La convinzione che il progetto del Pd è fallito viene ormai espressa ad alta voce nello stesso partito democratico. Per evitare il de profundis, Sergio Chiamparino ha proposto una formula a effetto: «Bisogna uscire dal Pd per andare verso un nuovo Pd.» Non intende annunciare il passaggio a un’altra forza politica. Intende dire che bisogna demolire questo partito e ricostruirlo su altre basi.
La formula è efficace, ma lascia aperto un problema: a meno di sbarrare le porte agli ex-qualcosa che hanno fondato il Pd, in che modo si può evitare che i vizi della vecchia organizzazione entrino nella nuova? Per non spaccarsi, il vecchio Pd ha deciso di non prendere decisioni su nessuna delle priorità del paese, condannandosi alla vaghezza e alla confusione di cui danno prova la lettera e i discorsi di Bersani. La conseguenza negativa è duplice: il Pd si aliena la possibilità di avere una linea chiara, riconoscibile agli occhi degli elettori, e si spacca lo stesso. Perché nel nuovo Pd cui pensa Chiamparino le cose dovrebbero andare diversamente? Le forze e le idee in competizione fra loro saranno le stesse, altre non ce ne sono. Tanto vale allora che, se non vogliono creare una differente sigla (come ha scelto di fare un altro fondatore del Pd, Francesco Rutelli), i riformisti provino a condurre la loro (sacrosanta) battaglia con i mezzi che hanno già attualmente a disposizione, esercitando una critica anche durissima nei confronti della segreteria Bersani.
Ma quali sono le cause del fallimento? In un severo ma corretto articolo apparso sul Giornale, Vittorio Macioce riassume quella che, a parer di molti, anche a sinistra, è la causa delle cause: la sinistra, dice, «è morta soffocata dall’eterna disfida tra D’Alema e Veltroni». Sbaglia. Anzitutto perché non è morta la sinistra in generale. È morta la sinistra riformista, la sinistra di governo. L’altra, quella pura e dura, la sinistra d’opposizione, vivacchia come sempre, adattandosi a rosicchiare come i topi fra i rifiuti della Storia. In secondo luogo, sbaglia perché tutt’al più D’Alema e Veltroni sono stati i becchini della sinistra di governo, non i suoi assassini.
Le ragioni della sconfitta della sinistra riformista vanno ricercate più indietro, prima della nascita del Pd. E, a mio avviso, possono essere identificate in due errori commessi dal Pds di Achille Occhetto:
1) la precipitosa fuoriuscita nel 1993 dei ministri del Pds dal governo Ciampi, che impedì di saldare il riformismo di sinistra con il riformismo cattolico e, quindi, di porre un argine al successivo spostamento della maggioranza degli ex democristiani verso il partito di Berlusconi;
2) e l’adesione acritica all’ideologia di Mani Pulite in contrasto con i principi legalistici dello stesso riformismo di sinistra, che precluse il ricongiungimento con i socialisti (certamente reso difficile dalle reciproche manifestazioni di odio scambiatesi nei precedenti quindici anni, ma non per questo impossibile), e ciò pur sapendo che il Cavaliere non sarebbe neppure sceso in campo se di fronte a sé si fosse trovato un solido fronte di centrosinistra.
Questi due errori minarono alle fondamenta le possibilità di espansione della corrente riformista dell’ex PCI, peraltro già indebolita dalle sue divisioni interne. (Su questi temi, si veda il bel libro di Enrico Morando edito da Donzelli, Riformisti e comunisti? Dal Pci al Pd. I «miglioristi» nella politica italiana.)
Certo, all’interno del Pd, i riformisti continuano a levare la propria voce critica, cercando di porre all’ordine del giorno la necessità di una serie di interventi innovatori, di spirito liberale. Ma si scontrano con due forze molto agguerrite. La prima, oggi maggioritaria, è quella difensiva che dice no a tutto: no alla riforma dell’amministrazione pubblica, no al federalismo fiscale, no alla riforma della giustizia, no alla revisione della Costituzione, no al ritorno al nucleare... È una socialdemocrazia rimasta aggrappata a un concetto del lavoro e del welfare da tempo insostenibile. L’altra forza è quella, minoritaria nel Pd ma molto aggressiva e molto diffusa tra la base (come si diceva una volta), dei massimalisti che pensano che i fischi a Schifani erano meritati, che sotto sotto Bonanni se l’è cercata e che il senatore Pietro Ichino è un traditore da zittire.
Come può la minoranza riformista del Pd convivere e competere con queste forze? I propositi di Chiamparino, Cacciari, Morando sono nobili. Ma sono anche realistici? Il congresso di LibertàEguale che si tiene questo week end a Orvieto aiuterà a capire quali iniziative intendono prendere i riformisti di fronte alla deriva pre-ottantanovesca di Bersani. Ma li attende un percorso decisamente in salita.
2 commenti:
Hai scritto di gettO, caro Giuseppe? Si vede che ti vengono bene i pezzi scritti così. Questo è ottimo . L'analisi ,come immagini, la condivido al 99% : vado dicendo queste stesse cose da tempo. L'1 per cento che rimane riguarda la sorte del PD. Per me ormai non c'è più niente da fare: è destinato a scomparire.....
Onofrio, è probabile che su quell'1% abbia ragione tu.
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