In viaggio con Andrea Camilleri (2001)

   di Giuseppe Gallo

      

È lo scrittore del momento: campione di incassi, dominatore incontrastato delle classifiche dei best seller. Ma, prima di ogni altra cosa, Andrea Camilleri è un riservato e gentile signore. Un conversatore affabile e generoso. Non ha nessuno dei vizi dei divi delle lettere. Ha invece il fascino di chi, dentro di sé, custodisce una saggezza che viene da lontano.
Nato il 6 settembre 1925 a Porto Empedocle, vicino ad Agrigento, vive dal 1949 a Roma, insieme alla moglie Rosetta, da cui ha avuto tre figli. Nel 1958 entra in Rai e firma la regia di molti programmi per il terzo canale radio. Passa in seguito alla tv, dove si occupa degli spettacoli teatrali e degli sceneggiati. Produce, fra l’altro, due delle più fortunate serie per il piccolo schermo: il Tenente Sheridan con Ubaldo Lay e il Commissario Maigret con l’indimenticabile Gino Cervi. Nel 1978 avviene il debutto nella narrativa, con Il corso delle cose.
Poi, a metà degli anni Novanta, arriva il successo: ed è un successo da favola, senza uguali in Italia. Tra i titoli più recenti La gita a Tindari (Sellerio), La scomparsa di Patò (Mondadori) e la Biografia del figlio cambiato (Rizzoli): un’originale interpretazione della vita di Pirandello. Con Camilleri abbiamo conversato per due piacevolissime ore sull’Eurostar che da Roma ci ha portati a Pisa, dove lo scrittore è stato invitato a parlare presso la Scuola Normale.

Camilleri, incominciamo dalla Sicilia. C’è qualcosa che accomuna gli uomini che vengono da questa terra, ed è un sentimento di appartenenza molto speciale, che non si trova altrove. Perché? Che cosa significa?
È un sentimento che ha un’origine antica: qualcosa che circola nel sangue e che può sollevare imbarazzo. Leonardo Sciascia non amava parlarne: sosteneva che le radici mantengono gli uomini immobili, perciò bisogna liberarsene. Ma è pur vero che attraverso le radici entra nell’organismo quella linfa vitale che rende i rami robusti. Poi andiamo a cercarci la nostra patria ideale altrove. Perché, come ha detto una volta Bertolt Brecht, nessuno ha l’obbligo di sentirsi affettivamente legato al davanzale da cui è cascato da bambino. Ma le radici sono importanti: sono come l’imbracatura di un elettricista, che può arrampicarsi sino alla cima di un palo, perché prima ha provveduto ad ancorarsi saldamente al suolo.
Lei è uno di quelli che sono andati via. Quanto costa tagliare il cordone ombelicale con la propria terra?
Molto. In definitiva per un triestino come Italo Svevo era facile dirsi mitteleuropeo. E la stessa cosa vale, oggi, per uno come Claudio Magris. Per “entrare” in Europa noi dobbiamo al contrario compiere un viaggio lungo, che come tutti i viaggi è pure un percorso di mutazione. Per noi andare via vuol dire abbandonare i confini di un’isola. E un’isola è qualcosa di particolare, una specie di vasta famiglia. Poi si può pure aggiungere che le tredici dominazioni che ci sono state in Sicilia non sono passate invano: per cui anche nei luoghi più distanti ritroviamo brandelli della nostra cultura.
Gli intellettuali siciliani, però, sono tradizionalmente critici, persino inclementi nei giudizi verso la propria terra. Perché?
A me sembra che, in realtà, non lo siamo stati e non lo siamo abbastanza. Da sessant’anni godiamo di un’autonomia che Bossi per la sua Lombardia se la sogna. La Sicilia è governata dai siciliani. Ma è tutt’altro che un esempio di buona amministrazione. Purtroppo non sbaglia il principe di Salina nel Gattopardo a dire che le cose non sono cambiate molto con l’Unità d’Italia.
L’unificazione nazionale è stata fatta dunque invano per la Sicilia?
No, era nel corso delle cose: e sarebbe stato patetico illudersi di tornare indietro. È stata però un’occasione mancata. Gli anni seguenti all’Unità hanno amplificato, non ridotto la forbice che separa il Nord e il Sud. Certo, in Sicilia non c’erano industrie. Ma c’erano molte aziende familiari, come oggi nel Nord-Est. Prima del 1860 in Sicilia si contavano 4.000 telai, quattro anni dopo non ne restava nemmeno uno. Perché il Piemonte instaurò una politica economica e fiscale castrante per il Sud. Non solo. Con i Savoia fu introdotto il servizio di leva obbligatorio (durava quattro anni) che non avevamo sotto i Borboni. Sulle già modeste finanze delle famiglie veniva a gravare un’imposta in più: quella dei mancati guadagni dovuti all’allontanamento dei figli dal lavoro dei campi. Poi c’era la corruzione dei funzionari, che venivano inviati qui spesso per punizione. Lo Stato, insomma, si è presentato in Sicilia nel peggiore dei modi. Come un predatore. È naturale che abbia incontrato molte resistenze quando in seguito ha cercato di ripristinare la sua legittima regalità.
In questo contesto come si è introdotta la mafia?
Quando si crea un vuoto istituzionale, c’è sempre qualcuno che lo va a occupare. Lo vediamo anche oggi: nel momento in cui la classe politica ha rinunciato a governare, la magistratura ne ha preso il posto. Ed è una distorsione, perché il compito della magistratura è un altro. In Sicilia è avvenuto qualcosa di simile (e di più grave). La mafia si è imposta come intermediaria tra il potere e i cittadini. Si fingeva che non esistesse, ufficialmente non se ne parlava. Però, per i più svariati bisogni, anziché agli organi dello Stato, inefficienti e assenti, ci si rivolgeva ai capi della mafia, certi che essi sarebbero intervenuti, sia pure alle loro condizioni.
Come si è trasformata la mafia con il tempo?
Radicalmente. La mafia ha un’origine contadina. Agli inizi i suoi uomini li reclutava tra i “campirei”: ossia fra le guardie private che i latifondisti assoldavano per controllare i loro territori. Certo, anche i boss di allora erano dei delinquenti. Ma avevano una diversa morale: ricorrevano alla violenza soltanto come extrema ratio. La consideravano una sconfitta personale, perché per loro la vera autorità consisteva nell’ottenere l’obbedienza usando la sola forza di convinzione. Poi la mafia si è spostata nelle città, ha acquistato altri volti, si è avventurata in quella guerra per bande che tutti conosciamo. È diventata una vera multinazionale, con i suoi laboratori, i suoi centri di ricerca e di sperimentazione.
Che cosa rappresenta invece Roma per lei?
Una seconda patria: quella che mi ha dato la possibilità di fare, di divenire ciò che volevo essere. Appena arrivato a Roma, ho avuto i miei problemi di adattamento. Ma ho capito subito che qui avrei potuto restare: le capacità di assorbimento che ha Roma non si trovano altrove. In seguito ho lavorato nelle sedi Rai di Torino e Milano: ma lì avvertivo un senso di transitorietà, di provvisorio. Poi Roma è diventata la città dei miei figli e dei miei nipoti (ne ho quattro). E a questo punto è difficile distinguere quale sia la vera patria.
Che cos’è il dialetto per lei?
La possibilità di una comunicazione completa. Il dialetto mi dà la sicurezza di poter esprimere ogni cosa, in tutte le possibili sfumature. L’italiano non ha per me la stessa forza espressiva. In Sicilia si dice che l’italiano si impara co’ u culo: nel senso che non lo si apprende dalle labbra materne ma a scuola, con le botte sul sedere.
Nella biografia che ha dedicato a Pirandello lei scrive che il siciliano ha il senso della rappresentazione della morte, non del suo mistero. Che cosa vuol dire?
Quando ero ragazzo, avevo un amico della mia stessa età. Si chiamava Giovannino. Avevamo 17 anni e gli fu ucciso il fratello maggiore. Lui volle assistere all’autopsia. Quando lo incontrai, gli domandai: «Ma non hai avuto paura? Non ti ha fatto impressione?» Lui mi guardò sbalordito e mi rispose: «Nené, ma cosa dici? Perché doveva farmi paura? Non gridava. Morto era». Ecco, per un siciliano il corpo morto è un involucro, che non merita importanza. Poi c’è la memoria. E quella, sì, è importante. E ha i suoi momenti rituali. I cortei funebri da noi sono degli eventi spettacolari, quasi delle sacre rappresentazioni. Fino a poco tempo fa, poi, c’era la festa del 2 novembre: i bambini in Sicilia per ricevere i regali non scrivevano a Babbo Natale, scrivevano ai nonni o agli zii morti.
Veniamo al successo dei suoi libri. è un successo strepitoso, eccezionale, del tutto fuori del comune. Che cosa ritiene di essere riuscito a far scattare nel pubblico?
Non è una cosa facile da capire. Io posso dire che nello scrivere un romanzo bado anzitutto alla storia, agli elementi narrativi. Mi sono occupato per tantissimi anni di teatro, e questa esperienza mi ha insegnato a tenere conto del pubblico (il che non vuol dire fare concessioni al gusto più grossolano). Quando scrivo, ho in mente un ascoltatore più che un lettore: io stesso dopo avere concluso un capitolo lo leggo a voce alta e ciò mi permette di avvertire a orecchio quando la pagina ha un calo di ritmo.
Che cosa l’affascina del teatro?
Il teatro è un mondo particolare. Per farlo bisogna passare attraverso una molteplicità di mediazioni. Un testo teatrale prende vita solo se ci sono un regista e degli attori che lo interpretano, che cioè lo fanno proprio, lo trasformano in qualcosa di personale e di attuale. La stessa cosa non accade con la letteratura. Quando riceve un testo, un editore si limita a giudicarlo, non lo interpreta. Se gli piace lo pubblica, altrimenti no. Il suo compito finisce lì.
E il rapporto con il pubblico? Come cambia dalla narrativa al teatro?
Chi scrive un romanzo si rivolge non a un “pubblico”, ma a un “lettore”: e cioè a un singolo, un uomo che è solo con se stesso nel momento in cui legge. C’è un rapporto ad personam, fra un “io” e un “tu”: il lettore in qualche modo sa che lo scrittore si rivolge proprio a lui. E, infatti, i lettori ti inviano poi le loro lettere e ti raccontano le vicende simili che hanno vissuto. Questo con il teatro non accade. Accade invece un’altra cosa: le singole personalità si trasformano. Nella frazione di secondo in cui in sala si fa buio, diventano quell’unica cosa chiamata pubblico. Il teatro offre allo spettatore la possibilità di fare un viaggio esclusivo, nello spazio e nel tempo. Per cui, entrati alle 20,30 al Teatro Strehler a Milano, ci ritroviamo tutti assieme, a sipario alzato, nella Mosca di Čechov nel mezzo del mattino. Questo viaggio strepitoso, a teatro lo si può fare solo insieme agli altri: se uno spettatore si trova da solo in sala non regge, prende e se ne va.
E la televisione? Che cosa ha rappresentato per lei?
La televisione ha una natura bastarda: è un crogiolo di cose diverse. Ho fatto tanto teatro in televisione e so la sofferenza di un attore come Eduardo De Filippo (ho lavorato a lungo con lui). Ogni volta si ripeteva: «Ma come faccio senza pubblico?» Era terribile per lui non sentire il fiato degli spettatori, non avvertire le loro reazioni. Credo che la grande conquista della televisione stia nell’istantaneità: nella possibilità di raccontare il reale in diretta, di mostrare i fatti mentre accadono. Abbiamo parlato tutti male del Grande Fratello (me compreso). Ma questo programma, con i suoi molti limiti, ha rappresentato un po’ un ritorno alle origini, ha mostrato le potenzialità dimenticate della televisione (che non è nata per fare fiction). 
Che cosa pensa del futuro? Ne ha paura? Ha fiducia?
Per disposizione d’animo io sono ottimista. Però, al di là delle mie idee politiche, mi fa paura la mancanza di respiro della nostra classe dirigente. Vedo troppo spesso che ci si accontenta di piccoli aggiustamenti, di espedienti che valgono per una settimana, un anno, forse poco più. E questo accade in una realtà che muta a un ritmo spaventoso. Lo so che i problemi sono enormi. Anche uno scrittore, nel momento in cui incomincia una nuova opera, deve affrontare dei problemi. Ma quei problemi rientrano in una visione d’insieme. In un progetto, si sarebbe detto un tempo. Ecco, sento la mancanza di un progetto di società. E di intellettuali come Moravia, Pasolini, Sciascia, capaci di riflettere sulle grandi questioni di interesse collettivo.

    
© Giuseppe Gallo (2001)

Nessun commento:

google-site-verification: googlef2108bb8a1810e70.html