Non so per quale ragione l’ufficio stampa di Marsilio abbia voluto mandarmi Falce e carrello, il veemente libro di Bernardo Caprotti (con prefazione di Geminello Alvi) che, documenti alla mano, cerca di dimostrare che molte iniziative di Esselunga sono state ostacolate da Legacoop con l’appoggio delle amministrazioni locali. Non sono un economista e, anche se severamente critico nei confronti della mia parte politica, rimango un uomo di sinistra. Ma proprio per questo ho letto il libro (che altrimenti mi sarebbe passato inosservato) con maggiore interesse e attenzione.
Caprotti, ottantun anni, originario della Brianza, è l’imprenditore che ha introdotto i supermercati in Italia, e ancora oggi è alla guida della sua creatura: Esselunga. Non sono in grado di valutare la fondatezza del suo j’accuse. D’altronde, il suo è il punto di vista di chi è parte in causa. Il lettore serio e obiettivo dovrebbe sentire anche la voce della controparte. Di sicuro, si può dire che questo è un libro che vale la pena di consigliare. Per quel che mi riguarda, mi sento comunque di fare alcune osservazioni a margine.
La Legacoop (come ricorda Stefano Filippi nel lungo saggio pubblicato in appendice) fu fondata nel 1886 e raccoglie l’eredità delle società mutualistiche nate allo scopo di «migliorare le condizioni familiari e sociali dei soci». Ma è solo nel secondo dopoguerra, nell’Italia del miracolo economico, che Legacoop conobbe una progressiva espansione fino a trasformarsi in un vero e proprio impero economico. Oggi, con oltre 50 miliardi di euro, il gruppo è per fatturato la terza impresa italiana (dopo ENI e FIAT-IFI). Ha società quotate in Borsa, possiede assicurazioni e supermercati, costruisce case, è attivo nel settore delle grandi opere e, di recente, è entrato anche in quello dei telefonini.
Un tale gigante non persegue più scopi solidaristici, è un operatore economico a tutti gli effetti. Lo stesso Bruno Trentin, ex segretario della CGIL, lo ha detto in modo colorito quanto efficace: «Le cooperative hanno perso l’anima.» E i lavoratori che vi sono occupati non hanno affatto condizioni migliori che altrove. È giusto che le cooperative continuino a godere di un regime fiscale estremamente favorevole e di un’ampia serie di privilegi? No. La sinistra guidata dal PD, se vuole essere coerente con i propri principi, farebbe bene a ripensare all’intero sistema cooperativistico. Ne guadagnerebbe in chiarezza, ed eviterebbe di trovarsi di nuovo esposta a critiche pesanti sul piano elettorale come quelle che hanno fatto seguito alla tentata scalata di UNIPOL alla BNL.
Del resto, è venuta meno anche la finalità politica delle cooperative, la cui espansione coincide non solo con gli anni del boom ma anche con quelli della Guerra Fredda. Allora, per la sinistra comunista, era importante ramificarsi nel territorio attraverso una varietà di cinghie di trasmissione. E nelle regioni rosse le cooperative sono state anche più importanti delle sezioni di partito. Ma oggi la formazione e l’organizzazione del consenso passa attraverso altre vie. D’altronde, se è vero, come assicurano gli ex dirigenti DS, che il «collateralismo è finito» (e cioè che le cooperative sono ormai indipendenti dal partito), allora dovrebbe essere caduto anche l’ultimo ostacolo alla riforma: il tornaconto economico.
Tuttavia il libro di Caprotti può essere letto anche da un’altra angolazione, e cioè come un affascinante capitolo, scritto in prima persona, della storia dell’industria e del capitalismo in Italia. Ed è istruttivo rileggere le lotte sindacali dalla prospettiva di chi stava dall’altra parte della barricata: si capiscono molti degli errori compiuti. Ma bisogna anche dire quello che l’autore-imprenditore tace. Caprotti appartiene a una borghesia operosa, dotata di un forte senso civico (proviene da una famiglia antifascista) e cresciuta nel culto del lavoro. Quella borghesia non esiste più. Il capitalismo italiano, come quello internazionale, batte ormai altre strade. Lo ha ben documentato Luciano Gallino in L’impresa irresponsabile (edito da Einaudi nel 2005). Anche il capitalismo è rimasto senz’anima.
Bruno Caprotti Falce e carrello
prefazione di Geminello Alvi, MARSILIO, pp. 192, € 12,50
mercoledì 14 novembre 2007
Le coop senz’anima
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3 commenti:
Non entro nel merito del libro che non ho ancora letto. Mi limito a fare una osservazione a margine della tua ultima affermazione.
E' vero che il capitalismo italiano e internazionale non ha più anima delle cooperative. Forse non l'ha mai avuta. Ma il problema è dato dalla dimensione, esattamente come per le cooperative.
Quando una organizzazione raggiunge una dimensione tale per cui non si possono più coltivare delle relazioni personali profonde e quindi autentiche, si spersonalizza tutto, e il sistema inizia a vivere di una sua vita propria, sovrapersonale, come un automa senz'anima.
Per questo non è giusto dire che la "borghesia operosa, dotata di un forte senso civico" non esiste più. Esiste ancora, e molta imprenditoria italiana è ancora fatta proprio di questa piccola e media borghesia.
Ciò che non esiste più (e non so se sia mai esistita veramente, in Italia) è una forma politica in grado di rappresentarla con dignità, sulla base di quel pensiero liberale autentico che pure in Italia come all'estero non è mancato.
Essa meriterebbe certo di essere rappresentata meglio di quanto fa la sedicente Casa delle Libertà.
Ma la cosa ancor più grave che non va taciuta, è che anche a sinistra sta venendo a mancare una rappresentanza politica di quel pensiero orientato alla solidarietà che è stato lo spirito pratico e operoso della sinistra e che ha dato anima alle cooperative. E di questo la sinistra soffre oggi, disperatamente.
I partiti sono vergognosamente presi nelle loro oscene trame di potere, lasciando che lo scontento vada ad alimentare la piazza di Grillo.
Forse l'anima delle cooperative si è reincarnata in parte nel mondo del no-profit.
Certo lo spirito che le ha animate un tempo si potrà manifestare, domani, anche in una politica che dal basso si riappropri dei partiti e delle istituzioni: della Cosa Pubblica.
Sì, in effetti, la borghesia non è affatto morta. Però ha perso quell'unità di classe che sul piano culturale ha avuto nell'Otto-Novecento. Caprotti appartiene, appunto, a un epoca in cui una parte della borghesia - quella capitalistica di formazione liberale - esercitava un'egemonia culturale sugli altri ceti borghesi e si candidava alla guida dello Stato.
E' la borghesia magistralmente raccontata da Thomas Mann e da Carlo Emilio Gadda. Potremmo definirla la borghesia che aveva un palco alla Scala: cioè che cercava di sostituirsi all'aristocrazia e ne adottava lo stile, proponendo una sua visione aggiornata dell'intera esistenza collettiva.
Questa ambizione morale o addirittura metafisica è ormai tramontata. E del resto mi sembra che gli stessi ceti borghesi si siano andati corporativizzando. Non c'è niente che accoumuna il grande capitale finanziario, la burocrazia di Stato, i professionisti di grido o le piccole industrie del Nord-est. Sono fenomeni molto diversificati tra loro, e con interessi opposti, difficili anche politicamente da tenere insieme. Alcuni traggono vantaggio dall'abbattimento delle frontiere, altri reclamano l'imposizione di dazi. Che fare?
Giustissimo quello che dici sul no profit e sulla sinistra. Del resto, questo blog è nato proprio con l'intento di capire anzitutto come si è potuto creare un tale vuoto e chiedersi se si tratta di un fatto contingente (quindi superabile) oppure strutturale: cioè un cambio di epoca che esige nuovi strumenti interpretativi. La crisi della sinistra è la crisi di un fronte politico o è il sintomo di un rivolgimento storico?
Per me, la seconda che hai detto.
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