Gianfranco Fini ci ha dato già tante prove di indipendenza intellettuale e politica. Non sorprendono dunque le due dichiarazioni rilasciate ieri in Belgio: sull’immigrazione clandestina («Il lavoratore va rispettato anche se non ha les papiers, i documenti») e sulla richiesta che il Parlamento si occupi della Ru 486, la pillola abortiva («Trovo originale pretendere che il Parlamento si debba pronunciare sull’efficacia di un farmaco. Ognuno ha le sue opinioni, anche io ho la mia, ma non è oggetto di dibattito politico. Poi ci sono le linee guida del governo, si è pronunciata l’Agenzia del farmaco, non vedo cosa c’entri il Parlamento»).
Sono dichiarazioni in sintonia con un’evoluzione di lunga data. La seconda è anche una onorevole manifestazione di laicismo. Il presidente della Camera non specifica infatti se è favorevole o contrario alla pillola, precisa di avere la sua opinione ma non dice quale, perché la ritiene cosa ininfluente. Questa materia «non è oggetto di dibattito politico». Chapeau.
Il senso di equilibrio che affiora dalle dichiarazioni finiane risalta ancor più dopo la conferenza stampa di due giorni fa di Berlusconi improntata a un populismo autoritario e di fronte alla sguaiata reazione di Bossi che alle osservazioni dell’ex leader di AN sull’immigrazione italiana ha replicato: «Noi andavamo a lavorare non ad ammazzare la gente». Una frase doppiamente deprecabile. Primo perché la contrapposizione lascia intendere che invece questi (gli immigrati in Italia) verrebbero apposta per delinquere. Secondo perché il senatúr nasconde una verità spiacevole: se soltanto leggesse un po’ o andasse al cinema saprebbe che noi siamo stati generosi esportatori del crimine negli States oltre che efficaci contrabbandieri nel Vecchio Continente. A meno che per Bossi quel «noi» non voglia dire noi italiani, bensì noi della mia provincia, del mio campanile, del mio condominio. L’uomo brilla per ristrettezza di vedute.
Ma, appunto, le polemiche del weekend innescate dalle affermazioni di Fini confermano un dato di fatto che spesso sfugge agli osservatori, soprattutto di sinistra: il centrodestra è tutt’altro che un fronte monolitico. Al suo interno, vi è anche una variegata area autenticamente riformista (rappresentata non solo da Fini), che sia pure in minoranza non esita a intervenire a difesa dei principi cardine della convivenza umana. Può darsi che sia vero quello che sostiene Tremonti, e cioè che l’Italia è un paese «sostanzialmente di destra». Ma c’è destra e destra. E ne abbiamo prova ogni giorno.
La domanda da porsi è piuttosto quanto sia vasta questa area riformista della destra italiana. In sostanza: qual è il consenso elettorale di Fini? Quanta forza possiede? In un futuro postberlusconiano (arrivi prima o dopo la scadenza naturale della legislatura), sarebbe in grado di tenere unito il PDL? Quanti ex colonnelli di AN e quanti fedeli servitori del Sultano sarebbero disposti a seguirlo? E che rapporti sarebbe in grado di intrattenere con l’attuale alleato di governo,
Domande premature per un osservatore esterno (chi scrive queste note appartiene a un’altra tradizione, quella liberalsocialista), cui per ora non è possibile dare risposta. Ma è impensabile che il presidente della Camera non se le ponga. E ciò perché, comunque le si valuti, le sue non sono uscite estemporanee. Sono mosse che sottendono un disegno visionario, di prospettiva (come si diceva un tempo), che probabilmente va chiarendosi poco alla volta nella sua testa, un disegno non ancora compiutamente definito.
È lecito pure chiedersi, come è stato fatto (seriamente o no), se Fini sia ancora di destra o non sia diventato qualcosa d’altro. L’impressione è che il cammino intrapreso lo abbia fatto approdare su posizioni liberaldemocratiche più consone al centro, punto di convergenza di tutte le esperienze postideologiche. Al di là dei differenti accenti, nella sostanza infatti sono liberaldemocratici tanto Sarkozy quanto Zapatero o il New Labour, e in Italia tanto l’Udc quanto il PD.
Il rischio, per quanto riguarda il nostro Paese, è che ci sia un eccessivo affollamento in questo centro politico ma anche sociale. Destinatari elettivi del messaggio finiano sono difatti le fasce moderate dei ceti medi, le stesse a cui si indirizzano Casini e i tre candidati alla segreteria piddina. C’è quasi un’ossessione da parte degli interpreti più intelligenti dell’era postideologica a prendere le distanze dalle rispettive ali dello spettro politico (la destra-destra e la sinistra-sinistra) e, sul piano sociale, dai ceti popolari. Proprio l’elettorato in cui affondano le radici il berlusconismo e
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