Nel suo fondo di sabato scorso sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco lamenta lo sfarinamento delle forze politiche esistenti. La novità è la disarticolazione in corso del Pdl, di cui lo strappo di Gianfranco Fini sarebbe stato solo l’inizio. La prova è che a esso ha fatto seguito tutto un fiorire di «raggruppamenti autonomi» o correnti e sottocorrenti su base personalistica: Scajola, Micciché, Matteoli, Alemanno... Il giudizio sullo schieramento di sinistra non è meno severo (quello «era già da tempo frantumato»), ma qui si parla anzitutto della destra.
Una tale diagnosi, fatta da un liberale abituato a riconoscere il primato dell’individuo sull’apparato di partito, suona abbastanza curiosa. Non credo che Panebianco abbia nostalgia del sistema dei partiti della prima Repubblica. Piuttosto egli sembra farsi interprete della delusione di chi, dopo la fine della guerra fredda, aveva sinceramente creduto che il nostro Paese potesse mettersi al passo con l’Occidente e avviarsi verso un bipolarismo virtuoso, almeno tendenzialmente bipartitico. La disintegrazione in corso del centrodestra ci farebbe invece ripiombare indietro, alla stagione di Mani Pulite. Perché? Perché «pone ipoteche pesanti sul futuro della democrazia italiana» e «ne compromette, nel medio termine, la governabilità»: al centro così come in periferia. In altri termini, espone chi governa ai ricatti incrociati delle sigle alleate e dei raggruppamenti interni.
Governabilità è forse la parola chiave che meglio sintetizza le preoccupazioni degli ultimi due decenni in Italia. In fondo, è per questo che, alla loro nascita, Pdl e Pd fecero man bassa di voti: perché, aiutati da una brutta legge elettorale, sembravano comunque contribuire a limitare la frammentazione. A cos’altro avrebbe dovuto servire il voto utile? Ma siamo al vecchio dilemma dell’uovo e della gallina. La governabilità è a rischio perché il sistema dei partiti si va sfarinando o il sistema dei partiti si sfarina perché manca una classe di governo intellettualmente attrezzata a fronteggiare i problemi?
Chi propende per la prima ipotesi vedrà nel processo disgregativo soltanto un vizio, addebitabile all’intenzione di pochi furbetti di assicurarsi una sopravvivenza elettorale. Chi propende per la seconda potrà scorgere in questo processo anche un’aspirazione meno gretta, volta a gettare (magari in modo confuso) i semi da cui potrà sorgere il nuovo sistema dei partiti della Terza Repubblica.
Ma la prima posizione, cui Panebianco pare aderire, ha un risvolto alquanto discutibile. Lascia intendere che la governabilità sia un valore in sé, indipendentemente dai risultati che è in grado o no di conseguire. Secondo questo punto di vista, un governo qualsivoglia, purché solido, è preferibile all’incertezza caotica del cambiamento. Ma questo non è un punto di vista liberale, è un punto di vista conservatore. La seconda posizione si espone ai rischi del caos. Ma, quanto meno, riconosce che c’è governabilità e governabilità. E che, per costruire un nuovo e migliore ordine, occorre in certe circostanze storiche attraversare il disordine. Mi sembra un punto di vista più in sintonia con una visione liberale della politica.
2 commenti:
Personalmente non l'ho mai sopportato, come non ho mai sopportato i "liberali per definizione".
Pensare che la stabilità politica sia un valore è, per come concepisco io il pensiero liberale, una bestemmia.
Il terrore (vedi rivoluzione francese) come metodo di continuo rinnovamento della classe dirigente non è forse l'iperbole di quanto i liberali fossero contrari all'oligarchizzazione della politica?
Pienamente d'accordo.
Posta un commento