giovedì 27 agosto 2009

I comunisti di Gaber e gli elettori del PD

In uno dei suoi più celebri testi fra monologo teatrale e canzone d’autore, Giorgio Gaber elenca gli eterogenei motivi per cui tanti italiani furono comunisti senza essere ideologicamente comunisti. L’elenco, naturalmente aperto, spazia fra ragioni accidentali («qualcuno era comunista perché era nato in Emilia»), ragioni emotive («si sentiva solo»), ragioni sociali («non ne poteva più di fare l’operaio»), ragioni politiche («non ne poteva più di quarant’anni di governi viscidi e ruffiani»), ragioni ribellistiche («per fare rabbia a suo padre»), ragioni etiche («pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri»).

Nella sua amara ironia, Gaber non nasconde le distorsioni del totalitarismo comunista : «Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin.» Oppure: «Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio». Fu appunto quella vocazione totalitaria all’origine dei silenzi del PCI sui fatti d’Ungheria del 1956 o sull’invasione sovietica di Praga nel 1968.

Tuttavia, a dispetto della sua vocazione totalitaria, il PCI riuscì a raccogliere attorno a sé masse di elettori che non avevano nulla da spartire con gli ottusi e trinariciuti figuri meritatamente sbeffeggiati da Giovannino Guareschi. Quelle masse erano costituite appunto dai comunisti di Gaber. Ed è a loro che il PCI fu debitore della sua forza (una forza che gli permise di sopravvivere alla precoce quanto salutare irrilevanza degli altri partiti comunisti dell’Occidente). Perché i comunisti-comunisti – gli ortodossi – erano un gruppetto minoritario anche da noi. Da soli potevano bensì conquistare il comune di Brescello. Ma persino la rossa Emilia se la sarebbero sognata.

Ma perché quelle masse di elettori riponevano le proprie speranze nel PCI anziché nelle forze che più coerentemente discendevano dalla tradizione liberale e democratica dell’Occidente? Che cosa trovavano in quel partito che non trovavano altrove? E perché il PD non riesce a esercitare un campo magnetico dai confini altrettanto ampi? Cosa gli manca?

Anch’io sono stato comunista. Senza essere ideologicamente comunista. Lo divenni tardi, all’università, dopo che la mia formazione politica si era già conclusa: una formazione libresca, fondata anzitutto sui testi di Norberto Bobbio e di Friedrich Nietzsche, quanto di più lontano vi potesse essere dalla tradizione comunista. Né, forse, mi sarei iscritto al partito comunista se Bobbio non avesse scelto proprio il PCI come suo interlocutore privilegiato. E loro, i comunisti-comunisti, gli rispondevano (bisogna dire che possedevano anche le doti intellettuali per rispondergli). E nel momento in cui un partito comunista accetta il dialogo, il suo totalitarismo si è già bello che incrinato.

Intendiamoci. Non ho nessuna nostalgia del PCI. Proprio nessuna. Ho brindato al suo funerale. Mi manca però quello che il PCI ha rappresentato. Se mi è permesso dirlo un po' grossolanamente, erano quattro le qualità che vi trovavo e che non ritrovo nel PD.

1) Un’organizzazione, e cioè una capacità di armonizzare i mezzi in vista degli scopi. Certo, lo scopo ultimo era la società senza classi. Ma quello che interessava a noi, i comunisti di Gaber, era lo scopo intermedio: il miglioramento delle condizioni sociali per tutti, qui, ora, nella democrazia borghese, utilizzando gli spazi della democrazia borghese. Questo ci bastava, perché per chi è stato comunista senza essere comunista non esiste scopo a questo superiore.

2) Un partito di massa, e cioè un partito interclassista che si sforzava di conciliare gli interessi di ceti sociali difformi, e per ciò era costretto a darsi una politica nazionale.

3) Un senso della storia, che per la prima volta rendeva milioni di italiani partecipi del destino del Paese, proiettandoli in un divenire, e cioè in una trascendenza, in un superamento del presente e di se stessi. Questo è qualcosa di difficile da comprendere oggi, nell’era della democrazia mediatica, dove tutti possono salire sul palcoscenico e avere il loro quarto d’ora di (mistificante) gloria. Ma quello che sto affermando qui non ha niente a che vedere con le melensaggini da rotocalco del Noi veltroniano.

4) Un orgoglio di essere. L’ho provato anch’io l’orgoglio comunista. L’ho provato anche se, avendo la facoltà di viaggiare nello spazio-tempo, sarei tornato senza pensarci due volte a Livorno nel gennaio 1921 e avrei cancellato con un colpo di spugna il congresso che divise il partito socialista dando vita al Partito Comunista d’Italia. L’ho provato anch’io, perché quell’orgoglio comunista, al di là di tutto, era alimentato da una straordinaria vivacità culturale e politica. Ma non vi è alcun ragionevole motivo per provare orgoglio di stare nel PD. Io conservo l’orgoglio della mia cultura, della mia identità: sono un liberalsocialista che, come un tempo ha scelto il PCI, oggi ha scelto come strumento questo nuovo partito. Ma non sono orgoglioso del PD.

Bersani è stato un coraggioso ministro. Sarà anche un bravo segretario? Non lo sappiamo. Vedremo. Ha il merito di aver formulato la prima proposta seria venuta da un esponente piddino: una no tax area per incoraggiare gli investimenti. È una proposta liberale, va nella direzione giusta. Ma Bersani non eredita un partito, eredita un mucchietto di ceneri. Non tanto per i numeri (il 26% dei consensi è un patrimonio che nessuno può snobbare). Bensì per il vuoto organizzativo-culturale che lo attornia: il PD è nato dalla disperazione, non da un atto di creatività.

Ma, se Bersani ci permette, gli offriamo un suggerimento: la riascolti ogni tanto, quella canzone di Giorgio Gaber. È meno accattivante dei suoni del suo corregionale Vasco Rossi, costruita com’è sull’understatement. Forse però può contribuire a ispirargli la strada giusta da percorrere per costruire un partito di massa in grado di riallacciare i rapporti con larghe fasce di elettorato: i figli dei comunisti di Gaber. E pure i loro padri. Perché noi siamo ancora qui. Siamo vivi e votiamo.

martedì 25 agosto 2009

PD: impariamo da Arrigo Sacchi

Se quello del PD fosse un congresso «vero» come sostiene Rosy Bindi («L’Unità», 24 agosto), avremmo dovuto vederne gli effetti già da tempo. E cioè avremmo visto i tre candidati alla segreteria – o almeno i due che contano – suonarsele di santa ragione, polemizzare anche sul piano personale (qualche colpo sotto la cinta scappa quando si è animati dalla passione), ma poi fare a gara per lanciare proposte e produrre idee.

Non è questo lo spettacolo a cui stiamo assistendo. Il pallone lo hanno sempre loro: noi subiamo, facciamo catenaccio, ci arrocchiamo in difesa. Tutt’al più protestiamo verso le tribune. Ma neppure ci sogniamo di provare a prendere l’avversario in contropiede o a impadronirci del gioco. La figurina di Arrigo Sacchi nel nostro album di famiglia non c’è.

Per tutto agosto, la Lega ha tenuto banco, venendosene fuori un giorno sì e l’altro no con una nuova trovata, pittoresca e strumentale quanto si vuole, però utile ad assicurare al partito di Bossi almeno tre risultati positivi: conquistare le prime pagine dei quotidiani, recapitare un messaggio al parente-serpente del PDL notificandogli che la Lega ce l’ha «duro» come alle origini e alle regionali intende monetizzare il successo conseguito a giugno, infine riscaldare il rapporto con il suo elettorato (che non è proprio una cosa di secondaria importanza in politica).

Sulle pagine dell’«Unità», Roberto Cotroneo ha sudato sette camicie per tener botta ai trinariciuti padani, riscoprendo quell’animosità giovanile che lo aveva fatto apprezzare sotto le mentite spoglie di Mamurio Lancillotto. Non uno della direzione piddina invece che abbia accennato un tentativo di togliere il microfono a Bossi & Co e spostare l’attenzione sul nostro terreno. Non uno!

Semifinite le ferie, sono stati i radicali a denunciare l’inopportunità della visita del presidente del Consiglio in Libia con seguito di Frecce Tricolore. Noi, di nuovo, silenzio. Intanto della polemica si è appropriato lo stesso centrodestra, e oggi i due giornali governativi sono usciti con un paio di editoriali di opposto indirizzo: Vittorio Feltri sul «Giornale» patrocina la scelta di Berlusconi appellandosi a ragioni di Realpolitik («chiunque capisce che la collaborazione con il Colonnello, piaccia o no, è indispensabile; quindi non ci è consentito assumere atteggiamenti ostili verso di lui»), Maurizio Belpietro su «Libero» suggerisce al contrario di rinunciarvi propugnando la superiorità dei principi ideali sulla convenienza politico-economica («anche se c’è una ragion politica che spinge ad imbarcarsi per quel viaggio, c’è una ragion morale che porta da un’altra parte, ovvero lontano dalle tende beduine del capo della Jamayria»).

Questa dialettica interna al centrodestra non stupisce. Meglio, non ci stupisce più. Perché ogni giorno che passa ce ne viene data testimonianza. Senza attribuire ai due neodirettori intenti che non hanno espresso (a nessuno dei due si addicono i panni del frondista), nondimeno dobbiamo riconoscere che, ahinoi, è dal centrodestra che spesso sorgono gli spunti critici più interessanti verso il presidente del Consiglio. Anzi, diciamola tutta: il centrodestra si sta preparando alla Terza Repubblica (prossima o remota che sia), e cioè a un’Italia post-berlusconiana e post-antiberlusconiana, di gran lunga meglio di noi. E di questo non ci rallegriamo affatto.

All’iniziativa a corrente alternata del PDL e della Lega, noi reagiamo con appelli alla più generica e innocua retorica resistenzialistica: «Il Pd ha il dovere di alzare la voce contro il rischio di un nuovo autoritarismo», ha dichiarato Dario Franceschini, uscendo provvisoriamente dalla naftalina. Una parola sulla Libia, però, si è ben guardato dal pronunciarla. Si accontenta della petizione di principio, lui.

In alternativa, ce ne veniamo fuori con proposte off topic. «Proponiamo una regola semplice e concreta», leggiamo ancora sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci, «che si può applicare ad ogni elezione nazionale, locale ed europea: il 2+3. Ogni lista elettorale del PD dovrà avere una donna ogni secondo posto e un giovane (inteso come under 40) ogni terzo. Per evitare che donne e giovani finiscano, com’è tipico, in fondo alle liste, uomini e donne si dovranno alternare e ogni terzo posto dovrà essere occupato da un/a candidato/a under 40.» Proposta semplice e concreta? A me pare cervellotica e pensata apposta per burocratizzare ulteriormente un partito già iperburocratizzato.

Ma, va bene, si può parlare anche di regolamenti elettorali. Almeno però facciamolo a tempo debito. Intanto vogliamo prendere in mano l’ordine del giorno e provare a fare qualche controproposta sui «grandi» temi? È su quelli che ci giochiamo il nostro già alquanto incerto destino. L’idea di creare una no tax area per favorire nuovi investimenti è la prima cosa buona che abbiamo sentito. Cavalchiamola, traduciamola in volgare.

In un intelligente articolo apparso sul «Riformista», Enrico Morando si è chiesto: Il Pd sa perché gli italiani non lo votano? Ma la domanda andrebbe rivoltata: il PD sa dire agli italiani per quale ragione votarlo? Io sinceramente no. Non ricordo neppure più perché ho aderito a questo partito. Forse per via delle amicizie, forse per disperazione, forse perché mi illudevo che potesse essere quantomeno uno strumento. Non uno scopo (i miei scopi non li ho cambiati, non ho motivo di cambiarli: sono quelli di un liberalismo socialista). Uno strumento. Se tuttavia non riesce a essere neppure questo…

domenica 9 agosto 2009

Fini: barra al centro

Gianfranco Fini ci ha dato già tante prove di indipendenza intellettuale e politica. Non sorprendono dunque le due dichiarazioni rilasciate ieri in Belgio: sull’immigrazione clandestina («Il lavoratore va rispettato anche se non ha les papiers, i documenti») e sulla richiesta che il Parlamento si occupi della Ru 486, la pillola abortiva («Trovo originale pretendere che il Parlamento si debba pronunciare sull’efficacia di un farmaco. Ognuno ha le sue opinioni, anche io ho la mia, ma non è oggetto di dibattito politico. Poi ci sono le linee guida del governo, si è pronunciata l’Agenzia del farmaco, non vedo cosa c’entri il Parlamento»).

Sono dichiarazioni in sintonia con un’evoluzione di lunga data. La seconda è anche una onorevole manifestazione di laicismo. Il presidente della Camera non specifica infatti se è favorevole o contrario alla pillola, precisa di avere la sua opinione ma non dice quale, perché la ritiene cosa ininfluente. Questa materia «non è oggetto di dibattito politico». Chapeau.

Il senso di equilibrio che affiora dalle dichiarazioni finiane risalta ancor più dopo la conferenza stampa di due giorni fa di Berlusconi improntata a un populismo autoritario e di fronte alla sguaiata reazione di Bossi che alle osservazioni dell’ex leader di AN sull’immigrazione italiana ha replicato: «Noi andavamo a lavorare non ad ammazzare la gente». Una frase doppiamente deprecabile. Primo perché la contrapposizione lascia intendere che invece questi (gli immigrati in Italia) verrebbero apposta per delinquere. Secondo perché il senatúr nasconde una verità spiacevole: se soltanto leggesse un po’ o andasse al cinema saprebbe che noi siamo stati generosi esportatori del crimine negli States oltre che efficaci contrabbandieri nel Vecchio Continente. A meno che per Bossi quel «noi» non voglia dire noi italiani, bensì noi della mia provincia, del mio campanile, del mio condominio. L’uomo brilla per ristrettezza di vedute.

Ma, appunto, le polemiche del weekend innescate dalle affermazioni di Fini confermano un dato di fatto che spesso sfugge agli osservatori, soprattutto di sinistra: il centrodestra è tutt’altro che un fronte monolitico. Al suo interno, vi è anche una variegata area autenticamente riformista (rappresentata non solo da Fini), che sia pure in minoranza non esita a intervenire a difesa dei principi cardine della convivenza umana. Può darsi che sia vero quello che sostiene Tremonti, e cioè che l’Italia è un paese «sostanzialmente di destra». Ma c’è destra e destra. E ne abbiamo prova ogni giorno.

La domanda da porsi è piuttosto quanto sia vasta questa area riformista della destra italiana. In sostanza: qual è il consenso elettorale di Fini? Quanta forza possiede? In un futuro postberlusconiano (arrivi prima o dopo la scadenza naturale della legislatura), sarebbe in grado di tenere unito il PDL? Quanti ex colonnelli di AN e quanti fedeli servitori del Sultano sarebbero disposti a seguirlo? E che rapporti sarebbe in grado di intrattenere con l’attuale alleato di governo, la Lega?

Domande premature per un osservatore esterno (chi scrive queste note appartiene a un’altra tradizione, quella liberalsocialista), cui per ora non è possibile dare risposta. Ma è impensabile che il presidente della Camera non se le ponga. E ciò perché, comunque le si valuti, le sue non sono uscite estemporanee. Sono mosse che sottendono un disegno visionario, di prospettiva (come si diceva un tempo), che probabilmente va chiarendosi poco alla volta nella sua testa, un disegno non ancora compiutamente definito.

È lecito pure chiedersi, come è stato fatto (seriamente o no), se Fini sia ancora di destra o non sia diventato qualcosa d’altro. L’impressione è che il cammino intrapreso lo abbia fatto approdare su posizioni liberaldemocratiche più consone al centro, punto di convergenza di tutte le esperienze postideologiche. Al di là dei differenti accenti, nella sostanza infatti sono liberaldemocratici tanto Sarkozy quanto Zapatero o il New Labour, e in Italia tanto l’Udc quanto il PD.

Il rischio, per quanto riguarda il nostro Paese, è che ci sia un eccessivo affollamento in questo centro politico ma anche sociale. Destinatari elettivi del messaggio finiano sono difatti le fasce moderate dei ceti medi, le stesse a cui si indirizzano Casini e i tre candidati alla segreteria piddina. C’è quasi un’ossessione da parte degli interpreti più intelligenti dell’era postideologica a prendere le distanze dalle rispettive ali dello spettro politico (la destra-destra e la sinistra-sinistra) e, sul piano sociale, dai ceti popolari. Proprio l’elettorato in cui affondano le radici il berlusconismo e la Lega. E, chissà, forse il segreto del loro successo (deleterio per l’Italia) è proprio questo.

sabato 8 agosto 2009

Berlusconi e il caso Rai: l'assedio dell'assediato

Alla conferenza stampa di ieri a Palazzo Chigi sul consuntivo dei primi quattordici mesi di attività del governo, Silvio Berlusconi avrebbe potuto limitarsi a fare il suo one man show, come altre volte ha fatto nel salotto amico di Vespa. E scansare le domande dei giornalisti, rispondendo in modo vago senza perdere il controllo di sé (erano del resto domande prevedibili, che sicuramente il presidente del Consiglio si aspettava). Giuseppe D’Avanzo su “Repubblica” non gli avrebbe risparmiato il suo editoriale, perché molte delle cose pronunciate in conferenza stampa sono platealmente false: non c’è nessuna pace sociale, le contestazioni da parte delle vittime del terrorismo in Abruzzo sono quotidiane, il prestigio dell’Italia nel mondo non è mai stato così basso e nessuno a livello internazionale riconosce al nostro premier il ruolo decisivo che si arroga.

Ma tant’è. La propaganda avrebbe funzionato: il TG1 e gli house organ di famiglia avrebbero riferito i contenuti dello show dedicandogli ampio spazio e facendo ben attenzione a evitare ogni spirito critico. Come sempre. Invece il Cavaliere dimezzato dagli scandali come il visconte calviniano non ha resistito, e ha dato fondo a un’aggressività ancor più ingiustificata dopo le nomine RAI dei giorni scorsi e l’annuncio dei complementari balletti nelle proprietà di famiglia. La conseguenza è che si è messo da solo dietro il banco degli imputati, e la notizia del giorno è: Berlusconi attacca la libertà di stampa. Un formidabile regalo a un centrosinistra quanto mai sonnacchioso e distratto dalle sue stanche beghe interne. Un regalo che ha restituito un po’ di linfa persino a un ectoplasma come Franceschini, non ancora rassegnato a finire sotto naftalina, come meriterebbe per aver negato la sconfitta elettorale di giugno con una faccia tosta pari a quella del suo avversario.

Perché lo ha fatto? Perché un uomo come il Cavaliere sempre attento ai meccanismi della comunicazione è caduto in un errore apparentemente così dilettantesco? Certo, non è la prima volta che gli capita di aggredire, ed è pur vero che qualche volta l’aggressione paga, nel suo caso ha pagato. Ma non è questo il momento per mostrare i muscoli. Se vuole risalire la china (nonostante i finti sondaggi, Berlusconi sa bene che qualcosa si è rotto nel suo rapporto con l’opinione pubblica, sa bene che persino una cospicua fetta del mondo cattolico gli è contro), il Cavaliere deve essere anzitutto rassicurante, mostrare il volto buono, stendere una mano pacificatrice. Proprio quello che non è stato e non ha fatto ieri a Palazzo Chigi.

Dunque perché? Perché tanta aggressività? Effetto di un egocentrismo smisurato che non tollera dissensi, come lascia intendere D’Avanzo? Può darsi. È possibile anche che giochi un ruolo il nervosismo che attanaglia vistosamente il premier dall’affaire Noemi in poi: un premier incapace di togliersi dallo stato di assedio in cui lo ha ficcato la sua esuberanza sessuale, un premier per giunta lasciato solo dai collaboratori più vicini, nessuno dei quali è intervenutio in suo soccorso, fatta eccezione per i soliti yesmen che sapranno senz’altro confortare il suo poderoso narcisismo ma che gli sono poco utili alla bisogna. E, anzi, con le gaffe che scaturiscono sempre dall’eccessiva prodigalità servilistica hanno rischiato di causargli più danni che altro.

Ma, considerata l’astuzia comunicativa del Cavaliere (il quale, com’è arcinoto, non lascia nulla al caso), non si può escludere che quell’aggressione sia almeno in parte ispirata anche da una sorta di calcolo tattico. Per dirla in modo molto spiccio: Berlusconi attacca perché ha interesse a essere attaccato. Se infatti l’antiberlusconismo ha bisogno del Cavaliere per rimanere unito e sopravvivere, il Cavaliere ha un maledetto bisogno dell’antiberlusconismo per rimanere saldamente in sella al suo fronte, la cui unità fin dal 1994 è sempre stata messa a repentaglio da potenti fenomeni sismici.

È un’esigenza divenuta ancor più prioritaria dopo giugno, con una Lega scalpitante che giorno dopo giorno conquista sempre più la scena mediatica con le sue spettacolari baggianate che possono far ridere i lettori ingenui ma impensieriscono gli stranavigati alleati, che sanno intravedere dietro quelle uscite strumentali lo scopo reale: far cassa, incamerare i frutti del recente doppio successo elettorale, strappare quote di potere al partito di maggioranza. Per questo, Berlusconi ha bisogno di un centrosinistra che sia debole ma non così tanto debole. Ha bisogno che i «comunisti» facciano ancora paura («non voglio immaginare che cosa sarebbe successo se ci fossero stati loro al posto mio», ha detto non a caso in conferenza stampa). Ha bisogno insomma di una rinnovata forma di consociativismo che consenta a lui di mettere a tacere gli amici-nemici interni e al PD di fronteggiare le derive movimentiste della sinistra allo sbando. L’uomo, ancorché dimezzato, è diabolicamente astuto (non sarebbe arrivato dov’è, se non lo fosse). Meglio non dimenticarlo.

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