Avevo apprezzato lo sguardo chirurgico, alla Harold Pinter, e lo stile denotativo da erede del Nouveau Roman delle precedenti prove narrative di Ian McEwan (soprattutto Amsterdam, Espiazione e Sabato). Non mi è piaciuto, invece, Chesil Beach, un romanzo che promette bene ma non prende mai quota. L’impressione è che lo stesso autore non vi abbia creduto abbastanza. E che lo abbia considerato, lui per primo, un testo minore: uno di quelli che si pubblicano per tenere aperto il canale con il pubblico in attesa di portare a compimento l’opera maggiore. D’altronde, anche se bravo, McEwan è a tutti gli effetti un narratore di successo, ben introdotto nei meccanismi dell’industria culturale. È comprensibile che ragioni in questo modo.
La debolezza del romanzo deriva dal soggetto, cioè dall’idea che dovrebbe sorreggerne l’impalcatura. La si può sintetizzare in una domanda. In sostanza, l’autore si è chiesto: che cosa può accadere nella notte di nozze di due giovani agli inizi degli anni Sessanta, diventati adulti prima della rivoluzione sessuale? La domanda è legittima. E poteva offrire l’occasione per una riflessione critica sugli sviluppi recenti della modernità. Ma McEwan si ferma prima, non sentendosela di portare fino alle estreme conseguenze l’idea abbozzata e accontentandosi di pochi cenni storico-sociologici, a volte abbastanza scontati («I cambiamenti sociali non procedono mai con passo regolare»). Un’occasione perduta. Perché, in letteratura, per risultare viva, la Storia deve essere avvicinata con maggiore determinazione.
Il narratore avrebbe potuto seguire anche una diversa ipotesi di sviluppo, facendo della vicenda una specie di caso da laboratorio utile a indagare «come il corso di tutta una vita» possa dipendere «dal non fare qualcosa.» Ma anche questa è una potenzialità che accenna appena, senza tuttavia seguirla coerentemente. Il risultato è un testo concettoso, che appare schizzato e quasi abbandonato subito dopo. Come se l’autore non avesse avuto voglia o tempo per lavorarci più a lungo.
Anche un’opera non riuscita, tuttavia, può avere qualcosa di interessante da dire. Mi è piaciuta soprattutto la struttura e, in particolare, la modulazione del ritmo narrativo. La vicenda si articola su tre piani cronologici: la prima notte di nozze, raccontata au relenti, dilatando i tempi e con il massimo della concentrazione dei dettagli; l’adolescenza dei due protagonisti, narrata sommariamente in flash back; e il dopo – la loro vita successiva all’evento catastrofico – riassunta in una vertiginosa appendice, in felice contrasto con il resto del racconto: centoventi pagine per narrare una notte e cinque per narrare quarant’anni. Efficace!
Bello anche il punto di vista adottato. Il narratore scava insistentemente nell’animo dei giovani personaggi, dando loro raramente la parola (et pour cause, dato che non hanno una reale coscienza di sé). Ma evita ogni forma di scontato psicologismo. La sua insistenza sembra piuttosto quella di un voyeur, che voglia spiare nell’intimità e nella camera da letto delle sue creature. Valeva la pena di accentuare questa scelta strutturale. Ne sarebbero derivati interessanti spunti per riflettere narrativamente sullo statuto interno dell’io narrante. Ma per fare ciò, era necessario un diverso linguaggio e una maggiore disponibilità a indagare gli aspetti morbosi dell’animo, come sarebbe stato congeniale a un Apollinaire o a un Cocteau, ma che, purtroppo, il britannico McEwan non si può permettere.
Ho apprezzato anche certe impennate al limite del grottesco, che ricordano la migliore tradizione realistica, da Geoffrey Chaucer in su. Un esempio. Il protagonista maschile, Edward, si è imposto una settimana di astinenza per essere nel pieno delle forze al momento del grande evento. Lei, Florence, prova invece il più completo disgusto nei confronti del sesso ed è inorridita all’idea di «fare entrare» qualcuno dentro di sé. Così, quando lui la bacia, dopo aver tanto mangiato e bevuto, la prima idea che le viene in mente è che possa vomitarle in bocca.
Ultima nota, a margine. Edward ama il rock’ n’roll, Florence (di professione violinista) la musica da camera. E, ascoltando le melodie moderne, ammette di non capire la necessità delle percussioni: «Con brani così elementari, in larga misura semplici quattro tempi, che bisogno c’era di tutto quel battere e martellare? A che scopo, quando già c’era la chitarra ritmica, e spesso anche il pianoforte?» Naturalmente, questo è il punto di vista del personaggio, che il narratore non può fare proprio.
Ma quella domanda non è, poi, tanto peregrina (coglie anzi una tendenza fondamentale della musica moderna, sulla quale sarebbe bene ritornare). Me la sono ricordata vedendo Across the Universe, il dispendioso filmino, ambientato nella stessa epoca, che Julie Taymor ha tratto dalle canzoni dei Beatles (e chissà quanto ha speso per i diritti d’autore e per le scene di massa!): di fatto, un lungo e insapore videoclip, servito con un frugale dialogato, qualche sparuta battuta di spirito (divertente quella sullo specchio), qualche bel grandangolo e una straripante insalata di balletti e di banalità. Imperdonabile, per lo sfarzo retorico, la cover di Let it Be.
Ian McEwan
Chesil Beach
EINAUDI
pp. 136, € 15,50
traduzione di Susanna Basso
lunedì 3 dicembre 2007
McEwan: raccontare da voyeur
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2 commenti:
Ho letto questo ultimo romanzo di McEwan e, diversamente dall'opinione di Gallo, non direi sia un libro minore. Piuttosto i "grandi libri" "le opere memorabili" sono tali proprio perchè estremamente rare. Piuttosto ChesilBeach si potrebbe definire un romanzo breve. Ha dalla sua però l'essere mirabilmenre equilibrato, riuscire a tenere l'attenzione per 140 pagine descrivendo quanto accade in una sola serata richiede grandi qualità di scrittura. Gli imbarazzi i timori, la timidezza e tutti i sentimenti che i due protagonisti provano sono così ben descritti da trasportare il lettore sino a provare una sorta di soladarietà dei sentimenti. Nell'intero ramanzo i due protagonisti non si rivolgono mai la parola, scambiano con l'altro paure, ossessioni, desiderio ma mai confidenza. Certo "Chesil Beach" non ha l'ampiezza e la profondità di "Espiazione" ma ha dalla sua una grande profondità umana ed un equilibrio meraviglioso.
Fabrizio Riva
Carissimo Fabrizio Riva,
io non nego che, fra le novità della stagione in corso, "Chesil Beach" sia uno dei romanzi più interessanti. Ne ho parlato proprio per questo. Secondo me, però, c'è una differenza tra le potenzialità e il risultato.
Il tema era certamente da romanzo breve. Due soli personaggi, una sola notte! Meno della giornata dell'Ulisse di Joyce. McEwan ha fatto bene a concentrare la narrazione e a esaurirla nelle calviniane cento pagine. Scrittori meno abili e consapevoli l'avrebbero gonfiata, introducendo storie parallele o divagando nell'analisi psicologica.
Però la scelta di McEwan ha un costo: lascia in sospeso le premesse della narrazione stessa. Evoca un aspetto fondamentale della modernità (la rivoluzione sessuale), ma rinuncia ad analizzarla criticamente. Eppure è uno scrittore che avrebbe le capacità per farlo (ne ha già dato prova nei precedenti romanzi). E' da qui che nasce la mia insoddisfazione. Ma è l'insoddisfazione di chi apprezza l'autore che sta leggendo, e si dispiace se nell'ultima fatica letteraria non riesce a essere all'altezza di quello che ha dimostrato di essere nelle opere precedenti.
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