Conversazione con Luciano De Crescenzo (1998)

Il tempo, il disordine, lessere e il computer
di Giuseppe Gallo

Luciano De Crescenzo, nella sua attività di scrittore e divulgatore lei ha cercato di conciliare due diverse culture, quella umanistica e quella scientifica, che ha acquisito con il processo di modernizzazione un appeal presso il pubblico di massa mai conosciuto prima in Italia. Partiamo allora dalla modernità. Che cos’è per lei?
La questione della modernità può essere inquadrata con qualche efficacia ricorrendo a un concetto della fisica che ha a che fare con l’entropia. Si tratta del problema dell’ordine e del disordine. Per vivere, noi abbiamo bisogno di ordine: dobbiamo schedare, catalogare, dare un significato alle cose, tenere tutto sotto controllo, mettere da parte l’inutile, custodire nei cassetti della mente ciò che pensiamo ci servirà. In questo assetto così sollecitamente costruito, il disordine interviene con le sue novità a portare scompiglio, per permetterci di fare un passo avanti e raggiungere, dopo il momento di sbandamento, un ordine più evoluto. La modernità è, in qualche misura, connessa al disordine, al nuovo, a ciò che non è codificato. Personalmente, amo l’ordine. Perché se non ci fosse, non avrei la possibilità di disordinarlo. Il disordine è il prodotto della nostra capacità di essere creativi. Ma, se venisse lasciata completamente libera, la creatività finirebbe col produrre una confusione insostenibile. È necessario che intervenga l’ordine per permettere di attuare quanto si è creato. Per ciascuno di noi, il problema è arrivare alla terza età conservando un certo amore per il disordine. Se dividiamo l’età dell’uomo in tre macro-stagioni – la giovinezza, la maturità e la vecchiaia – ci accorgiamo che queste stagioni si accoppiano rispettivamente a tre concetti: rivoluzione, riflessione e televisione. Si incomincia volendo cambiare il mondo, si finisce col cambiare canale. Questo è il nostro destino: subentra una specie di stanchezza, per cui ti ritiri a casa, ti metti davanti al televisore, e non osi più né inventare né proporre. Per superare quella pericolosa malattia che è la vecchiaia, bisogna invece conservare uno spirito disponibile al cambiamento. Non è facile, ma bisogna provarci.
Pur svolgendo una professione moderna per eccellenza quale quella di ingegnere, lei ha conservato un profondo interesse per la tradizione umanistica. Perché? Che cosa vi trova in quella tradizione?
Cinquant’anni fa mi trovai davanti a un bivio. Volevo fare l’università e dovevo decidere se iscrivermi a Lettere e filosofia o a Ingegneria; quindi, se indirizzarmi verso il passato oppure verso il futuro. Mentre dal Vomero scendevo giù a Napoli incontrai un’amica, e costei mi disse che le ragazze iscritte a Lettere erano tutte brutte, mentre tra quelle che facevano ingegneria se ne trovavano molte carine. E questo mi decise a prendere una direzione piuttosto che l’altra. Poi, un professore di filosofia guadagna molto meno di un ingegnere e, come ingegnere, avrei trovato più facilmente lavoro. Però, la voglia di studiare la cultura classica non mi è venuta meno col tempo. La verità è che nutrivo interessi su piani completamente diversi, e non avevo intenzione di rinunciare a nessuno dei due. Così, pur dedicandomi all’ingegneria, ho continuato come hobby a interessarmi della cultura greco-latina e soprattutto della filosofia antica. A un certo punto della vita, a quarantotto anni o giù di lì, ho deciso di abbandonare l’attività di ingegnere e mi sono messo a fare lo scrittore, riversando in questo mestiere quanto avevo assorbito dalla filosofia, soprattutto greca.
Narratore, autore di fumetti, regista cinematografico, personaggio televisivo… Qual è la figura che sente a lei più congeniale?
In un certo senso, io mi sento simile a un missionario. Così come un bravo missionario cerca di portare il verbo nella terra degli infedeli, allo stesso modo io provo a offrire qualche strumento di cultura a un pubblico che altrimenti non avrebbe accesso al sapere. Per esempio, Il tempo e la felicità parla di Seneca. Quanti leggono Seneca oggi? Se fermassi per strada i passanti o andassi in uno stadio dove stanno ammassate cinquantamila persone e dicessi «alzi la mano chi ha letto Seneca nell’ultimo anno», andrei incontro a una bella delusione. Magari qualcuno lo ha studiato a scuola, ma a scuola lo ha dimenticato. Il tempo e la felicità, invece, lo hanno letto in molti, e in qualche modo attraverso quel libro i lettori sono entrati in contatto con le Lettere di Seneca. Incominciano così ad avere qualche idea di ciò che Seneca ha detto e fatto. È il mio modo di accostare il pubblico a certi argomenti classici: operazioni simili le ho compiute con Eraclito, con certe nozioni di fisica, con la mitologia. A me diverte, e credo di fare pure un’opera buona, meritoria.
Quali sono a suo avviso i fattori che stanno all’origine della fortuna editoriale di un libro?
Il segreto sta nello scrivere in modo semplice. Del resto, è vero che ci sono molti mezzi per promuovere un libro, a cominciare da quello più tradizionale, la recensione. Ma la recensione non serve a niente: non la leggono se non il recensore, la madre del recensore, l’autore, la madre dell’autore, più qualche amico. La pubblicità sulla carta stampata funziona già di più perché, anche non volendo, l’occhio ci cade sopra. Il passaggio in televisione è ancor meglio: il Maurizio Costanzo Show, fra la trasmissione della sera e quella del mattino, viene visto – quando va male da quattro milioni di telespettatori. Se sei ospite al varietà del sabato sera, ti vedono in nove milioni. Non parliamo di Sanremo, la cifra sale a diciotto milioni. Niente male, no? Eppure, non c’è promozione più efficace del passaparola: quando il lettore riesce ad arrivare all’ultima pagina di un libro è talmente contento per avercela fatta che, la mattina dopo, lo racconta a tutti. Va in ufficio e annuncia: «Ieri sera, ho finito di leggere il libro tal dei tali: me la sono spassata per due ore.» E racconta, riassume qualcosa, magari commenta. Il lettore non bisogna abbandonarlo a se stesso, bisogna prenderlo sotto braccio, non farlo mai sentire solo e accompagnarlo sino al termine del cammino.
Per dedicarsi al lavoro letterario, lei ha abbandonato la sua professione. Quale rapporto ha col lavoro?
Forse quello che io svolgo non si può chiamare veramente lavoro. Il lavoro è un’altra cosa, è quello del cassiere di banca, che alle otto e mezza di mattina si siede alla sua poltrona, apre lo sportello e per tutto il giorno ritira assegni, distribuisce denari, firma e ammassa carte. E così, ripetitivamente, finché chiude lo sportello. Si capisce che, quando arriva ad agosto, il povero uomo non ce la faccia più ed abbia bisogno di un mese di vacanza: in quel mese vuole staccare, pensare ad altro, stordirsi in vario modo. E sto parlando di un lavoro qualificato. Stanno decisamente peggio quelli che fanno lavori manuali, spesso anche pesanti. Ma il lavoro che svolge un regista cinematografico, che passa la giornata circondato da belle ragazze, inventa storie e situazioni, realizza ciò che è frutto della sua fantasia, be’, non lo si può mettere sullo stesso piano. Quello, ad agosto, non ha nessuna voglia di andarsene alle Maldive: perché a fare la bella vita, prima o poi, ci si scoccia. Ci sono lavori e lavori, lavori gratificanti e lavori non gratificanti.
Cosa fa la differenza? Cosa rende un lavoro gratificante?
Dobbiamo distinguere l’essere dal non essere. Nel momento in cui ci fa capire che l’essere è e il non essere non è, Parmenide (che è l’inventore della filosofia) ci ha fatto capire anche che per essere felici bisogna essere. Vi sono lavori che non ci consentono di essere, perché non ci offrono alcuna gratificazione. In che cosa un cassiere di banca può essere gratificato sul lavoro? Non riesco a immaginarlo. Per uno scrittore, un regista, uno scultore o un pittore è certamente più facile trovare gratificazione in quello che fa... Ma non soltanto coloro che svolgono delle professioni artistiche possono essere gratificati. Anche un tabaccaio può aspirare all’essere. Per esempio, ce n’è uno nel quartiere in cui abito – il rione Monti –, che se ne sta lì a vendere sigarette, confezioni di kleenex, dentifrici, accendini... Quando qualcuno entra nel suo negozietto, si mette a parlare con lui: «Dottore, come state? Bene? E quel vostro problema alla schiena?» E, parlando un po’ con l’uno e un po’ con l’altro, comunica: attraverso la parola, entra in contatto con mondi diversi dal suo. Allora, lavorare e vivere nel rione Monti diventa anche una cosa piacevole. È lì che si realizza l’essere: in questo scambio di esperienze ed emozioni, nell’entrare in relazione con gli altri, nel comunicare. Ecco, si è uomini se si sa e si può comunicare con gli altri uomini. Se il mestiere che uno si è scelto offre questa possibilità, allora l’essere è raggiungibile, cresce, si rafforza. Ma non si è uomini se si passa tutta la giornata davanti a un video, si tratti di un computer collegato in rete o un televisore.
Ma sono davvero così pericolosi computer e televisione?
In un certo senso, la tecnologia non è che un insieme di prolungamenti: il telefono è il prolungamento dell’orecchio, la televisione è un prolungamento dell’occhio, l’automobile un prolungamento delle gambe. Il computer è un prolungamento della memoria. Tutti questi mezzi hanno fatto diventare più lunghi i nostri arti e hanno potenziato i nostri sensi. Ciò che conta è non conferire loro più importanza di quanta ne abbiano. Ho amici che non si sognerebbero nemmeno di avvicinarsi a un computer, ne hanno paura: temono che sia in grado di carpirgli l’anima. Io me ne servo. Così come mi servo degli altri prolungamenti. Ma servirsene non vuol dire esserne asserviti.
Il suo ultimo libro, mentre divulga i principali concetti della filosofia di Seneca, prova anche a rispondere ad alcune esigenze dell’esistenza, a partire dalla ricerca della felicità. Che cos’è dunque la felicità?
Esistono due tipi fondamentali di felicità: quella dello stoico e quella dell’epicureo. Vi sono persone che, da stoiche, si sentono felici soltanto quando soffrono, perché non c’è nulla da fare: lo stoico in realtà vuole soffrire, e se non soffre non è contento. Tutti i movimenti religiosi sono movimenti stoici. Lo slogan siamo nati per soffrire non l’ho coniato io, ma la chiesa cristiana. Non parliamo poi degli integralisti islamici: se non spargono sofferenza, la sera non riescono a coricarsi tranquilli. Ma non solo i movimenti religiosi, anche quelli politici sono movimenti stoici. Il comunismo, per esempio. Se vuoi che risplenda il sole dell’avvenire, devi prima fare la rivoluzione, e la rivoluzione è fonte di sofferenza. Ogni movimento di matrice stoica, religioso o politico che sia, presuppone per l’oggi la morte e la sofferenza. Il piacere è sempre proiettato in un’età futura, nella prossima vita. Per l’epicureo, invece, conta cercare di essere felici stasera. Al domani, Dio ci penserà. Chi vuol essere lieto sia, del doman non c’è certezza. Qualcosa del genere la diceva anche Orazio, che si considerava un porco del gregge di Epicuro, a lui del domani non importava molto: carpe diem quam minimum credula postero. Vivi il presente, non confidare nel domani. Insomma, la felicità per l’epicureo si colloca nel presente, per lo stoico nel futuro.
Oggi, domani, presente, futuro... Sono tutte espressioni utili a mettere ordine nello svolgersi del tempo. Vediamo allora questo concetto. Che cos’è il tempo?
Il tempo non ci sta a essere da meno rispetto alla felicità, e allora è lì che dice: pure io sono bipartito, ho due volti e due anime, il tempo fisico e il tempo psicologico. Ma il tempo psicologico può, a sua volta, essere visto sotto due aspetti. E qui ci soccorre il concetto di durata. Un conto è un’ora trascorsa con il grande amore della nostra vita (e, allora, come si dice, il tempo vola), un altro conto un’ora passata dal dentista. Per l’orologio queste due diverse ore hanno la stessa durata, per la nostra psiche no, sono diversissime tra loro.
Dunque, il tempo psicologico come dominio del relativismo…
Quando ero direttore della Ibm di Napoli, ho avuto modo di sperimentare bene la validità del punto di vista relativistico. Poiché nei vecchi uffici non ci stavamo più, la Ibm mi aveva incaricato di cercare una nuova sede fuori città. Ma io non me la sentivo di fare molti chilometri per andare a lavorare e poi tornare a casa. Cercai dunque un edificio dentro Napoli e lo trovai a Mergellina, un bellissimo palazzo centrale. Riuscii a prendere tutto il primo e il quinto piano. Ma non potevo immaginare che gli impiegati avrebbero protestato. Dovendo andare continuamente da un piano all’altro, venivano da me e dicevano: «Ingegnere, la signora del terzo piano col carrozzino del bambino! Ieri l’ascensore non arrivava mai. L’ho aspettato per mezz’ora.» Non era vero, avevano aspettato sì e no cinque minuti. Ma è vero che era un palazzo per abitazioni civili, con un ascensore piccolo. Allora, fui costretto a prevedere la costruzione di un secondo ascensore all’interno del cortile. Ma, per realizzarlo, era necessario prima coinvolgere i proprietari degli appartamenti, ottenere i permessi del Comune, eccetera. Incaricai il portiere di rilevare il numero di persone che salivano e scendevano. Dicevo: per favore, quando vede una persona salire sull’ascensore, mi fa un’asta se si tratta di un inquilino qualsiasi, una croce se è uno dell’Ibm. Poi, ci fu una riunione al quinto piano, per decidere il da farsi. Per valutare la costruzione del secondo ascensore, la Ibm aveva creato una task force, composta di tecnici ed esperti. Si parlava di un investimento di milioni di lire. Nel corso della riunione, a un certo punto vidi in fondo alla sala il portiere con la mano alzata che mi chiedeva di parlare. Gli domandai cosa volesse. E lui fece la sua proposta: «Ingegnè, io c’ho un’idea molto bella, che costa dieci-ventimila lire al massimo. Noi mettiamo due begli specchi, uno al primo piano, uno al quinto. La gente si guarda allo specchio, il tempo passa e nessuno protesta.» Così abbiamo fatto, e credo che le cose vadano avanti ancora a quel modo. Il tempo passa. A chi vuol saperne di più sulla durata, consiglio la lettura di Henri Bergson.
E il tempo fisico?
Offeso perché ho sostenuto che il tempo psichico può essere considerato sotto aspetti diversi, il tempo fisico salta su e dice: neppure io sono uguale per tutti in tutti i momenti, anch’io posso essere visto sotto aspetti diversi. E come? domando io meravigliato. Lo chieda al suo collega Einstein, risponde. In effetti, Einstein ci insegna che un’ora trascorsa a parlare qui non è identica a quella consumata in questo stesso momento nella galassia di Andromeda o sulla stella Alfa Centauri. E ciò perché il trascorrere del tempo dipende dalla velocità con la quale noi ci muoviamo nello spazio. Se noi due ce ne stiamo qui davanti al tavolino a sorbirci un caffè, il tempo passa per noi allo stesso modo, perché ci troviamo nelle medesime condizioni. Ma se uno di noi salisse su un’astronave e viaggiasse ad altissima velocità (diciamo il cinquanta per cento della velocità della luce), il tempo rallenterebbe. E questo Einstein ce l’ha spiegato con il paradosso dei due gemelli. A vent’anni uno dei due gemelli parte, appunto, con un’astronave. Dopo vent’anni ritorna sulla Terra, e scopre che il fratello ha quarant’anni, mentre lui ne ha solo ventuno. Quindi nemmeno il tempo fisico è uguale per tutti. Il problema del tempo è talmente importante che quando lo si è capito, si capiscono anche i grandi dubbi della vita, quelli legati alle domande fondamentali classiche: da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo. Dove stavamo prima di nascere? E dopo che saremo morti, dove andremo? In queste due fasi, si trovano due avverbi, prima e dopo, che hanno a che vedere con il tempo.
Ritorniamo al problema della felicità. La filosofia greca ha fortemente sottolineato i rapporti fra il nostro destino individuale e quello sociale della polis. Quanto allora le circostanze politiche condizionano il nostro benessere psichico e materiale?
Quando mi vedeva uscire da casa a Napoli, il mio portiere Raffaele dopo le elezioni mi chiedeva: «Ingegnè, per chi avete votato?» E io rispondevo sempre: «Raffaè, è inutile che me lo chiedi. Lo sai, sono amico di Giorgio La Malfa, io voto repubblicano.» E lui: «Repubblicano? E non vi fate sentire, fate una brutta figura: arrivate ultimo.» Io: «Come sarebbe a dire che arrivo ultimo?» E lui mi ripeteva la sua lezione: «Ingegnè, stateme a sentì. Voi dovete fare come ho fatto io. Da giovanotto, alle amministrative ho votato Achille Lauro, e ho vinto; poi ho votato sempre Democrazia cristiana, e ho vinto. L’ultima volta ho votato Bassolino e ho vinto ancora. Non so come faccio, ma io indovino sempre.» Lui era felice così.
E lei invece?
Se uno mi domanda da quale parte mi colloco, a destra o a sinistra, rischio, rispondendogli, di confondergli un po’ le idee. Perché io sono un uomo di destra che vota a sinistra. Quando un partito va al potere non può fare a meno di spostarsi a destra. Deve farlo per forza, altrimenti non può governare, e questo Bertinotti dovrebbe saperlo. Ma, se al potere ci va un partito di destra come Forza Italia, i conflitti sociali aumentano: la società civile protesta, organizza manifestazioni e scioperi, e lo sviluppo del Paese rischia di arrestarsi. Io, invece, voglio che lo sviluppo si incrementi, e quindi voto a sinistra: perché quando al governo va la sinistra, nessuno protesta. Magari i sindacati non approvano le scelte compiute, però si dicono: c’è D’Alema, stiamocene buoni! L’unica maniera perché un uomo di destra abbia una politica di destra è votare a sinistra. Sembra un gioco di parole, invece non lo è.
Ma, secondo lei, qual è il fattore che distingue una politica di destra da una politica di sinistra?
In realtà, destra e sinistra sono parole prive di senso o, comunque, sono parole che col tempo cambiano di significato. Una cosa erano la destra e la sinistra nel 1948, un’altra cosa sono la destra e la sinistra cinquant’anni dopo. Per capire qualcosa di politica bisogna prendere atto dell’esistenza di due sentimenti fondamentali opposti: l’egoismo e la solidarietà. Sono questi due sentimenti che regolano l’agire politico. L’egoismo è il sentimento caro alla destra, e ha lati positivi e lati negativi. Marx ha sbagliato a sottolineare soltanto i primi, sottovalutando la positività dell’egoismo. Voglio dire che se io, poiché sono egoista, voglio guadagnare più di te, e tu, che sei non meno egoista di me, vuoi guadagnare più di lui, finisce che ognuno di noi nel tentativo di superare l’altro si dà da fare e, anche non ponendoselo come obiettivo, finisce con l’aumentare la propria produttività e rendere ricco il Paese. E ciò perché aumenta il prodotto interno lordo. Questa è la forza dell’egoismo e questa è l’ideologia del mercato.
E la forza della solidarietà?
Sull’altro versante, la solidarietà ragiona in un diverso modo, e ci induce a domandarci: ma se noi lasciamo fare agli egoisti tutto quello che vogliono, chi ci pensa ai più deboli, gli sfortunati, gli handicappati, i malati, i vecchi? Agli occhi della solidarietà è doveroso fare qualcosa per aiutare i più deboli, togliendo un po’ di soldi agli egoisti. Questo è il punto di vista che sovrintende la politica della sinistra. In un determinato momento politico, il compito degli elettori è capire se stiamo esagerando in un senso o nell’altro. Se si esagera in egoismo, per riequilibrare l’asse della società è necessario spostarsi a sinistra, se si esagera in solidarietà non c’è niente di male a spostarsi a destra. Per me la cabina elettorale dovrebbe assomigliare a una cabina della doccia, con due manopole, egoismo e solidarietà. E, così come entrando nella cabina della doccia giriamo le due manopole fino ad avere l’acqua giusta, allo stesso modo dovremmo fare nella cabina elettorale.
© Giuseppe Gallo (1998)
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