Luciano Anceschi. Lento e moderno (1993)

L’Unità 5 aprile 1993
di Giuseppe Gallo

Nel corso del suo lungo operato, Luciano Anceschi ha incarnato in modo originalissimo una figura intellettuale di estrema modernità, congiungendo il rigore della ricerca accademica con la passione militante del letterato propenso a intervenire nel dibattito della idee allo scopo di influire sugli sviluppi presenti della letteratura italiana: una modernità che emerge dalla sua intensa partecipazione al confronto intellettuale sviluppatosi attorno al Gruppo ’63 e testimoniata dal bel volume pubblicato dalle Edizioni Diabasis, Che importa chi parla?, nel quale Michele Galinucci ha raccolto i testi delle conversazioni radiofoniche che ebbe con il grande critico nel marzo 1990 per conto di Rai Tre.
Anceschi ha orientato la sua ricerca nell’intento di definire un metodo «aperto» di indagine dei prodotti letterari, fondato sul rifiuto di ogni assunto aprioristico e di ogni ambizione di interpretazione conclusiva. A venire proposto è un approccio fenomenologico alla letteratura, che mette in risalto la varietà delle forme con cui l’arte si è determinata nella storia. Questa impostazione appare già matura nel primo studio organico di Anceschi, Autonomia ed eteronomia dell’arte, pubblicato per la prima volta nel ’36 (nel pieno dell’egemonia crociana) e ristampato oggi da Garzanti.
In esso e nei volumi che sono seguiti, Anceschi verifica l’attendibilità del metodo fenomenologico su due banchi di prova distinti e complementari, quello della riflessione teorica e quello dell’indagine analitica. Da una parte, si è posto l’obiettivo di chiarire le strutture costitutive (le istituzioni, come egli le chiama) della poesia; dall’altro, si è sottoposto a un lavoro di revisione della tradizione letteraria italiana ed europea, dimostrando una straordinaria vastità di interessi: dai lirici greci al barocco, dai romantici inglesi a Leopardi, da Baudelaire e Rimbaud ai simbolisti, agli innovatori della lirica primonovecentesca (Ungaretti, Montale, Eliot).
Una particolare attenzione nell’analisi dei fenomeni letterari Anceschi l’ha riservata, inoltre, alla riflessione dei poeti su se stessi e sulla poesia in generale (in questo indirizzo di studi, si inserisce, fra l’altro, la sua ultima fatica, Un laboratorio invisibile della poesia, edito da Pratiche e dedicato alle prime cento pagine dello Zibaldone leopardiano). Nella sua prospettiva critica, in effetti, un posto di primo piano ha il concetto di poetica, con il quale egli definisce il frutto dei tentativi che gli scrittori fanno per chiarire a se stessi il senso del loro operato. A venire messa in luce è la presunzione di assolutezza che soggiace a ogni poetica.
In quanto programma di orientamento, la poetica implica infatti un campo definito di scelte, compiute dai poeti come scelte universali, riguardanti l’intera letteratura. Compito del critico è mettere in risalto il valore operativo di queste scelte riconoscendo che la presunta assolutezza si traduce poi in una relatività reale, testimoniata dalla molteplicità delle poetiche affermate nella storia e di norma compresenti in uno stesso periodo.
Come intellettuale militante, d’altro canto, Anceschi si è impegnato nel tentativo di dare credito a una letteratura che tragga alimento dall’osservazione della vita reale degli uomini sostenendo quelle scelte e quelle poetiche viventi che più di altre gli sono sembrate consonanti con il suo modo di sentire. Significativa in tal senso l’individuazione di una linea lombarda (a cui è intitolata una delle sue antologie più fortunate) volta più a indicare una zona ideale che non a delimitare i confini di una poesia connotata in senso rigidamente geografico.
In questa ottica egli interpreta anche lo sperimentalismo degli anni Cinquanta e Sessanta, nel quale vede realizzarsi una sorta di rinnovata poetica degli oggetti. Proprio grazie a tale impegno, condotto sulle pagine dei periodici di cultura (soprattutto su «Il Verri», da lui fondato nel ’56), Anceschi si è imposto come uno dei principali protagonisti del dibattito letterario dando prova di una indubbia capacità carismatica. Del resto, a sorreggere l’intera sua attività critico-filosofica o militante è la convinzione che la riflessione sui fatti di cultura possa rivelarsi fertile solo se nasce dal dialogo e dal confronto, tra idee e interpretazioni discordanti, e fra passato e presente.

Professor Anceschi, il suo primo libro Autonomia ed eteronomia dell’arte ha riscosso un vastissimo consenso da parte dei critici e dei poeti. Ma che cosa ha rappresentato per lei?
Il libro è nato innanzi tutto dal bisogno di crearmi degli strumenti adatti per capire la poesia contemporanea, che la cultura idealistica del tempo rifiutava. E nello stesso tempo dal bisogno di trovare un metodo che consenta di comprendere la necessità di rispondere alle esigenze che i poeti avvertono quando si mettono a fare. In ogni caso, al centro vi è la convinzione che non si deve imporre alla poesia uno schema speculativo, bensì si deve fare in modo che lo schema speculativo garantisca l’autonomia delle poetiche.
Parlerebbe di «autonomia» e di «eteronomia» come di categorie che hanno una validità costante nel tempo?
Più che di categorie parlerei di metodo, cioè di un atteggiamento verso le cose. Quello che prima di tutto a me preme è capire, rispettando la ricchezza e la complessità di significato dei fenomeni indagati.
Quale importanza ha avuto Antonio Banfi (del quale lei è stato discepolo e assistente) nella formazione di questo atteggiamento?
Quando giunsi all’università, io ero un giovane abbastanza informato ed educato in modo rigido nella sicurezza dell’estetica idealistica. Ma mi trovavo in una situazione contraddittoria. Da un lato, ero un crociano fervente fino al sacrificio; dall’altro, ammiravo Ungaretti, Montale e i poeti moderni che Croce non mi aiutava a capire. L’insegnamento di Banfi mi aiutò a uscire da questa difficoltà, offrendomi la possibilità di passare da una visione speculativa restrittiva a una visione speculativa aperta che mi ha permesso di giustificare la ricchezza della poesia contemporanea.
Arriviamo dunque a una questione fondamentale: la compresenza di piani distinti di discorso.
Io ritengo che si debba distinguere tra una riflessione speculativa e una riflessione pragmatica. La prima nasce dalla necessità di comprendere i fenomeni nella loro generalità, rendendosi conto della varietà delle risposte che l’umanità ha dato alle domande fondamentali riguardanti l’estetica e la vita dell’arte. La seconda nasce, invece, dal bisogno di stabilire quali sono i principi che di volta in volta i singoli poeti hanno seguito nel loro fare. Già Leopardi dimostra di avere conoscenza di questa complessità, quando per esempio in una nota dello Zibaldone afferma che non c’è un solo sistema ma una molteplicità di sistemi della poesia.
Insieme a questi motivi, la sua ricerca è sempre stata percorsa da una sostanziale lotta al dogmatismo…
L’antidogmatismo è certamente uno degli elementi del mio discorso. Io sono nato nel 1911, e sono vissuto in un periodo in cui vari dogmatismi (il dogmatismo della chiesa, quello del fascismo, quello dell’idealismo in sede filosofica) ci chiudevano il conoscere. La lotta contro il dogmatismo è stata una lotta contro il mondo di allora. La situazione in cui ci troviamo oggi è un po’ diversa (buona parte di questa azione antidogmatica ha agito, dando i suoi frutti). Ma l’antidogmatismo, per me, ha anche una forza di aiuto per noi che vogliamo capire: è un ammonimento a ricavare il senso delle cose dalle cose stesse, senza imporre un preordinato criterio che distingua ciò che va bene da ciò che va male.
La battaglia contro il dogmatismo si salda con l’affermazione di quello che lei ha chiamato «umanesimo disilluso». Cosa intende con questa espressione?
Io ho vissuto esperienze varie, ho vissuto anche l’esperienza di un idealismo che affermava un umanesimo trionfante. Secondo questo modo di pensare, l’uomo è al centro dell’universo e tutto vive perché l’uomo ha la forza trionfante di farlo vivere. Ecco, io un atteggiamento di questo tipo non lo accetto: vorrei togliere a questa e a ogni altra mitologia antropocentrica la speranza dell’uomo vittorioso. Dobbiamo renderci conto che riguardo all’uomo noi non sappiamo che qualche cosa. L’unica cosa sicura che possiamo dire è che l’uomo conosce quello che fa e cerca di vedere le leggi del mondo attraverso quello che fa.
In questo senso, possiamo forse capire meglio il suo ripetuto richiamo alla lentezza, un valore apparentemente antimoderno.
La teoria della letteratura che deve imitare la velocità della macchina è propria dei futuristi ed è molto datata. Non manca nel Novecento una tradizione che richiama ai motivi di riflessione. Comunque, la poetica della lentezza riguarda me e il mio lavoro. Che cosa vuol dire poetica della lentezza? Vuol dire coltivare una letteratura estremamente responsabile, attenta a se stessa e sorretta da una salda coscienza. Dunque, una letteratura che ha resistenza e calore maturato.
Interessato a ciò che dura nel tempo, lei, tuttavia, è sempre dato molto attento anche al nuovo. Da che cosa discende questa attenzione?
L’interesse per il nuovo mi pare sia connesso con la vita stessa della letteratura. Leopardi dice che non c’è poesia senza un certo nuovo. È una necessità: la poesia non accetta di essere immobile; cerca sempre qualche cosa che la arricchisca e le permetta di andare avanti. I sistemi filosofici sono messi in crisi dalla forza del pensiero dei poeti. C’è un piano di riflessione nella poesia che noi non possiamo ignorare. Quando riflettono sul loro fare, i poeti ragionano in termini di verità: ciascuno ha la sua. Sono verità parziali, che nascono dalla prospettiva particolare di quel poeta, ma sono verità. Il nostro problema è capire queste molteplici verità che si riferiscono al tentativo di definire la poesia.
Fra i movimenti di novità che lei ha seguito e in gran parte ispirato, vi è quello avanguardistico degli anni Sessanta. Lei però ha un concetto particolare di avanguardia...
Credo, infatti, che nell’usare questa nozione si debba essere prudenti. Tratta dal linguaggio militare, la nozione può essere applicata con qualche precisione lessicale al movimento dell’avanguardia storica. Questo movimento è stato veramente una specie di avamposto animato da uno sforzo di rovesciamento radicale. Ma sono stato sempre piuttosto perplesso di fronte all’uso della nozione di avanguardia a proposito dei poeti che erano giovani negli anni Sessanta. Se vogliamo considerare la poesia come qualcosa di vitale, dobbiamo riconoscere che un momento di rinnovamento c’è sempre, un minimo di avanguardia è dentro tutte le ricerche. Ma questa è una cosa diversa dal parlare di avanguardia come categoria. Usato in modo generico, questo concetto serve solo a creare ghetti e a rendere difficile il discorso. Questi poeti che furono riuniti sotto l’etichetta di neoavanguardia erano semplicemente delle persone che reagivano a una certa situazione: davano voce a un’esigenza di rinnovamento ma non chiedevano un cambiamento radicale, violento.
È certo, però, che gli anni della cosiddetta neoavanguardia furono anni fertili per la discussione nel campo della cultura. Da intellettuale militante, come valuta lo stato di salute dell’odierno dibattito letterario in Italia?
La mia impressione è che il dibattito sia stanco. Nella mia lunga vita letteraria ho conosciuto tempi che, a ripensarci, mi paiono più intensi e animati di quelli che stiamo vivendo. Può darsi che il mio giudizio dipenda da una visione dell’anziano, ma mi pare che si possa opportunamente interpretare la situazione presente come uno di quei momenti di riflessione e di riposo (non nuovi nella storia della letteratura), in cui si preparano nuove vitalità, nuove riprese.
In ogni caso, lei ha sempre espresso fiducia nelle lettere e soprattutto nella poesia. Più volte ha parlato addirittura di poesia come forma di salvezza. In che senso?
La poesia ha una forza di testimonianza da un lato e di liberazione dall’altro. Molte volte la poesia ha dato il senso delle cose prima che le cose avvenissero. Quasi si è rivelata profetica. In ogni modo, mi sembra che la poesia aiuti a conoscere e permettendo di conoscere aiuti a vivere: è un modo di partecipazione attiva che salva dal caos della realtà quotidiana. La poesia ci salva perché è una forma di testimonianza che dà alle cose un senso che altrimenti rischierebbe di andare disperso.

© Giuseppe Gallo (1993)
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