venerdì 29 ottobre 2010

Il Manifesto di ottobre: io sto con i congiurati


Ho letto e riletto più volte il Manifesto di ottobre - Per una rinascita della res publica e per un nuovo impegno politico-culturale, cercandovi le tracce di qualcosa di futurista, di incendiario, di bellicoso. Insomma, di eccitante. Non le ho trovate.
Se non in una frase, che vale però l’intero manifesto (a mio avviso, s’intende). Questa: «La politica rinasce nel punto in cui si incontrano immaginazioni diverse che congiurano per un nuovo patto politico.» Ecco, tale congiura delle immaginazioni, sì, è qualcosa che mi alletta, che mi restituisce (da sinistra) interesse per la politica e nella quale (sempre da sinistra) potrei impegnarmi. A condizione che il nuovo patto politico che dovrebbe nascerne sia intimamente instabile e si regga sulla protezione di un principio fondamentale: la positività del conflitto. Si può contestare tutto, tranne l’adozione di questo principio.

Perché è necessario esplicitarlo? Perché invocare un rinnovato riavvicinamento di politica e cultura, pur sorretto da buone intenzioni, è sempre pericoloso. Molto pericoloso. E il pericolo non solo è arcinoto, ha pure un nome. Si chiama tradimento dei chierici. Sarà anche vero che «politica e cultura crescono insieme o insieme declinano» e che «senza cielo politico non c’è cultura, ma soltanto erudizione e retorica». A esser sincero, non ne sarei così convinto. Ma non importa. Sta di fatto che quando gli uomini e le donne di cultura si occupano attivamente di politica corrono sempre il rischio di perdere di vista la loro missione, e di soccombere all’attrattiva della propaganda.
La storia del Novecento dalla quale i futuristi del Terzo Millennio aspirano meritatamente a prendere congedo è stracolma di esempi di questa sorta. Peggio. La storia di quel secolo breve che, a dispetto dei nostri funerei ritornelli, si ostina a non declinare abbonda di intellettuali che hanno giustificato o assecondato i peggiori crimini del totalitarismo, di un colore e dell’altro. Siamo certi che questo pervertimento della cultura non si ripeterà? Io no.
Il totalitarismo è una tentazione che sovrasta gli uomini e le donne di cultura più di chiunque altro. E il cielo della politica li rifornisce di alimenti appetitosi cui è difficile resistere. Non è forse una forma di totalitarismo questa militanza oltranzistica che non s’arresta neppure sulla soglia della camera da letto? Ah, che bel paradosso amare l’avanguardia e avere nostalgia di Liala che, quando i suoi personaggi si raccoglievano nell’intimità, chiudeva la porta!
E non è forse totalitarismo una politica che aspira a occupare tutto lo spazio mentale di noi elettori, fruitori di programmi televisivi, lettori distratti di quotidiani, frequentatori assidui dei forum on line e di quell’accogliente democraticissimo salotto che è Facebook, costringendoci a una perenne chiamata alle armi e vanificando, così, ogni tentativo di confronto razionale sulle questioni all’ordine del giorno?
Ben venga quindi la congiura: è l’unica forma praticabile di impegno politico consono alla cultura. Del resto, se gli animatori del futurismo del Terzo Millennio si sono conquistati la stima e la simpatia di molti di noi, schierati indifferentemente a destra o a sinistra, ciò è dovuto al fatto che costoro hanno dimostrato di fottersene delle convenzioni, degli opportunismi, dei tatticismi della politica. Quanto sarei felice se, poniamo, quelli di LibertàEguale facessero altrettanto nel nostro fronte!
Ma non basta. La congiura va portata a un livello superiore: quello dei concetti. Per esempio. Leggo nel Manifesto: «Il patriottismo repubblicano è la forma non retorica di questo sentimento [quello della passione che si ribella all’idea di una “politica senza un pensiero”] che è regola, prima che tradizione, impegno, prima che eredità.» E no. Questo patriottismo repubblicano può essere il punto di approdo non il punto di partenza di una piattaforma polipartisan (espressione di Franco Cardini).
La cultura contemporanea ha passato al tritacarne persino la nozione di Dio. Come potremmo pretendere che la medesima sorte sia risparmiata ai concetti della politica? Sono proprio quei concetti che al contrario dobbiamo sottoporre a una verifica radicale. Niente sconti. Nel tritacarne mettiamoci anche la patria, il patriottismo, la Repubblica, la democrazia, il socialismo, la tradizione, la Costituzione, il diritto... Mettiamoci anche il concetto che a tutti noi è più caro: il liberalismo. È proprio la passione, l’amore per questi concetti, che dovrebbe spingerci senza esitazioni a triturarli per vagliarne la consistenza, la vitalità, la durata.
Quello che resta, quello che il tritacarne della cultura avrà lasciato integro, lo proporremo alle attenzioni della politica. Solo così avremo assolto il nostro dovere di uomini di cultura e di appassionati della politica.
Però sarà opportuno tenere a mente anche un dato di fatto, ben evidenziato da Leo Strauss (la destra di oggi ama citare i grandi intellettuali della sinistra, nessuno si scandalizzerà se da sinistra cito un gigante del pensiero di destra): tra cultura e politica – lui sostiene tra filosofia e società – permarrà sempre un conflitto di fondo, perché la politica si regge su una fede condivisa in credenze condivise, mentre la cultura finirà sempre col mettere in dubbio ogni fede e ogni autorità.
Ciò significa che il riavvicinamento auspicato dal Manifesto è destinato a tradursi in una tensione senza fine. Al di là delle posizioni o dei pervertimenti dei singoli intellettuali, la passione della cultura non potrà mai fare proprie le fedi della politica, ma per parte sua la passione della politica non potrà mai lasciarsi destabilizzare dallo scetticismo con cui la cultura investe, volente o no, ogni aspetto del destino umano. Lo scontro non è evitabile.
Ed è chiaro che presto o tardi lo scetticismo della cultura – la congiura delle immaginazioni – investirà pure quella «politica generativa» di cui il Manifesto annuncia i natali, scaturita dalla consapevolezza che «la corruzione politica più grave non è quella di cui si occupano i tribunali» e che «la crisi è profonda perché come una vera ruggine l’agente corrosivo ha intaccato la consistenza strutturale della politica, la sua tenuta formale».

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