Culla del riformismo socialista, il capoluogo lombardo è una città spregiudicata. Non teme i movimenti di rottura. Ma all’ideologia preferisce l’intraprendenza di chi sa fare
Con la sua consueta lucidità, Sergio Romano – nel fondo odierno sul Corsera – mette i puntini sulle «i». Ai soloni della politica fa notare che non si ricordano a memoria d’uomo «elezioni locali a cui non sia stata attribuita una valenza politica». La vera anomalia, secondo l’ex ambasciatore, sta nel fatto che la politica ha soffocato il dibattito delle idee e che le elezioni amministrative, per iniziativa dello stesso Berlusconi, sono state trasformate in un referendum sul presidente del Consiglio. Anche queste due circostanze non mi sembrano proprio una novità. Ma sono vere. E, in primo luogo, riguardano le elezioni milanesi.
Proviamo allora ad aggiungere anche noi un puntino sulle «i». In questa campagna elettorale, si è parlato tanto di voto moderato. Ma Milano non è una città moderata. Non lo è mai stata. Questa semmai è da sempre la culla del riformismo socialista. Qui, nel 1891, fu fondata la Critica sociale di Filippo Turati. Una decina d’anni prima, nel 1882, era nato il Partito Operaio, e nell’89, sempre per iniziativa di Turati, nacque la Lega socialista. E dal movimento socialista provengono tutti i sindaci del secondo dopoguerra: Antonio Greppi (1945-51), Virgilio Ferrari (1951-61), Gino Cassinis (1961-64), Pietro Bucalossi (1964-67), Aldo Aniasi (1967-76), Carlo Tognoli (1976-86), e mettiamoci pure il controverso Paolo Pillitteri (1986-92).
Tutti costoro sono riformisti, non moderati. Semmai è la Dc che in questa città non ha messo davvero radici. È stata al governo, ma non ha mai espresso un sindaco. E anche il Pci a Milano è stato riformista. Anzi, ha dato vita a uno dei più importanti laboratori riformisti che si siano avuti in Italia, dimostrando di saper governare in modo pragmatico una grande città. Perché questo è il punto: se c’è un aspetto che distingue Milano, questo è il pragmatismo. Milano premia l’intraprendenza di chi sa fare. Se ne infischia delle ideologie. Per questo è immune dalla retorica del moderatismo: perché anche il moderatismo è un’ideologia, e una delle più insopportabili. Perché il moderatismo, democristiano o postdemocristiano, vive di trattative inconcludenti, di clientele, di nomine premio, di occupazione delle cariche. L’esatto opposto della politica concreta e fattiva amata da Milano.
Di più. Milano non ha mai avuto paura dei movimenti di rottura, di destra e di sinistra. Qui è nata la scapigliatura, è nato il futurismo, è nato persino il fascismo che, in origine, poteva essere visto appunto come un movimento anti ideologico. Negli anni Settanta del secolo scorso, Milano ha fatto da teatro anche ad altri due radicalismi: quello della sinistra extraparlamentare e quello ciellino. Sembra una contraddizione. Ma, al di là delle parole d’ordine, il primo esprimeva nel capoluogo lombardo una visione libertaria della vita consociata che era perfettamente in sintonia con il sentire di larghe fasce della popolazione milanese, colta e popolare. E il secondo, il movimento ciellino, coniugava il radicalismo religioso con un’intraprendenza culturale ed economica tutta meneghina.
Anche la Lega di Formentini, per un certo tempo, a Milano ha avuto presa non perché moderata, bensì perché prometteva di tagliare di netto – cioè in modo radicale – con lo snervante tiramolla della politica di palazzo Chigi. E, a una parte dei milanesi, persino Berlusconi, nel 1994, piaceva perché vi vedeva l’uomo pragmatico che disponeva della forza e dell’audacia necessarie per mandare a quel paese i politici della vecchia guardia e sostituire la politica delle ciance con la politica del fare. Un’illusione, certo. Un’illusione che abbiamo pagato a caro prezzo. Ma il sentimento degli elettori era sincero.
Sta di fatto che quella Lega e quel Berlusconi non esistono più, neppure nell’immaginario dell’elettorato milanese. Potranno pure prendere ancora tanti voti. Ma non rappresentano più da tempo né la novità né il pragmatismo ambrosiano. I dubbi espressi in questa città nei confronti dell’amministrazione Moratti e del governo Berlusconi non hanno nulla di ideologico. L’insoddisfazione è dettata soltanto dal confronto tra le speranze di rinnovamento sinceramente nutrite e le poche cose realizzate in questi anni.
Quanto a Giuliano Pisapia, non è certo un politico bravo a parlare. E tanto meno un trascinatore di folle. Anzi. Quando lo ascolti, ti trasmette una sensazione di basso profilo. Ma questo, per Milano, non è un difetto di sostanza. Si può essere oratori impacciati e bravi amministratori. Sapremo domani sera se ha saputo convincere o no. Quel che è certo è che questa città non ha nessuna preclusione nei confronti di chi viene da sinistra. L’importante è che sappia fare.
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