Appartengo a una generazione che per ragioni anagrafiche non ha fatto in tempo a vedere l’allestimento della Vita di Galileo di Giorgio Strehler con Tino Buazzelli. Questo mi ha permesso di apprezzare meglio l’odierna edizione (molto sfrondata rispetto all’originale) di Antonio Calenda, con l’ottimo Franco Branciaroli: certamente, uno dei grandi avvenimenti culturali di quest’anno. D’altra parte, a Milano, nel teatro intitolato a Strehler (che rimane uno dei migliori per acustica e visibilità) è impossibile non avvertire un sovrappiù di emozione.
Il testo è uno di quelli teatralmente più ostici. Non solo per la sua complessità tematica. Ma anche perché è costruito, di fatto, intorno a un unico personaggio centrale, che richiede all’interprete un’abilità e una misura da mattatore, capace di affacciarsi sul tragicomico e di rimanervi in bilico, senza cadere al di là: l’insistenza sul cibo si trascina dietro il ricordo della commedia («mi piace mangiar bene, e di solito è quando mangio che mi vengono le buone idee»), ma lo trapianta nel dramma contemporaneo. Il rischio è quello di strafare o, viceversa, di appiattire le tante sfumature di questo antieroe.
Il punto di vista degli avversari di Galileo (il potere e l’opinione pubblica) non trova invece espressione in un antagonista a tutto tondo, dalla personalità corposa, come può essere Claudio, re di Danimarca, in Amleto (l’altro grande capolavoro del dubbio, sia pure di tutt’altra natura). Si frammenta piuttosto nelle battute di figure minori, schizzate in modo unidimensionale: la signora Sarti, interprete di un pragmatico quanto miope buonsenso; il procuratore dello Studio di Padova Priuli; il pavido filosofo («Signor Galilei, la verità può portarci chissà dove»), la vacua figlia Virginia, i cardinali, eccetera.
Di qui, l’ampio spazio riservato all’analisi di coscienza di questo Galileo che ha sì una visione netta e chiara di che cos’è scienza ma, come noto, è anche tormentato da profonde incertezze interiori rispetto alla sua umanità e al suo ruolo di intellettuale. La scelta di Calenda di far indossare a Branciaroli la giacca “cinese” di Brecht (gli altri personaggi, ad eccezione del felliniano cantastorie, sono in costume d’epoca) accentua forse troppo una simbologia già sovraccarica nel testo. In compenso, il regista sottolinea in maniera molto persuasiva questo esame di coscienza del protagonista, che in gran parte incrina la poetica brechtiana del teatro epico, e trascina nel suo campo magnetico anche le figure a lui più vicine, al punto che queste ultime sembrano quasi delle proiezioni della sua coscienza.
È certo infatti che la tormentata trasformazione del discepolo Andrea Sarti e dell’amico Sagredo (dalle certezze consolidate al dubbio) replica un’analoga e ancor più tormentata maturazione che lo stesso Galileo deve aver compiuto in un tempo precedente al dramma. Non potrebbe insistere tanto nell’affermare che la scienza vive solo nel dubbio, se egli stesso non avesse vissuto quel dubbio sulla propria pelle. Il suo sarcasmo ha l’aspetto dell’ironia socratica, e non a caso il suo destino è analogo a quello del filosofo greco, a cui lo unisce anche la consapevolezza di non sapere («Sono stupido io. Non capisco niente di niente. Perciò sono obbligato a turare i buchi della mia conoscenza»). E ciò, anche se a differenza di Socrate, sfugge al tragico destino: per debolezza o codardia, certo, ma anche perché l’età della tragedia è definitivamente tramontata insieme all’universo politico-sociale che l’ha prodotta. Il giudizio di Brecht (nonostante i diversi ripensamenti nel corso delle tre stesure) è tutt’altro che categorico: l’autore prende le distanze dal suo personaggio, ma gli riconosce quel realismo delle «mani sporche», che nel 1948 Jean-Paul Sartre fece proprio elevandolo a morale positiva, contrapposta al velleitarismo dell’utopia rivoluzionaria.
Ma che cosa conserva di attuale questo capolavoro della drammaturgia contemporanea? Certo, non il conflitto tra scienza e potere o scienza e Chiesa, che era già risolto ai tempi in cui Brecht scriveva (e che, coerentemente, Calenda ridimensiona). La scienza ha risolutamente vinto la sua battaglia. È vero che, nel dramma, Galileo ricorda di continuo il destino di sconfitta di Copernico e Bruno. Ma questi due intellettuali sono stati sconfitti soltanto sul piano umano. Se Galileo li può citare è perché le loro ipotesi sopravvivono e travalicano la loro esistenza personale (lui stesso, d'altronde, afferma che un’opera di scienza non può essere scritta da un uomo solo). Il potere ha la facoltà di reprimere gli uomini, non di arrestare lo sviluppo delle idee.
Quello che rimane attuale, secondo me, è piuttosto il conflitto tra verità e ideologia, che è un tema più ampio e problematico. Naturalmente, Galileo ha una concezione della verità scientifica prenovecentesca: per lui, ciò che è vero, contrapposto a ciò che si crede, è quello che si può vedere sperimentalmente con i propri occhi, attraverso l’ausilio di appropriati strumenti (il telescopio). A tal proposito, c’è una scena famosa, molto emblematica. Trasferitosi dalla Repubblica di Venezia alla corte dei Medici a Firenze, Galileo riceve nel suo studio un filosofo e un matematico, e li invita a guardare nel telescopio le nuove «stelle medicee», come le ha battezzate con furbizia. Il filosofo gli chiede prima la «cortesia di una disputa», in pieno stile medievale. Lo scienziato risponde: «Permettetemi un consiglio: cominciate col dare un’occhiata. Vi convincerete subito.» Ma i suoi interlocutori rifiutano ostinatamente, e dopo un’accesa discussione il matematico mette termine così alla discussione: «Se fossi sicuro di non irritarvi ancor più, mi permetterei di affacciare la possibilità che ciò che si vede attraverso l’occhiale sia ben diverso da ciò che è nel cielo.»
Siamo di fronte al contrasto più forte di tutto il dramma. Da una parte, c’è il punto di vista di Galileo che confida nell’autoevidenza della verità, che ha bisogno soltanto di essere guardata. Dall’altra, quella di chi, accecato dall’ideologia, rifiuta di guardare, ritenendo che se quanto vediamo è in contrasto con quel che dimostra l’auctoritas (in questo caso, Aristotele), allora vuol dire che i sensi ci traggono in inganno. Branciaroli sottolinea con un breve ma eloquente silenzio la reazione sbigottita di Galileo. È il silenzio di chi, dopo essersi illuso della forza della ragione umana, si accorge all’improvviso che è vano discorrere con i sordi.
Ma, forse, è anche il silenzio di chi, almeno per un istante, valuta la possibilità che gli avversari, nell'errore, abbiano tuttavia ragione. Galileo non conosce Nietzsche, non conosce Einstein, non conosce Max Planck. Ma Brecht sì, è cresciuto a pane e avanguardia. Sa molto più del suo personaggio. Sa che anche quella verità scientifica che Galileo pretende di ricostruire per mezzo di un telescopio è parziale e, a sua volta, mischiata all’ideologia. Sa che la scienza contemporanea ha rinunciato a parlare in termini di verità e di ragione: non ci garantisce più che le sue scoperte sono vere, si limita a dirci che sono probabili.
La scienza ha vinto la sua lotta con il potere. Ma è stata costretta a riconoscere di non essere di gran «vantaggio all'umanità». Si presenta, per sua stessa ammissione, debole, incapace di riscrivere il maestoso libro della physis. Concettualmente debole. Non ha più quella fiducia nel sapere e nella rigenerazione civile che il Galileo brechtiano continua a coltivare fino all’abiura, tende piuttosto a ridursi a tecnica e a confondersi con questa che è la sua più formidabile creatura. E ciò la espone alle manipolazioni che ben conosciamo. E che Brecht non poteva ignorare.
Vita di Galileo
di Bertolt Brecht
traduzione Emilio Castellani
regia Antonio Calenda
con Franco Branciaroli e (in ordine alfabetico) Lello Abate, Giancarlo Cortesi, Daniele Griggio, Giorgio Lanza, Lucia Ragni ● scene Pier Paolo Bisleri ● costumi Elena Mannini ● musiche Germano Mazzocchetti ● luci Gigi Saccomandi ● coproduzione Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e Teatro de Gli Incamminati
lunedì 5 novembre 2007
Il Galileo di Brecht
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2 commenti:
Il Galileo di Brecht è parecchio diverso da quello storico, è una maschera di Bertolt. Galileo, tanto per fare un esempio pregnante, credeva fermamente in Dio, come Einstein. E cercò in tutti i modi di fare in modo che la nuova scienza fosse accettata e patrocinata dalla Chiesa, non per motivi tattici, ma proprio perché credeva che il progresso scientifico senza quello spirituale era pericoloso. Sotto questo aspetto il discorso conclusivo del Galileo di Brecht non è incoerente con il punto di vista del Galileo storico. Ma tra "i potenti" bisogna vedere non tanto il Papa, Maffeo Barberini, che Galileo sperava di convincere alle nuove teorie, quanto i detentori del potere economico e politico, presso i quali sapeva di non avere possibilità alcuna di far attecchire un'etica dell'uso della scienza a scopi filantropici:
"Credo che l’unico scopo possibile per la scienza sia quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti, se si limitano ad accumulare sapere su sapere, la scienza stessa può essere colpita al cuore un giorno o l’altro per sempre. Ogni nuova macchina non sarà altro che fonte di nuovi triboli per l’uomo. E quando, nel tempo dei tempi, tutto ciò che c’è da scoprire sarà stato scoperto, il vostro progresso non sarà stato altro che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità si sarà scavato un abisso così profondo che ad ogni vostro eureka risponderà soltanto un grido d’orrore universale."
In effetti, è proprio così: il Galileo di Brecht è molto dissonante rispetto alla figura storica. Credo che la scelta della giacca "cinese" con cui recita Branciaroli (simile a quella che usava indossare Brecht) volesse sottolinearlo. D'altra parte, Calenda attenua giustamente i conflitti con il pontefice, evidenziando altri aspetti del testo.
Certo, è abbastanza curioso che un autore marxista come Brecht abbia scelto di allontanarsi così tanto dalla realtà storica. Ma, forse, questo è anche il segreto del successo della sua opera, che conserva un'attualità che i testi del realismo socialista non hanno mai avuto.
Non ho controllato le varie stesure. Ma nel 1947 esce "Dialettica dell'illuminismo", che rimette in discussione l'intero progresso della scienza. E' impensabile che Brecht non ne abbia tenuto conto.
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