«Il Fatto Quotidiano» ha pubblicato sul suo sito un brutto video che ritrae un Piero Fassino che, come talora gli capita, perde la pazienza. Questa volta a ragione. Il fatto in pillole è questo: durante la manifestazione del 1° luglio contro il ddl intercettazioni, il dirigente del Pd ha uno scontro verbale con un gruppetto di sostenitori del movimento delle Agende Rosse. Si tratta di una ragazza di ventisei anni, un giovanotto con pizzetto e basettoni, e un’attempata ex girotondina. (http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/07/01/fassino-agende-rosse-polemica-durante-la-manifestazione/35192/) È un episodio marginale che un caporedattore assennato avrebbe cassato senza troppi complimenti. Invece, come ama fare, il quotidiano di Antonio Padellaro ci monta sopra una polemichetta estiva, che Salvatore Borsellino ha tentato di alimentare ulteriormente ergendosi a tutor della giovane.
Qual è l’accusa mossa all’ex segretario dei Ds? Dice Pizzo e Basettoni: «Fassino tutti i giorni sta in televisione e non avverte mai i cittadini che guardano il TG1 che Berlusconi non può dire qualcosa contro i magistrati perché lui ha corrotto i magistrati.» Si intromette la ragazzina, sbandierando la Costituzione come un tempo si sbandierava il libretto rosso di Mao: «I politici oggi devono ricominciare a trovare il rapporto con le persone.» Più perentoria la nostalgica dei girotondi: «In televisione loro devono dire quello che noi vogliamo che dicano. Invece purtroppo hanno perso il contatto con la realtà... Loro devono capirci, devono portare avanti quello che noi chiediamo.»
Se il primo capo di imputazione appartiene al rango dell’assurdo, gli altri entrano a pieno titolo nell’inventario dei luoghi comuni dell’irrazionalismo movimentista: spregiudicatamente postideologico, rigorosamente massimalista, sfacciatamente rancoroso, ostentatamente di sinistra, in realtà velleitario e perennemente inconsolabile. Fa bene Fassino a sbarazzarsi con un’alzata di spalle di questi sanculotti sempre alla ricerca di qualcuno da ghigliottinare? Se fosse “innocente”, sì, farebbe benissimo. Un partito riformista dialoga con un elettorato riformista, non perde tempo con chi, trastullandosi con ideali barricadieri, non gli darebbe comunque il proprio voto, perché per lui niente è mai abbastanza.
Ma Fassino e il suo partito non sono “innocenti”. L’ex segretario Ds prova a liquidare l’increscioso episodio dicendo «sono due ragazzi». Ma sa che non è così. Certo, il diverbio in questa occasione ha avuto grazie al cielo pochi duellanti. Ma Fassino sa che argomenti di questa specie – per quanto rozzi e irrazionali – sono largamente condivisi non solo da una parte consistente del démos, ma pure da ampie fasce degli stessi iscritti al Pd. Alcuni, nel suo partito, si sono conquistati uno scranno in Parlamento o uno sgabello nelle Federazioni provinciali sostenendo quegli stessi luoghi comuni o altri analoghi, e sono stati applauditi – molto applauditi – dalle convention democratiche, centrali o periferiche. Il Pd è un ircocervo che ha la testa riformista e le gambe massimaliste. Sarà bene prenderne atto prima o poi, e provare a ragionarci sopra, pena il fallimento dell’esperienza piddina, già alquanto compromessa dai perduranti errori tattici.
Ma qual è allora la vera colpa del Pd? Qual è il suo peccato originale? Secondo me, la demagogia. Intendiamoci. Il Pd è nato per iniziativa di un gruppetto di anime nobili che progettavano sinceramente di riunire i diversi riformismi italiani e aggregarli attorno alle parole d’ordine di un liberalismo progressista. Sennonché il riformismo in Italia è storicamente troppo fragile per dar vita a un partito di massa, e quelle anime nobili erano politicamente troppo deboli, troppo carenti di leadership, per imporre al nostro centrosinistra la cura draconiana di cui necessitava. (Altro che primarie! Serviva il polso di ferro per restituire un minimo di ordine alla vincibilissima armata della sinistra nostrana e imporle una qualche rotta non troppo ondeggiante.)
Il risultato è che il Pd, una volta archiviato il credo marxista, non ha neppure provato a ricostruire un progetto di egemonia politico-culturale, preferendo più pragmaticamente cercare di intercettare o inseguire gli alterni umori dell’opinione pubblica, cosa che lo ha portato spesso a prendere posizioni strumentali in contrasto con gli stessi principi retoricamente professati o con quanto detto e scritto dai suoi massimi dirigenti in sedi meno visibili agli occhi indiscreti dei media. (Un esempio? La giustizia).
Ma inseguire gli alterni umori dell’opinione pubblica non è una pratica pertinente alla democrazia, è una pratica pertinente alla demagogia (che è una degenerazione della democrazia). Di più. Inseguire gli alterni umori dell’opinione pubblica incoraggia la demagogia, la nutre, la arma, la irrobustisce. La girotondina che afferma «loro devono dire quello che noi vogliamo che dicano», «loro devono portare avanti quello che noi chiediamo», è pienamente giustificata dal comportamento dello stesso Pd. Da notare che quella frase è priva di contenuto. L’attempata signora non si prende neppure la briga di precisare che cosa loro dovrebbero dire. Non le interessa, non è quello il punto per lei. Afferma solo che loro devono dire quello che un ipotetico e onnicomprensivo noi vuole che dicano. Qualunque cosa sia. Qualunque contenuto contempli.
In questo senso, quella frase è molto emblematica della degenerazione della democrazia a sinistra. Ma è la rinuncia del Pd a essere classe dirigente ad autorizzare il démos ad avanzare qualunque pretesa e a chiedere che ogni pretesa sia rappresentata. La democrazia tuttavia non è questo. La democrazia non può prescindere da un’élite responsabile che si ponga l’obiettivo precisamente opposto: e cioè orientare l’opinione pubblica, persuadendola della bontà collettiva di certi scopi piuttosto che altri e chiedendole di sacrificare la rabbia del momento a favore di un bene maggiore e più reale. Senza élite la democrazia degenera sempre. Questo è un punto centrale di tutta la filosofia politica da Aristotele in su. Lo stesso movimento socialista si proponeva come élite preoccupata anzitutto di affermare una politica nazionale (e cioè una visione della storia), e non come puro e semplice rispecchiamento sindacale dell’universo proletario.
Anche il vertiginoso tasso di personalismi presente nel Pd è una conseguenza di questa rinuncia alla politica e alla democrazia. Ma è una scelta autolesionistica. Perché con la sua struttura barocca e pletorica il Pd non potrà mai intercettare gli umori meglio degli agili partiti del centrodestra. Su questo piano può al massimo vivacchiare, difendere il suo trenta percento scarso. Non sarà mai partito di governo.
2 commenti:
Bel post, in linea di massima sono d'accordo con te.
tuttavia i 20 anni di Berlusconi hanno creato anche questa conseguenza: il cavaliere ha legittimato - cioè reso legittimo e addirittura un valore - la capacità della politica di 'far credere', al di là dei fatti, ciò che vuole.
la politica - per lui - è "buona" esattamente se ottiene il proposito dell'elite nel senso da te specificato: orientare l'opinione pubblica persuadendo della bontà collettiva di certi scopi (es. aboliziobne delle intercettazioni) piuttosto che altri.
E, a farla, quel tipo di politica, berlusconi è più bravo degli altri.
Non mi stupisce se, conseguentemente, si rigetta la "classe" e non il "il singolo predicato". Critichiamo la politica come elìte, perchè chi sa farla al meglio ha dimostrato che può essere pericolosissima, al giorno d'oggi.
i tre in piazza fanno questo errore, ma perdoniamoli: in fondo, toccato un estremo, per spostarci dobbiamo immaginare necessariamente di andare verso l'altro.
O no?
antonio
Carissimo Antonio,
grazie per gli apprezzamenti. Certamente hai ragione: il (quasi) ventennio berlusconiano ha prodotto anche questo, ha gravemente danneggiato le basi della politica, mischiando autoritarismo e plebiscitarismo televisivo. E la sinistra ne ha in gran parte subito l'iniziativa, finendo con l'avvalorarlo anche quando lo contesta.
Il punto principale però è quello che hai toccato in fondo al commento. Sì, per spostarci dobbiamo immaginare necessariamente di andare verso l'altro (estremo). Qualcosa di simile la ripetevano gli amici del PD agli inizi della loro avventura. Ma che cos'è questo "altro"? Che caratteristiche ha? E' semplicemente l'opposto dell'estremo che non abbiamo trovato funzionante? Ma questa non è né una garanzia di efficacia né una garanzia di progresso! L'altro estremo può essere uguale o peggio di quello a cui ci opponiamo.
Oppure ci attrae l'indefinito, il vago, ciò che non c'è ancora e per questo ci appare carico di promesse? Io, per conservare la terminologia aristotelica che hai usato tu, credo che una sinistra seria farebbe bene a dare al suo "altro" qualche predicato.
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