Alla fine degli anni Settanta, Capalbio è già «un posto pieno di comunisti», che vi trascorrono le vacanze assieme a «mezza aristocrazia milanese che possiede tutta la costa». Tuttavia questo «delizioso accidenti di paesino medievale» a sud della Toscana non è ancora stato preso di mira né dai vip né dai flash dei fotoreporter né dalle folle di turisti che vi si sarebbero riversati negli anni a venire. Conservava anzi un suo aspetto selvatico, «molto folk», punteggiato dalla presenza dei cinghiali: «una pizza mortale» per una ragazza dell’età di Libera, protagonista di L’era del cinghiale rosso di Giovanna Nuvoletti (Fazi Editore, pp. 278, euro 18,50).
Quando arriva a Capalbio per la prima volta nel ’77, Libera ha appena tredici anni e non trova «niente di che» nel «passare le serate al ristorante a mangiar salsicce di cinghiale coi comunisti» o nell’andare a vedere un Roberto Benigni ancora pressoché ignoto che gira Il comizio: anzi, fa spallucce, risale sul motorino, e se ne va per la sua strada. Ha ben altro per la testa: ha voglia di consacrarsi alla sua vitalità giovanile, desiderosa di nutrirsi di musica, amori, balli, svaghi. Proprio tale vitalità è all’origine di una diffidenza critica verso il clericalismo comunista che, con l’età della ragione, acquisterà un diverso spessore, traducendosi in un anticonformismo liberale o meglio libertario, a volte scanzonato e a volte crudelmente tranchant.
L’era del cinghiale rosso è un originale romanzo storico che racconta le vicende della sinistra italiana e del nostro Paese secondo un punto di vista programmaticamente defilato e parziale: quello di una figura femminile caratterizzata da un misto di istintualità e problematismo critico che, a dispetto delle difficoltà economiche, ha il privilegio di conoscere da vicino alcuni dei massimi protagonisti della cultura e della politica italiana tra prima e seconda Repubblica: Alberto Asor Rosa, Giacomo Marramao, Carlo Muscetta, Philippe Daverio, Aldo Tortorella, Achille Occhetto, Claudio Petruccioli, Enrico Manca, Giorgio La Malfa, Claudio Martelli, Chicco Testa, Francesco Rutelli, e tanti, tantissimi altri.
Sotto questo profilo, L’era del cinghiale rosso forma col precedente Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più una sorta di dittico letteriario. Gli elementi di consonanza tematica e compositiva sono infatti più che evidenti: il mare, le vacanze, i vip, il taglio degli episodi, la tensione antiromanzesca... Nondimeno, se i Gamberi si distinguono per la maggiore complessità espressiva e strutturale (al tema storico si intreccia qui quello privato-esistenziale, legato al suicidio materno), L’era del cinghiale rosso si presenta come un romanzo più compatto, linguisticamente sciolto e divertito, ricco di autoironia: Libera si prende difatti la liceità di ritrarre la stessa Nuvoletti, senza peraltro farle troppi sconti, anzi!
Ma cosa rimprovera la protagonista-narratrice ai comunisti? Sostanzialmente, di essere comunisti o – il che è lo stesso – di non essere liberali. La contrapposizione è spesso netta: «L’attività principale di buona parte degli intellettuali era prendersela con la centrale nucleare di Montalto, che mai nacque», mentre lei, Libera, al nucleare è «sempre stata favorevole». E quando a Capalbio fa capolino Toni Negri «per abbracciare Alberto Asor Rosa», la ragazza non ha mezzi termini: pur avendo «sempre nutrito un certo affetto» per i radicali, lei il professore di Padova non lo avrebbe mai candidato. Ma soprattutto, quando Pietro Ingrao in TV afferma che l’invasione della Cecoslovacchia fu un errore, sbotta: «Un errore? Arrossii e gridai: “Quale errore? Un crimine!”» E, molto più avanti, alla presentazione di un libro contro i sindacati, ammette candidamente: «Io gongolo: li odio» [i sindacati].
Tuttavia il giudizio poco alla volta si fa più sfaccettato. Come tanti liberali e non comunisti italiani, anche Libera comincia ad «afferrare il concetto di diritti, di uguaglianza». La precisazione è d’obbligo: «Non i paroloni vuoti della retorica marxista. Un’altra cosa, diversa. La vita delle persone. Noi liberali abbiamo grande rispetto dell’individuo.» Ma il passo è compiuto. D’altra parte, è proprio il «rispetto dell’individuo» a portarla progressivamente a spostare la sua verve polemica contro altri obiettivi: i giornali che raccontano il falso su Capalbio e il turismo di massa che va trasformando il volto di questa cittadina medievale.
Ed è difficile resistere alla tentazione di dare a queste pagine un valore metonimico. Come dire: se il giornalismo nell’era della democrazia mediatica restituisce un’immagine interessata degli eventi mondani della piccola Atene perché dovrebbe fare diversamente quando racconta i più importanti eventi politici della nazione? Alla fine del romanzo quella che rimane è un’impressione di sconfitta, che sembra accomunare tanto la tradizione comunista quanto quella liberale: entrambe soccombono infatti di fronte al medesimo destino, entrambe si dimostrano inadeguate a difendere le ragione dell’umanesimo di fronte all’avanzare della spersonalizzazione propria della contemporanea società dei consumi e dell’apparire.
Nessun commento:
Posta un commento