In uno dei suoi più celebri testi fra monologo teatrale e canzone d’autore, Giorgio Gaber elenca gli eterogenei motivi per cui tanti italiani furono comunisti senza essere ideologicamente comunisti. L’elenco, naturalmente aperto, spazia fra ragioni accidentali («qualcuno era comunista perché era nato in Emilia»), ragioni emotive («si sentiva solo»), ragioni sociali («non ne poteva più di fare l’operaio»), ragioni politiche («non ne poteva più di quarant’anni di governi viscidi e ruffiani»), ragioni ribellistiche («per fare rabbia a suo padre»), ragioni etiche («pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri»).
Nella sua amara ironia, Gaber non nasconde le distorsioni del totalitarismo comunista : «Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin.» Oppure: «Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio». Fu appunto quella vocazione totalitaria all’origine dei silenzi del PCI sui fatti d’Ungheria del 1956 o sull’invasione sovietica di Praga nel 1968.
Tuttavia, a dispetto della sua vocazione totalitaria, il PCI riuscì a raccogliere attorno a sé masse di elettori che non avevano nulla da spartire con gli ottusi e trinariciuti figuri meritatamente sbeffeggiati da Giovannino Guareschi. Quelle masse erano costituite appunto dai comunisti di Gaber. Ed è a loro che il PCI fu debitore della sua forza (una forza che gli permise di sopravvivere alla precoce quanto salutare irrilevanza degli altri partiti comunisti dell’Occidente). Perché i comunisti-comunisti – gli ortodossi – erano un gruppetto minoritario anche da noi. Da soli potevano bensì conquistare il comune di Brescello. Ma persino la rossa Emilia se la sarebbero sognata.
Ma perché quelle masse di elettori riponevano le proprie speranze nel PCI anziché nelle forze che più coerentemente discendevano dalla tradizione liberale e democratica dell’Occidente? Che cosa trovavano in quel partito che non trovavano altrove? E perché il PD non riesce a esercitare un campo magnetico dai confini altrettanto ampi? Cosa gli manca?
Anch’io sono stato comunista. Senza essere ideologicamente comunista. Lo divenni tardi, all’università, dopo che la mia formazione politica si era già conclusa: una formazione libresca, fondata anzitutto sui testi di Norberto Bobbio e di Friedrich Nietzsche, quanto di più lontano vi potesse essere dalla tradizione comunista. Né, forse, mi sarei iscritto al partito comunista se Bobbio non avesse scelto proprio il PCI come suo interlocutore privilegiato. E loro, i comunisti-comunisti, gli rispondevano (bisogna dire che possedevano anche le doti intellettuali per rispondergli). E nel momento in cui un partito comunista accetta il dialogo, il suo totalitarismo si è già bello che incrinato.
Intendiamoci. Non ho nessuna nostalgia del PCI. Proprio nessuna. Ho brindato al suo funerale. Mi manca però quello che il PCI ha rappresentato. Se mi è permesso dirlo un po' grossolanamente, erano quattro le qualità che vi trovavo e che non ritrovo nel PD.
1) Un’organizzazione, e cioè una capacità di armonizzare i mezzi in vista degli scopi. Certo, lo scopo ultimo era la società senza classi. Ma quello che interessava a noi, i comunisti di Gaber, era lo scopo intermedio: il miglioramento delle condizioni sociali per tutti, qui, ora, nella democrazia borghese, utilizzando gli spazi della democrazia borghese. Questo ci bastava, perché per chi è stato comunista senza essere comunista non esiste scopo a questo superiore.
2) Un partito di massa, e cioè un partito interclassista che si sforzava di conciliare gli interessi di ceti sociali difformi, e per ciò era costretto a darsi una politica nazionale.
3) Un senso della storia, che per la prima volta rendeva milioni di italiani partecipi del destino del Paese, proiettandoli in un divenire, e cioè in una trascendenza, in un superamento del presente e di se stessi. Questo è qualcosa di difficile da comprendere oggi, nell’era della democrazia mediatica, dove tutti possono salire sul palcoscenico e avere il loro quarto d’ora di (mistificante) gloria. Ma quello che sto affermando qui non ha niente a che vedere con le melensaggini da rotocalco del Noi veltroniano.
4) Un orgoglio di essere. L’ho provato anch’io l’orgoglio comunista. L’ho provato anche se, avendo la facoltà di viaggiare nello spazio-tempo, sarei tornato senza pensarci due volte a Livorno nel gennaio 1921 e avrei cancellato con un colpo di spugna il congresso che divise il partito socialista dando vita al Partito Comunista d’Italia. L’ho provato anch’io, perché quell’orgoglio comunista, al di là di tutto, era alimentato da una straordinaria vivacità culturale e politica. Ma non vi è alcun ragionevole motivo per provare orgoglio di stare nel PD. Io conservo l’orgoglio della mia cultura, della mia identità: sono un liberalsocialista che, come un tempo ha scelto il PCI, oggi ha scelto come strumento questo nuovo partito. Ma non sono orgoglioso del PD.
Bersani è stato un coraggioso ministro. Sarà anche un bravo segretario? Non lo sappiamo. Vedremo. Ha il merito di aver formulato la prima proposta seria venuta da un esponente piddino: una no tax area per incoraggiare gli investimenti. È una proposta liberale, va nella direzione giusta. Ma Bersani non eredita un partito, eredita un mucchietto di ceneri. Non tanto per i numeri (il 26% dei consensi è un patrimonio che nessuno può snobbare). Bensì per il vuoto organizzativo-culturale che lo attornia: il PD è nato dalla disperazione, non da un atto di creatività.
Ma, se Bersani ci permette, gli offriamo un suggerimento: la riascolti ogni tanto, quella canzone di Giorgio Gaber. È meno accattivante dei suoni del suo corregionale Vasco Rossi, costruita com’è sull’understatement. Forse però può contribuire a ispirargli la strada giusta da percorrere per costruire un partito di massa in grado di riallacciare i rapporti con larghe fasce di elettorato: i figli dei comunisti di Gaber. E pure i loro padri. Perché noi siamo ancora qui. Siamo vivi e votiamo.
9 commenti:
Ho letto per caso questa nota sul profilo di Gianni Cuperlo. Mi permetta di farle notare una contraddizione in termini: come può un partito senza basi culturali riappropriarsi di una parte dell' elettorato senza una coscienza critica? Un elettorato, cioè, che pretende che qualcuno gli insegni a vivere? Mi sconvolge l' ingenuità con la quale si pretende di prendere in giro la gente che va a votare. Essere vivi significa anche avere il diritto di dire " Io non ci sto". Credo che il problema sia solo di un partito che non riesce più a rappresentare e peggio ancora RISPETTARE la volontà dell' elettore. Io non mi sento rispettata. E non ho neanche intenzione di pensarmi come parte di un grande partito di massa. Semplicemente perché io sono io. E la mia appartenenza ad un partito fa semplicemente parte di me. Non me ne faccio nulla, io, dell' orgoglio da esibire o anche da implodere.
La verità è che i vecchi partiti sconoscono il valore del concetto di PERSONA.
E ciò che mi fa più male è constatare che c'è ancora chi, un pò seriamente e un pò per celia, parla ancora di orgoglio.
E la fierezza, amio avviso, è un sentimento troppo vuoto per essere ripristinato da una politica con a monte troppi problemi di vacuità.
Cordialmente,
Eliana Patanè da Catania.
Gentilissima Eliana, non ho ben capito se la critica è rivolta a me o al PD. Per quel che mi riguarda, posso assicurarle che non ho dubbi sul fatto che un "noi" ha senso solo in quanto somma di singoli, di individui. Per cui d'accordo con lei.
D'accordo anche sul fatto che il PD è privo di "basi culturali". Non ho usato questa espressione, ma il senso del mio articolo mirava appunto a sollecitare una riflessione culturale.
Non credo invece che esista un elettorato "che pretende che qualcuno gli insegni a vivere". E, se vi fosse, sarebbe meglio prenderne le distanze. Perché seguire quella strada vuol dire sfociare nel totalitarismo.
Dissento invece sull'orgoglio. Una forza politica che non riesce a suscitare un senso di orgoglio nei suoi militanti non va da nessuna parte. D'altra parte, il centrodestra quell'orgoglio lo ha, eccome, sia nella variante berlusconiana sia in quella leghista.
Caro Gallo,
grazie per aver risposto al mio intervento sul blog.
Premetto che il mio bersaglio non è lei. Come potrebbe esserlo, scusi?
Posto ciò, devo però ammettere che la conclusione del suo commento al mio mi terrorizza alquanto.
Cosa significa " d' altra parte, il centrodestra quell' orgoglio ce l' ha" ?
Era cinismo il suo? O pensa veramente quello che ha scritto?
Cordialmente,
Eliana.
Be', Berlusconi asserisce di essere il più grande statista degli ultimi 150 anni. Se non è orgoglio questo...
Ma provi a parlare con i militanti della Lega o del PDL. Vedrà che le rispondono dando sfoggio di passione e difendendo i loro convincimenti con forza. Sono convincimenti sbagliati? La loro passione è mal riposta? Secondo me, sì.
Ciò però non cambia la sostanza del discorso: qualunque organizzazione politica per sopravvivere ha la necessità di aggregare masse di individui attorno a dei convincimenti e unirli nella passione, suscitando un senso di appartenenza. Non si può fare altrimenti. Vale per la destra, vale per il centro, vale per la sinistra.
In questo certo, c'è qualcosa di antimoderno. Perché gli interpreti della modernità (tutti: di sinistra, di destra, cattolici) hanno piuttosto raccontato la scissione tra l'Io e l'ambiente che lo circonda. Hanno cioè minato le fondamenta dell'appartenenza e quindi dell'orgoglio. Hanno valorizzato un punto di vista distaccato, disilluso, scettico. Ma il fatto è che niente garantisce che la modernità abbia ragione o che interpreti meglio dell'antimodernità lo spirito del nostro essere animali sociali.
Nessuno ha parlato di ragoni della modernità. Ultimamente però mi è capitato di leggere " L' esperienza della libertà" di J. L. Nancy, che lei di certo conosce.
Le sembra scettico, lui? A me no.
Sul concetto di orgoglio continuiamo a non essere d' accordo.
Grazie.
Bah, collocherei Nancy fra i pensatori radicali che addirittura promuovono un superamento della modernità. Siamo ben oltre lo scetticismo. Che poi il superamento della modernità coincida con un ritorno critico alle origini del pensiero dell'Occidente è un fatto normale. Nella storia della cultura, ogni tentativo di avanzamento è sempre accompagnato da una rilettura del passato. Ma tutto questo non modifica la riflessione all'ordine del giorno qui.
Il tema era molto più circoscritto. Si trattava di capire dove può andare il PD e con quali strumenti.
O.T.: ho scritto un post dal titolo "Servono a qualcosa i blog?".Ti invito a leggerlo ed eventualmente a commentarlo.
Ciao a presto.
Io ho citato Nancy perché ritengo che quello sia un punto di riferimento sano per fare in modo che un " argomento circoscritto", come lei lo definisce, si arricchisca di contentuti. Solo così il Pd, a mio avviso, potrà vantarsi di possedere un patrimonio, perché ( se proprio dobbiamo parlare di orgoglio!)è la cultura che può renderci orgogliosi. Nient' altro.
Si può essere orgogliosi anche di aver realizzato un bel centro storico o un grande parco, di aver dato vita a una festa comunale ben riuscita, di aver utilizzato bene i soldi pubblici, di aver creato un quartiere vivibile, di essere riusciti a favorire l'integrazione, di aver ridotto i conflitti sociali, di aver assicurato il buon funzionamento delle scuole, ecc. ecc. Ci sono tanti buoni motivi per essere orgogliosi.
Naturalmente, ogni apporto culturale è ben accetto (anche Nancy). Ma ricordiamoci che il dibattito delle idee è utile in politica se si traduce in un operato. Il piacere di conversare va bene. Ma non è attinente alla politica.
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