martedì 25 agosto 2009

PD: impariamo da Arrigo Sacchi

Se quello del PD fosse un congresso «vero» come sostiene Rosy Bindi («L’Unità», 24 agosto), avremmo dovuto vederne gli effetti già da tempo. E cioè avremmo visto i tre candidati alla segreteria – o almeno i due che contano – suonarsele di santa ragione, polemizzare anche sul piano personale (qualche colpo sotto la cinta scappa quando si è animati dalla passione), ma poi fare a gara per lanciare proposte e produrre idee.

Non è questo lo spettacolo a cui stiamo assistendo. Il pallone lo hanno sempre loro: noi subiamo, facciamo catenaccio, ci arrocchiamo in difesa. Tutt’al più protestiamo verso le tribune. Ma neppure ci sogniamo di provare a prendere l’avversario in contropiede o a impadronirci del gioco. La figurina di Arrigo Sacchi nel nostro album di famiglia non c’è.

Per tutto agosto, la Lega ha tenuto banco, venendosene fuori un giorno sì e l’altro no con una nuova trovata, pittoresca e strumentale quanto si vuole, però utile ad assicurare al partito di Bossi almeno tre risultati positivi: conquistare le prime pagine dei quotidiani, recapitare un messaggio al parente-serpente del PDL notificandogli che la Lega ce l’ha «duro» come alle origini e alle regionali intende monetizzare il successo conseguito a giugno, infine riscaldare il rapporto con il suo elettorato (che non è proprio una cosa di secondaria importanza in politica).

Sulle pagine dell’«Unità», Roberto Cotroneo ha sudato sette camicie per tener botta ai trinariciuti padani, riscoprendo quell’animosità giovanile che lo aveva fatto apprezzare sotto le mentite spoglie di Mamurio Lancillotto. Non uno della direzione piddina invece che abbia accennato un tentativo di togliere il microfono a Bossi & Co e spostare l’attenzione sul nostro terreno. Non uno!

Semifinite le ferie, sono stati i radicali a denunciare l’inopportunità della visita del presidente del Consiglio in Libia con seguito di Frecce Tricolore. Noi, di nuovo, silenzio. Intanto della polemica si è appropriato lo stesso centrodestra, e oggi i due giornali governativi sono usciti con un paio di editoriali di opposto indirizzo: Vittorio Feltri sul «Giornale» patrocina la scelta di Berlusconi appellandosi a ragioni di Realpolitik («chiunque capisce che la collaborazione con il Colonnello, piaccia o no, è indispensabile; quindi non ci è consentito assumere atteggiamenti ostili verso di lui»), Maurizio Belpietro su «Libero» suggerisce al contrario di rinunciarvi propugnando la superiorità dei principi ideali sulla convenienza politico-economica («anche se c’è una ragion politica che spinge ad imbarcarsi per quel viaggio, c’è una ragion morale che porta da un’altra parte, ovvero lontano dalle tende beduine del capo della Jamayria»).

Questa dialettica interna al centrodestra non stupisce. Meglio, non ci stupisce più. Perché ogni giorno che passa ce ne viene data testimonianza. Senza attribuire ai due neodirettori intenti che non hanno espresso (a nessuno dei due si addicono i panni del frondista), nondimeno dobbiamo riconoscere che, ahinoi, è dal centrodestra che spesso sorgono gli spunti critici più interessanti verso il presidente del Consiglio. Anzi, diciamola tutta: il centrodestra si sta preparando alla Terza Repubblica (prossima o remota che sia), e cioè a un’Italia post-berlusconiana e post-antiberlusconiana, di gran lunga meglio di noi. E di questo non ci rallegriamo affatto.

All’iniziativa a corrente alternata del PDL e della Lega, noi reagiamo con appelli alla più generica e innocua retorica resistenzialistica: «Il Pd ha il dovere di alzare la voce contro il rischio di un nuovo autoritarismo», ha dichiarato Dario Franceschini, uscendo provvisoriamente dalla naftalina. Una parola sulla Libia, però, si è ben guardato dal pronunciarla. Si accontenta della petizione di principio, lui.

In alternativa, ce ne veniamo fuori con proposte off topic. «Proponiamo una regola semplice e concreta», leggiamo ancora sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci, «che si può applicare ad ogni elezione nazionale, locale ed europea: il 2+3. Ogni lista elettorale del PD dovrà avere una donna ogni secondo posto e un giovane (inteso come under 40) ogni terzo. Per evitare che donne e giovani finiscano, com’è tipico, in fondo alle liste, uomini e donne si dovranno alternare e ogni terzo posto dovrà essere occupato da un/a candidato/a under 40.» Proposta semplice e concreta? A me pare cervellotica e pensata apposta per burocratizzare ulteriormente un partito già iperburocratizzato.

Ma, va bene, si può parlare anche di regolamenti elettorali. Almeno però facciamolo a tempo debito. Intanto vogliamo prendere in mano l’ordine del giorno e provare a fare qualche controproposta sui «grandi» temi? È su quelli che ci giochiamo il nostro già alquanto incerto destino. L’idea di creare una no tax area per favorire nuovi investimenti è la prima cosa buona che abbiamo sentito. Cavalchiamola, traduciamola in volgare.

In un intelligente articolo apparso sul «Riformista», Enrico Morando si è chiesto: Il Pd sa perché gli italiani non lo votano? Ma la domanda andrebbe rivoltata: il PD sa dire agli italiani per quale ragione votarlo? Io sinceramente no. Non ricordo neppure più perché ho aderito a questo partito. Forse per via delle amicizie, forse per disperazione, forse perché mi illudevo che potesse essere quantomeno uno strumento. Non uno scopo (i miei scopi non li ho cambiati, non ho motivo di cambiarli: sono quelli di un liberalismo socialista). Uno strumento. Se tuttavia non riesce a essere neppure questo…

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