I turbamenti di coscienza di un papa che non vuole essere papa, e il mancato confronto tra scienza e fede in un film controverso che inscena uno dei principali temi della contemporaneità: la crisi dell’Io
Nella storia della Chiesa, sono cinque i pontefici che hanno abdicato, per scelta o per costrizione: Clemente I, papa Ponziano, Benedetto IX, Celestino V e Gregorio XII. Il più celebre è il penultimo, che Dante colloca fra gli ignavi, nel terzo canto dell’Inferno: per lui non vi sono dubbi, il gran rifiuto di Celestino V equivale a un gesto di viltade. E la sua ombra merita di stare fra coloro che non hanno speranza di morte, perché persino la misericordia e la giustizia li sdegna.
Nonostante l’ambientazione contemporanea, è inevitabile ripensare ai versi danteschi vedendo Habemus papam, il controverso film di Nanni Moretti su un neopontefice che, appena prima della proclamazione davanti ai fedeli in piazza san Pietro, cade in depressione, sentendosi inadeguato alle responsabilità che lo attendono. Qui il punto di vista però è ribaltato: quello che per il credente Dante è un gesto di viltà, per l’ateo Moretti è un motivo di interesse. E il perché è facile da capire. Nel prestare ascolto ai suoi turbamenti di coscienza, Melville – il papa che non vuole essere papa – dà prova di un’autenticità umana che scavalca il ruolo istituzionale cui lo ha destinato il conclave.
Non solo. Il bisogno di fare i conti con i propri turbamenti lo porta a infrangere le regole: lasciando mezza umanità con il fiato sospeso, fugge dagli appartamenti vaticani e, vestito in borghese, si mischia alla folla romana. La trasgressione ha una forza simbolica notevole, ed è sottolineata dal montaggio parallelo: da una parte, le scene di massa (i cardinali, i fedeli…), e cioè un soggetto indistinto, collettivo, non individualizzato, tutt’al più composto di macchiette appena sbozzate (il cardinale che non tollera di perdere a carte, quelli che vorrebbero andare a far colazione in pasticceria, ecc.); dall’altra, il giganteggiare delle inquietudini del cardinale Melville (pontefice prescelto ma non ancora presentato al mondo), che ne fanno un individuo complesso, fratello dei molti antieroi della letteratura moderna. E chissà che l’onomastica non risenta di un’eco letteraria, volta a evidenziare una lotta impari (come quella descritta dall’autore di Moby Dick), qui del tutto interiorizzata, fra umano e sovrumano.
Sta di fatto che Melville è un personaggio in cerca di identità, che la superba interpretazione di Michel Piccoli rende ancor più prossimo agli spettatori. Il papa che non vuole essere papa è uno di noi: un uomo che si interroga, che osserva gli altri, li avvicina, prova a confondersi con loro, confida il suo grande rammarico (il desiderio insoddisfatto di fare teatro), addirittura non esita a raccontare bugie, sia pure a fin di bene, per non mettere in imbarazzo l’interlocutore. Insomma, ha i nostri stessi pregi e i nostri difetti.
Dal punto di vista narrativo, tuttavia, c’è qualcosa che non funziona. Questo personaggio che con la sua trasgressione rischia di mettere a repentaglio l’immagine e la credibilità di quella Chiesa di cui fa parte non ha una vera maturazione. Certo, l’immersione nel mondo corrobora i suoi dubbi. Ma, alla fine del film, Melville non ha niente in più da offrire al mondo che non sia l’onestà con cui affronta i propri conflitti interiori e che già lo caratterizzava all’inizio. Perché allora proiettarlo nell’incertezza della vita e dell’avventura? Qual è il senso della sua parabola?
Ma c’è anche un’altra scelta narrativa che non mi convince. Appena Melville cade in depressione, per cercare di aiutarlo il Vaticano invita uno psicanalista, l’ateo professor Brezzi, interpretato dallo stesso Moretti. A dispetto delle tante limitazioni imposte (i cardinali assistono alla seduta e invitano il professore ad astenersi dal toccare temi troppo scabrosi), è un segno di apertura. Anche qui la simbologia è forte. Il professore e Melville sono seduti l’uno di fronte all’altro e si guardano in faccia. La scienza laica, razionalista, investigativa, dubbiosa per definizione e la Chiesa militante, colta anzitutto nella sua funzione politica, come guida di anime e di popoli. Sembrerebbe l’avvio di un confronto di portata storica, facilitato dal problematismo senza preconcetti di Melville. Invece, no. Il confronto si interrompe subito dopo con la fuga del pontefice, e non viene più ripreso.
Il professor Brezzi resta segregato in Vaticano (nessuno può uscire prima della proclamazione, e quindi della conclusione ufficiale del conclave). Ma si guarda bene dal confrontarsi con i cardinali: occupa il tempo insieme a loro, gioca a carte, organizza un torneo di pallavolo. Ma non ha un reale scambio di idee, e del resto non potrebbe averlo perché il regista non riconosce ai cardinali la statura di personaggio che riconosce a Melville. Per parte sua, quest’ultimo, una volta in libertà, prova a testare le capacità interpretative e terapeutiche della scienza laica per conto proprio, rivolgendosi all’ex moglie del professore, a sua volta psicanalista (Margherita Buy). I due si osservano, si studiano, si ascoltano. Ma il dialogo non scatta neppure fra di loro.
Ora, anche a un materialista come me viene da chiedere: ma perché mettere uno di fronte all’altro due mondi e non farli dialogare? Non è un’occasione sprecata? Il sospetto è che Moretti possa riconoscere dignità a un uomo di fede in crisi, proprio in virtù del fatto che è in crisi, ma non abbia un reale interesse a investigare le ragioni della Chiesa in quanto entità politica. Forse a impedirglielo è la sua diffidenza militante nei confronti del potere, la sua appartenenza a una sinistra più anarchica che postcomunista. E, chissà, magari ha dovuto farsi forza per trattenersi dallo schiacciare il tasto del grottesco, che in questo film riserva unicamente a un altro potere, il quinto, il giornalismo televisivo. Ma questa, ovviamente, è un’illazione.
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