C’erano già tante buone ragioni politiche per essere scontenti del governo Berlusconi, e metterne in discussione la leadership: dalla sottovalutazione della crisi economica allo sfruttamento mediatico della tragedia abruzzese, dall’aggressione alle libertà individuali (il testamento biologico) alla legge sulle intercettazioni che intralcia la sicurezza in Italia...
In questi giorni, tali temi sono passati in secondo piano, oscurati dalle vicende private del premier e dal «salto di qualità» che il caso D’Addario potrebbe imprimere al «velina-gate» (sono espressioni di Antonio Polito). Ma ciò non vuol dire che quei temi siano irrilevanti. Al contrario, i reali motivi del crescente malumore di quei settori del fronte berlusconiano che sognano una destra alla Merkel o alla Sarkozy vanno rintracciati anzitutto in quei temi, oltre che in una molto più antica, radicata e preconcetta diffidenza verso il tycoon, con cui Fini & Co. sono scesi a patti con l’intento mai celato di servirsene finché fosse necessario per scaricarlo al momento opportuno.
Per dirla senza mezzi termini: l’idea di un cambio di leadership covava da tempo in tanti circoli, segmenti e fondazioni del centrodestra. Già nella precedente legislatura berlusconiana se ne erano ampiamente visti i segnali. Ma finora per il centrodestra quella di liberarsi di una figura scomoda come Berlusconi era una prospettiva remota: certo un’eventualità da preparare e in vista della quale lavorare, ma senza irrealistici balzi in avanti. La scadenza non era all’orizzonte, le condizioni per un passaggio di testimone non c’erano, l’opinione pubblica non era preparata.
Oggi, le cose potrebbero essere cambiate. Non solo perché l’immagine del Cavaliere, comunque ne venga fuori, appare danneggiata (almeno a livello istituzionale e internazionale: lo confermano gli imbarazzanti aneddoti riferiti da Chirac e dalla moglie di Blair, che la parziale positività dell’incontro con Obama non può cancellare). Ma soprattutto perché la vittoria del PDL alle recenti elezioni amministrative, unita alla sconfitta personale di Berlusconi alle europee, potrebbe legittimamente indurre qualcuno a pensare che i tempi per una svolta sono maturi. Esiste una parte del centrodestra che da tempo si sente ormai adulta e ritiene di non aver più bisogno di un padre-sovrano per rimanere unita e vincere. Tanto più che si trova di fronte un centrosinistra indebolito e acefalo (o, se si preferisce, disorientato da troppi cefali: il risultato non cambia), che difficilmente potrebbe avvantaggiarsi da un’uscita di scena del Cavaliere.
Né è utile fare gli ingenui. Luigi Crespi ha perfettamente ragione a ricordare che «i complotti hanno accompagnato la storia del nostro Paese». Questo non sarebbe né il primo né l’ultimo. Noi non abbiamo in mano le informazioni che ha lui, non sappiamo se dietro alla fuga di notizie (o brandelli di notizie) riguardo alla vivace vita privata del Cavaliere ci sia o no una «regia». Quel che è certo è che più che la sinistra, alle prese con i suoi logoranti problemi interni, a gongolare delle sventure e degli errori di Berlusconi è una parte del suo stesso entourage (non solo i finiani).
Non a caso i colonnelli del PDL se ne stanno alla finestra a guardare: non intervengono né per garantire la loro solidarietà al capo né per smarcarsene. Lasciano ai comunicati stampa e all’avvocato Ghedini l’incombenza di difenderlo (peraltro male, molto male: la metafora dell’«utilizzatore finale» è quanto meno infelice). Solo Bossi si è speso per l’amico di Arcore. Lo ha fatto probabilmente per sincera amicizia (le cene del lunedì sono una consuetudine esclusiva, mai allargata agli altri leader del centrodestra) e per riconoscenza (la Lega sarebbe una forza isolata e impotente senza Berlusconi). Ma di sicuro lo ha fatto anche per calcolo politico. Il senatúr sa infatti che non è detto che i “golpisti” avranno la meglio. E gli conviene rischiare un po’, per chiedere poi il conto e mettere a frutto il recente successo elettorale (a cominciare per esempio da qualche poltrona in RAI).
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