Il Pd torna per bocca di Rosy Bindi a rilanciare l’idea del CLN: «Se Berlusconi e la Lega dovessero portare il Paese alle terze elezioni in sei anni», ha detto la presidente del partito democratico nel corso della trasmissione Iceberg di Telelombardia, «allora noi proporremo a Futuro e Libertà un’alleanza per la democrazia.» E ha aggiunto che anche l’Udc dovrebbe entrare nel nuovo Ulivo per «costruire un’alternativa di governo».
Queste affermazioni si scontrano tuttavia con i diversi obiettivi degli interlocutori. Pierferdinando Casini ha già chiarito, e lo ha ripetuto oggi pomeriggio a Repubblica, che «all’Udc il Nuovo Ulivo non interessa» e «in caso di elezioni a stretto giro di posta non potremmo che orientarci sul Terzo Polo». Quanto a Di Pietro, in un’intervista al settimanale Left, ha affermato: «Per noi non esiste nessuna possibilità di fare agglomerati con personaggi in cerca d’autore. Con Udc e finiani non ci possiamo alleare, e comunque Fini e Casini non staranno mai con il centrosinistra.» In serata, poi, sono arrivati i niet di Bocchino, Vendola, Fioroni, Marino, Claudio Fava e Paolo Ferrero.
Queste parole Bersani e i suoi le hanno lette come le leggiamo noi. Perché allora si ostinano a battere una strada non percorribile, già bocciata in partenza? Perché la strategia del Pd è puramente comunicativa. In sostanza, il Pd mira a trasmettere agli elettori la suggestiva persuasione che i suoi dirigenti stanno facendo ogni sforzo possibile e immaginabile per archiviare la stagione berlusconiana.
Sennonché la strategia adottata è un’arma a doppio taglio che finisce col danneggiare anzitutto proprio il partito di Bersani. In effetti, insistendo nell’andare a caccia di alleati improbabili, alternativi gli uni agli altri, il Pd riconosce di fatto la propria debolezza, e cioè la propria incapacità a conquistarsi consensi. È come se agli italiani dicesse: caro elettore, sappiamo di non essere in grado né da soli né col centrosinistra di spostare voti sufficienti per battere Berlusconi perché, nonostante le difficoltà che sta incontrando, gode comunque di un enorme consenso elettorale, troppo enorme perché noi possiamo giocare la nostra partita.
Per ironia della sorte, però, Bersani aveva annunciato poche settimane or sono che «tra settembre e ottobre il Partito democratico organizzerà la più grande mobilitazione porta a porta che un partito abbia mai promosso». Scopo? «Informare gli italiani dei danni che il governo Berlusconi ha prodotto in questi anni.» Ma questa iniziativa è in contrasto con la strategia comunicativa adottata. Che bisogno c’è di promuovere addirittura la più grande mobilitazione di tutti i tempi se si è convinti che comunque non si avrà mai la forza elettorale sufficiente per contrastare la vittoria al Cavaliere? Vuol dire confessare che il Pd neppure ci spera di convincere gli elettori.
Che cosa avrebbe dovuto o dovrebbe fare allora Bersani? La cosa più semplice e razionale, quella che tutti quanti ci aspettavamo da lui: telefonare a Nichi Vendola, incontrarlo e verificare se esiste una possibilità di intesa. Perché, piaccia o no (e, per essere chiari, a me non piace), oggi è Vendola a rappresentare le istanze e le speranze dell’elettorato che si colloca alla sinistra del Pd. Gli esperti di sondaggi lo danno sul 4-5 percento. È un bacino elettorale tutt’altro che trascurabile. Stop. Altro non serve, per quel che riguarda le alleanze.
È vero che in teoria Bersani potrebbe anche scegliere di mollare Vendola e Di Pietro, e puntare su un accordo al centro, almeno con Casini e Rutelli. Ma, appunto, mi sembra un’alternativa solo teorica, se non altro perché (ammessa e non concessa la disponibilità dei partner) l’elettorato non capirebbe una svolta tanto repentina, di cui si discetta nei salotti della politica ma che non è stata preparata dalla segreteria e tanto meno dibattuta nella fase congressuale.
Quante possibilità di successo ha una formazione a quattro punte composta da Pd, Italia dei valori, Radicali e SeL? Certo, non tantissime. Comunque più di quelle che avrà se il Pd continua nella sua assurda ossessione di spingere il centrosinistra verso uno spettacolare harakiri.
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