È il 1968. Da paese prevalentemente agricolo, l’Italia si è trasformata da poco in paese prevalentemente industriale. Il processo di urbanizzazione e i fenomeni di migrazione che accompagnano l’avvento dell’industria stanno radicalmente cambiando gli ambienti della convivenza umana. In tale contesto, dove può radunarsi un gruppo di intraprendenti gattini per discutere del proprio avvenire? Facile! Nella cantina di un palazzone. Dove altrimenti? Questo almeno è quel che fanno i randagi in erba di Quarantaquattro gatti, la canzone scritta da Giuseppe Casarini e cantata da Barbara Ferigo, vincitrice della decima edizione dello Zecchino d’Oro (ideatore e conduttore: Cino Tortorella).
Il testo esibisce un chiaro intento didascalico, volto a rendere gradito ai bambini il rognoso studio delle tabelline. Non a caso il refrain del coro ripete una duplice operazione aritmetica, destinata a imprimersi nella memoria: Sei per sette quarantadue, / più due quarantaquattro! Ma il racconto evoca anche un altro tipo di calcolo, questo di tipo utilitaristico, che sfocia in una forma di moderno contrattualismo. In effetti, l’assemblea dei gattini, convocata per precisare la situazione, conclude che conviene rinunciare alla libertà del randagismo per garantirsi un bene maggiore: un pasto al giorno e, all’occasione, poter dormire sulle poltrone! Insomma, sopravvivenza e tranquillità.
Questo il patto che proporranno a tutti i bambini (evidentemente del palazzone o del quartiere), confidando su una predisposizione favorevole garantita da una verità presentata come incontrovertibile legge di natura: i bambini sono amici di tutti i gattini. La proposta è del resto equa. In cambio dell’ospitalità, i gattini si lasceranno tirare la coda e giocherelleranno con i loro padroncini quando e come costoro vorranno.
Il patto proposto non ha niente del contrattualismo sociale di Hobbes. Non solo non c’è una cessione di potere dai gattini ai bambini, ma non c’è neppure un passaggio dallo stato di natura alla condizione civile. Anche in assenza di un capo, i gattini sono infatti già una comunità: direi socialista, se non temessi di esagerare, comunque una comunità organizzata e disciplinata.
All’assemblea in cantina partecipano infatti compatti, ordinatamente in fila (per sei con il resto di due), coi baffi allineati e le code attorcigliate (in segno d’attenzione o forse, se mutualmente attorcigliate fra loro, in segno di solidarietà). E, alla fine della riunione, una volta definita la situazione, escono in giardino in plotone: ovvero, uniti, coesi, appagati della decisione presa, evidentemente all’unanimità (le code ora dritte dritte sono per l’appunto simbolo di questa determinazione soddisfatta). Probabile dunque che più che a Hobbes l’autore Casarini si sia ispirato alle trattazioni politico-sindacali di quella calda epoca.
Cosa risponderanno i bambini, a loro volta presentati come una comunità omogenea e indistinta? Il brano non lo specifica. In questa canzone, i gattini si riuniscono fra di loro, non si sono ancora recati in delegazione dai loro piccoli interlocutori. La storia rimane insomma aperta. Toccherà ai bambini del pubblico dell’Antoniano accettare o respingere la proposta. L’esito delle votazioni non lascia adito a dubbi: accordo siglato.
Un patto è al centro anche di un altro indimenticabile hit dello Zecchino d’oro: Volevo un gatto nero di Franco Maresca, Armando Soricillo e Framario, cantata da Vincenza Pastorelli. Anno: 1969. Qui a venire raccontato è però l’esito di una sfortunata trattazione bilaterale di indole economica condotta secondo modi primitivi di scambio, il baratto.
Una bambina e un bambino raggiungono un accordo. Lei vuole un gatto, e lo vuole di un colore specifico: nero. In cambio, a lui promette un improbabile tesoro di bellezze animali in un crescendo sempre più sfacciato: prima, un coccodrillo vero, un vero alligatore (e come se l’iterazione non fosse abbastanza convincente, per sottolineare le buone intenzioni aggiunge: ti ho detto che l’avevo e l’avrei dato a te); poi una giraffa, ma mica una comune giraffa di plastica o di stoffa (quella può procurarsela anche l’altra parte contraente o forse la possiede già), no, una in carne ed ossa; quindi, un elefante indiano con tutto il baldacchino, che la bimba assicura di avere nel giardino; infine, addirittura un intero zoo.
Non fiutando l’inganno, il piccolo allocco, convinto di trovarsi di fronte all’affare della sua vita (solo un gatto in cambio di uno zoo! e che diamine, quando mai gli capiterà di nuovo?), si sbatte per tener fede al patto, e consegna all’amica quanto richiesto. Ma, vuoi perché inesperto nel mercanteggiare vuoi perché il gatto nero non l’ha proprio trovato, non rispetta una clausola fondamentale: il colore.
Per il gatto nessun problema, non sarà costretto a cercarsi un’altra sistemazione: perché, insomma nero o bianco / il gatto me lo tengo / e non do niente a te, taglia corto l’astuta bimba. E scarica sul compagno di giochi la responsabilità di aver infranto il patto accusandolo con impertinente faccia tosta d’essere lui il bugiardo: i patti erano chiari, ripete, volevo un gatto nero, nero, nero, / mi hai dato un gatto bianco / ed io non ci sto più.
Possiamo immaginarci il piccolo affarista scornato che se ne torna a casa in lacrime. La canzone, tutta focalizzata sul punto di vista della rivale, non gli concede pietà. Qui c’è spazio solo per l’astuzia boccaccesca di questa simpatica canaglia. Alla faccia dei buoni sentimenti e dell’ipocrisia dell’Italia democristiana.
Rispetto a questi due fortunatissimi esempi di pedagogia politico-mercantile, le quattro quartine di La gatta del grande Gino Paoli suggeriscono una visione della modernità più intimista e maledetta, e forse anche per questo all’inizio il disco fu del tutto ignorato (soltanto in seguito divenne il successo che è ancora). Nel pieno del boom economico – siamo nel 1960! –, anche l’operaio vuole il figlio dottore (come recita un verso di un’altra famosa canzone, di pochi anni dopo). A questo pubblico Paoli propone invece l’idealizzazione della povertà dignitosa propria di una vita di bohème ormai avvolta nelle nebbie del passato ma polemicamente ricordata nei suoi valori positivi in contrapposizione al vuoto benessere del presente borghese.
Ad ammorbidire il messaggio provvede tuttavia la scrittura ispirata a un’iconografia alquanto oleografica e mélo. Nelle prime due strofe, il passato è proiettato in una dimensione fiabesca (c’era una volta...), appena scalfita dall’infrazione sintattica (la terza persona presente al posto della terza plurale che il duplice soggetto richiederebbe). A derivarne è un quadretto convenzionale immerso in un’atmosfera di comunione idilliaca. Certo, quella in cui abita l’io narrante è solo una vecchia soffitta. Ma il paesaggio (la prossimità del mare e del cielo blu), la vocazione artistica (se la chitarra suonavo), l’intimità del regno animale (la gatta generosamente pronta a fare le fusa) e la benevolenza degli astri (una stellina scendeva vicina / poi mi sorrideva e se ne tornava su) sono sufficienti a trasformare questa stamberga in un paradiso.
Nella terza strofa, l’incanto si infrange, e il quadro si fa avaro di dettagli. Alla ricchezza cromatica delle prime due quartine, si contrappone ora una scrittura laconica che sposta l’attenzione sul disagio intimo. L’io narrante dice solo che non abita più là, ora ha una casa bellissima, e in un accenno di misoginia aggiunge: bellissima come vuoi tu. Dunque, una condizione abitativa e un benessere che egli non ha scelto ma subisce. Colui che un tempo si percepiva come parte del cosmo, oggi si sente fuori posto nel suo agiato nido.
Inevitabile la conclusione della quarta strofa (che ripropone appena variati i simboli delle prime due: la gatta, la soffitta, il mare, la stellina): nei pensieri di un personaggio così bloccato può esserci spazio solo per la nostalgia, che allevia e insieme inasprisce il confronto con la condizione presente. E, forse, a renderlo ancor più conturbante provvede la simbologia sessuale sottesa all’amato animale: appena oltralpe, la chatte indica esplicitamente l’organo genitale femminile, e un amante della canzone d’autore francese come Paoli (che in seguito avrebbe tradotto Barrière, Aznavour, Brel e Ferré) doveva esserne di sicuro conscio. Del resto, i doppi sensi vivacizzano da sempre il linguaggio, della musica e della letteratura.
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