Nel discorso alla convenzione nazionale del PD all’Hotel Marriott di Roma, Dario Franceschini è tornato a ripetere il suo mantra: «Indietro non si torna.» E perché no? È una legge controproducente. Quando ci si accorge di essere finiti in un vicolo cieco, non resta altro da fare. Tuttavia meglio intendersi. Non si innesca la retromarcia per tornare a casa, bensì per ritornare all’ultimo incrocio e imboccare la strada giusta che ci porti a destinazione. Anche in montagna si fa così: per conquistare una vetta, tocca a volte dover scendere di qualche metro. Piuttosto, dal momento che procediamo a passo d’uomo, avrebbe potuto esser saggio fermarci un istante a chiederci qual è la destinazione che vogliamo raggiungere, giacché tanto gli iscritti quanto gli elettori ci fanno sapere che le nostre intenzioni non le hanno mica ben capite. (Il congresso sarebbe stato più utile. Invece Fassino ci ha spiegato che serviva solo per selezionare chi passava alle primarie!)
Ma accontentiamoci del tema all’ordine del giorno. Dunque, secondo Franceschini, da cosa non dovremmo tornare indietro, e verso cosa non si dovrebbe tornare? Gli oggetti del contendere sono sostanzialmente due, ma ve n’è un terzo nascosto, ancor più importante. 1) Non si torna indietro dalla semplificazione dei partiti, e quindi non si torna all’Ulivo. 2) Non si torna indietro dal bipolarismo, e quindi non si torna al sistema pluricentrico della prima Repubblica.
In pillole, questo è ciò che dice Franceschini. Entrambe le coppie di affermazioni godono oggi di un grosso appeal, peraltro bipartisan. Ma entrambe tradiscono una buona dose di astrattismo. Proviamo a sintetizzare.
1) Sì, la semplificazione dei partiti è stato un buono scopo, finora però non ha dato buoni risultati: il sistema politico italiano è avvelenato quanto lo era prima. Anzi, la conflittualità tra i due fronti e all’interno di ciascun fronte, anziché diminuire, è persino cresciuta. È vero, questo non vuol dire che la semplificazione fosse sbagliata, vuol dire però che quanto meno è avvenuta nel modo sbagliato. Sarebbe utile allora che il PD riflettesse su come si possano correggere gli effetti negativi non desiderati che la semplificazione ha avuto sulla battaglia politica in Italia. (Per esempio, cosa intende fare il PD con l'Italia dei Valori?)
2) A differenza di Franceschini e dei suoi, non sarei così severo nel giudizio sull’Ulivo. Certo, il suo scopo – riunire la sinistra attorno a una piattaforma programmatica che costringesse anche le forze movimentiste a uniformarsi a una politica di governo – è fallito, perché non è riuscito ad avere i numeri sufficienti in Parlamento (se nel 2006 avessimo avuto una dozzina di seggi in più al senato, avremmo potuto facilmente spuntare le armi dei nanetti che difendono una rendita di posizione). Però non si può ignorare che la fine dell’Ulivo ha portato all’irrobustimento di una forza radicale e giustizialista come quella di Di Pietro ben più preoccupante del radicalismo di origine comunista che un uomo come Bertinotti riusciva bene o male a mitigare. Ne terrei conto nella valutazione dei fatti.
3) Il bipolarismo in sé non è né una cosa buona né una cosa cattiva. Dipende dai contenuti. Perché dovremmo difenderlo a priori? Non si capisce. D’altra parte, la costituzione di un Centro (grande o piccolo) che aspira a fare da ago dalla bilancia non dipende da noi. Inutile sostenere che non dovremmo favorirlo. Le sue fortune o sfortune dipendono solo dalla volontà degli elettori.
4) Ma, soprattutto, siamo così sicuri che la seconda Repubblica sia tanto meglio della prima. Personalmente, sono convinto dell’opposto. Ed è proprio il clima avvelenato che respiriamo dal 1994 che mi preoccupa. Ora, quello che dobbiamo domandarci è questo: il clima politico in Italia è avvelenato per colpa di Berlusconi che con la sua condotta rende vani i vantaggi del bipolarismo oppure è avvelenato a causa di un bipolarismo astratto che costringe i competitors a comportarsi come se fossimo perennemente in campagna elettorale? Nel primo caso, una Terza Repubblica ventura potrà essere felicemente bipolare. Nel secondo caso, c’è da augurarsi che Casini e Montezemolo realizzino in fretta quello che hanno promesso.
Nelle affermazioni di Franceschini c’è però anche una questione nascosta che il PD non lascia affiorare volentieri. È la questione del presidenzialismo. In effetti, la struttura che il PD si è dato sinora avrebbe senso unicamente in un sistema presidenziale che favorisca un rapporto diretto (o almeno poco mediato) fra eletto ed elettore. La stessa idea di forma del partito che Franceschini ha in mente (e che condivide con Veltroni, seppure con qualche aggiustamento) va appunto in questa direzione, anche se ciò non viene detto in modo esplicito.
Naturalmente, è un presidenzialismo all’israeliana (già affiorato alla fine degli anni Novanta). In sostanza, quello verso cui muove nei fatti il PD di Franceschini è un sistema che preveda l’elezione diretta del presidente del Consiglio (anche le primarie per la scelta del segretario hanno senso soltanto in questo contesto). Lo stesso obiettivo di Berlusconi, il quale anche oggi ha ripetuto di essere legittimato a governare perché eletto dal popolo (il che è falso, finché siamo in un sistema parlamentare).
È lecita una svolta in senso presidenziale? Certo, purché prima la si discuta e sia approvata. È anche utile? Ne dubito. Anzi, a me sembra che l’elezione diretta del leader (di partito o di governo) finisca in Italia col nutrire i germi degenerativi della democrazia, e cioè con l’incoraggiare una conflittualità demagogica ad alto tasso di personalismo che taglia fuori il dibattito sulle idee e sulle reali proposte politiche alternative.
Il logorante iter che il PD ha scelto per eleggere il proprio segretario è un esempio di questo rischio di deriva demagogico-burocratica. Almeno su questo punto, io tornerei indietro senza esitazioni.
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