciparsene cercando altri modelli di organizzazione della vita consociata e individuale che tuttavia non hanno mantenuto le promesse. Alla Nuvoletti non resta dunque che esaminare senza compiacimenti e senza mistificazioni un destino bloccato, in cui non si va né avanti né indietro.


Giovanna Nuvoletti
Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più
FAZI

pp. 298, € 16,00

domenica 8 febbraio 2009

Che cos’è l’arte contemporanea?

di Susanna Janina Baumgartner

Un ciclo di incontri sull’arte contemporanea, dal titolo Che cos’è l’arte contemporanea, ha portato un vasto pubblico al PAC grazie alla collaborazione fra Assessorato alla Cultura di Milano e ACACIA – Associazione Amici Arte Contemporanea.

I quattro appuntamenti (il prossimo e ultimo si terrà il 17 febbraio) hanno avuto inizio il 13 gennaio con l’attesissimo critico e storico dell’arte Germano Celant che ha dato una possibile visione “apocalittica” di un’arte senza scampo. Un’arte che vede nel mantenimento del soggettivo e di un’estrema individualità la possibilità di un’offerta e quindi di un progetto che possa essere anche veicolo di positività nel creare relazioni, ma che si trova poi a essere promozione turistica e coloniale di mondi vergini, come ad esempio i deserti arabi, diventando quindi un mezzo per esaltare nuovi centri di potere.

Si creano quindi musei grandiosi che diventano luoghi di attrazione, consumo e seduzione, mentre le opere diventano cartoline rappresentative del prestigio di una città per un’arte che sia funzionale come la moda. Persino il Vaticano, conscio del potere propagandistico dell’arte, ha deciso di proporre, per la biennale del 2011, opere di Anish Kapoor e Bill Viola; così come gli sceicchi che coniugano anche per l’arte fede e potere.

Vi è un procedere omogeneo da nord a sud e da est a ovest. La preoccupazione di Celant, rispetto alle istituzioni che desiderano occuparsi dell’arte, è che vi siano operazioni commerciali di cattiva qualità. La scelta delle opere andrebbe sempre fatta con specialisti qualificati e con la preziosa collaborazione di galleristi e collezionisti.

Se prima vi era, come ha detto Maurizio Cattelan in un’intervista a Francesca Bonazzoli apparsa sul «Corriere della Sera» di martedì 3 febbraio (in occasione dell’apertura a Palazzo Reale della mostra Futurismo 1909-2009. Velocità + Arte + Azione), il tempio del mercato, ora che è crollato, vi saranno finalmente artisti più coraggiosi. E dopo il protagonismo delle case d’asta e dei curatori è arrivato il momento giusto per gli artisti di prendere posizione: «Da troppo tempo gli artisti producono e non dicono.» Quello che bisogna evitare è che l’arte ideologica diventi didascalica, quindi, come ha osservato anche Celant, bisogna evitare che le opere diventino propaganda.

Carolyn Christov-Bakargiev, direttore artistico della XIII edizione di Documenta a Kassel (2012) ha sottolineato quanto oggi sia necessario imparare ad orientarsi fra differenze e complessità senza perdere la possibilità di agire, sapendo però allontanarsi da una circolarità del mondo dell’arte che può diventare, e per forza di cose diventa se non sa e non può allargare i propri orizzonti, passività.

L’esperienza dell’arte è e deve essere attiva e le opere devono essere autonome. Si va verso quello che non si capisce. Il già capito è passato o si è già trasformato in altro. Anche per Carolyn entra in campo la parola coraggio che si sposa con la parola arte e artista, perché non si deve avere paura di collegare la cosiddetta cultura alta con la cultura bassa, in un momento in cui, per effetto della globalizzazione, l’arte è ovunque. Non si deve sentire tanto la necessità di uno spirito del tempo (Zeitgeist), ma piuttosto la necessità di un atteggiamento cosciente e responsabile, perché tutto non sia solo intrattenimento. Attraverso un’emancipazione personale, bisogna giungere a considerare l’aspetto sociale. Come Joseph Beuys, bisogna credere negli uomini e nell’energia creativa: «L’unica forza rivoluzionaria è la forza della creatività umana.»

Quello che più mi colpisce è che proprio nell’era della simultaneità, più che della velocità, si rischi paradossalmente un arresto e una visione stereotipata di un’immagine costruita a priori per esigenze ideologiche o di mercato. Non tutto è relativo, esistono valori ai quali si sta ritornando e che rappresentano i nuovi punti di riferimento; qualunque cosa creativa verrà da dove ci sono motivazioni.

Come scrive Giorgio Agamben in Che cos’è il contemporaneo?: «Ma che cosa vede chi vede il suo tempo, il sorriso demente del suo secolo? … Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente.»

Ma bisogna prima comprendere che cosa significa «vedere una tenebra», «percepire il buio». Non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare.

L’astrofisica contemporanea da una spiegazione del buio; quel che percepiamo come il buio è in realtà luce che viaggia velocissima verso di noi e che tuttavia non può raggiungerci, perché le galassie da cui proviene si allontanano a una velocità superiore a quella della luce. Anche per Agamben essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio; il coraggio di percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo.

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