Domenica 11 aprile, il mio micio Nicky è caduto dalla finestra, riportando una brutta frattura multipla alla zampa posteriore sinistra: tibia e fibula. L’incidente è avvenuto attorno alle 11,30, non so come, non l’ho visto: stavo parlando al telefono. Devo ringraziare una vicina per avermi avvertito. Altrimenti sarebbe rimasto da solo in cortile finché, non sentendolo (è un chiacchierone instancabile), non mi fossi preoccupato.
Appena verificate le sue condizioni, l’ho portato alla clinica veterinaria San Siro, in via Lampugnano, a Milano, dove è stato preso in cura da un gruppo di dottoresse. Vi lavorano anche maschi. Ma a occuparsi di lui sono state solo donne. E una donna è anche l’ortopedica che, martedì pomeriggio, lo ha operato: la dottoressa Liliana Carnevale. Ne faccio il nome, perché il merito va sempre riconosciuto. E perché mi piace esprimerle pure qui la mia riconoscenza.
Ma Nicky non era nelle condizioni migliori per apprezzare le cure femminili. In altre occasioni, gli sarebbe piaciuta la loro compagnia, è un monello molto socievole, narcisista sino all’inverosimile, ama stare al centro dell’attenzione. Anche la vicinanza dei cagnetti in genere non lo disturba (ce n’era uno, operato da poco, che faceva tenerezza). Anzi, lo incuriosiscono e ci gioca volentieri, purché non abbaino e purché cedano a lui la leadership. Ma in clinica...
Lo spavento era troppo forte. E, poi, non è mai a suo agio fuori casa, se non ci sono anch’io. Così, per cinque giorni non ha mangiato. Nulla. Neppure la sua pappa preferita – tonnetto e spigola –, che gli ho portato io (sono andato a trovarlo tutti i giorni). Se ne stava in silenzio, accucciato in un angolo della sua celletta. Attaccato alla cannula della flebo. Non miagolava, non si lasciava toccare. Per queste ragioni, è stato dimesso in anticipo, giovedì sera.
La prima notte a casa, stordito dagli antibiotici, l’ha passata nel gabbiotto che gli ho noleggiato su raccomandazione della dottoressa Carnevale, perché deve restare a riposo e non poggiare sulla gamba operata. Il giorno dopo ha voluto girare per l’appartamento a controllare che tutto fosse come prima. Ci ha impiegato parecchio, perché per il momento cammina su tre zampe e si stanca. L’ho lasciato fare (standogli comunque sempre accanto), perché ho intuito la sua preoccupazione. Una volta sinceratosi che nessuno gli aveva spostato le sue cose e che niente era cambiato, è tornato sereno a riposare.
Ma non nel gabbiotto. Lì non c’è verso di farlo stare. Anzi si agita, ed è peggio. Sopra, sì: ci sta volentieri (la nonna gli ha messo una coperta sul tettuccio). Dentro no. È abituato a dormire sul letto, ed è quello il luogo che ha scelto per la sua convalescenza. Ho preferito non forzarlo. Non vorrei che nel gabbiotto, dannandosi per trovare una via di fuga, si faccia male. Solo quando in casa non c’è nessuno che possa controllarlo nelle sue escursioni lo rimetto dentro.
In ogni caso, ha recuperato umore e voglia di mangiare. E questo per il momento è quel che più conta. A volte, sembra addirittura dimenticarsi di essere invalido, e poggia la gambina più di quanto dovrebbe o addirittura accenna uno scatto. In questi casi, lo prendo in braccio, per fargli passare la nostalgia dell’avventura (è una nostalgia che conosco bene, e posso capirlo). Lo lascio comunque sperimentare. In fondo, sa ascoltare il suo corpo meglio di quanto io sappia fare con il mio. È nella sua natura. Mi limito ad assicurargli un ambiente sicuro. Quindi, porte chiuse nelle stanze dove c’è un tavolo.
Nondimeno, di notte, i primi giorni avevo timore che potesse fare un passo falso. I mici sono tali testoni! Non sai mai cosa gli passa per la testa! (Curiosity killed the cat, recita un proverbio americano.) Ma, non potendo andare a caccia come gli piace, viene a stendersi accanto a me, sotto le coperte, con la testa sul mio braccio. Si rassicura lui, e mi rassicuro pure io. Quando non lo sento, mi sveglio. Sto ad ascoltare se per caso non sia in bagno, e in tal caso aspetto che torni. Altrimenti lo vado a cercare.
L’incidente, d’altronde, mi ha procurato un grosso senso di colpa. Tutto questo non sarebbe successo se avessi chiuso la finestra. È pur vero tuttavia che so quale spasso è per lui salire sul davanzale e da lì saltare sul balcone della cucina. È giusto togliergli una tale soddisfazione? Anch’io per il piacere mi prendo qualche rischio. Perché lui non dovrebbe? Perché non avrebbe diritto a divertirsi?
Lo lascerò fare quando sarà tornato a trotterellare come prima? Non lo so. Non riesco a cacciare dagli occhi il suo sguardo quando l’ho portato in clinica. Era lo sguardo supplichevole di chi chiede aiuto e protezione. E io mi sentivo impotente. Non potevo fare nulla per aiutarlo. Se non lasciarlo lì dove non voleva restare, fra le mani esperte di quelle dottoresse (ho visto con quale sicurezza lo sapevano trattare) che, pure, per lui erano soltanto figure estranee.
Mi è rimasto dentro quello sguardo perché vi si poteva leggere qualcosa di universale. Ha ragione Umberto Saba: «il dolore è eterno, ha una voce e non varia.» Ed era dolore fisico e angoscia: cos’avrà pensato quando l’ho salutato e sono andato via? Ha temuto che non tornassi più? Si è chiesto se per caso non gli volessi più bene?
Ma lui e io apparteniamo a un mondo privilegiato. Nicky ha avuto cure che meno di mezzo secolo fa gli uomini se le sarebbero sognate, e ancora oggi sono precluse alla maggioranza degli abitanti del nostro pianeta. Questo lui non lo saprà mai. Io sì... Certo, cambiare il mondo non è uno scopo alla mia portata, e neppure alla portata dell’Occidente o della politica o delle masse o dei social forum o dei no global. Per quel che mi riguarda, non ho neppure una preghiera da donare a chi ha avuto la sfortuna di nascere nell’emisfero sbagliato... Però, non posso impedire al pensiero di interrogarsi sulle contraddizioni della giustizia...
E neppure di porsi un altro problema di carattere sociologico-culturale. L’applicazione delle più moderne tecniche medico-chirurgiche alla veterinaria è senz’altro conseguenza del mercato. La chirurgia veterinaria ha potuto svilupparsi perché vi è una domanda, e cioè una disponibilità da parte dei proprietari di animali domestici a spendere per i loro piccoli cari.
Questo mercato tuttavia è a sua volta conseguenza del cambiamento intervenuto nei rapporti che abbiamo con i nostri animali domestici. Gli uomini hanno sempre vissuto insieme agli animali, hanno sempre diviso gli spazi con loro. Ma, nelle società rurali, gli animali occupavano i nostri stessi spazi perché utili, e cioè perché fonte di sostentamento o compagni di lavoro. Nella civiltà postborghese, gli animali vivono insieme a noi perché appartengono alla famiglia, cioè per ragioni affettive.
Tale ampliamento della dimensione affettiva è certamente un fatto positivo, molto positivo. O, meglio, sarebbe un fatto positivo se non fosse che tale fenomeno si inserisce in una cornice alquanto preoccupante, caratterizzata dal progressivo disfacimento di quell’educazione sentimentale che è stata il fattore distintivo della civiltà borghese alle sue origini (il romanzo ottocentesco deve a questo tema la sua fortuna).
L’indipendenza della nazione non è nulla se non si accompagna all’indipendenza del singolo, economica e affettiva. Questa era la convinzione alla base della cultura illuministico-democratica. L’autonomia nazionale è un valore solo in quanto avvantaggia l’autonomia degli individui che compongono la nazione, ossia in quanto offre loro gli strumenti per decidere di se stessi e progettare il proprio futuro.
Lavoro e amore sono i due principali fattori di stimolo alla maturazione individuale del romanzo d’iniziazione sette-ottocentesco. Si diventa adulti (ossia economicamente indipendenti) guadagnandosi da vivere con la fatica del lavoro e si diventa adulti (ossia interiormente maturi) imparando a disciplinare gli alterni sentimenti che proviamo nel rapporto sempre problematico con la persona amata.
La coscienza borghese sette-ottocentesca sapeva molto bene che tali sentimenti possono sfociare in esiti distruttivi (per rendersene conto basta riascoltarsi il Don Giovanni di Mozart). Proprio per questo avverte la necessità di un’educazione sentimentale che trasformi la passione amorosa in qualcosa di più fertile e duraturo. Il senso moderno della famiglia nasce da questi presupposti (indipendentemente dalle ragioni religiose, che può avere o non avere), e si contrappone tanto alla casata nobiliare quanto alla famiglia rurale, l’una e l’altra soffocate dalla convinzione che il singolo debba attenersi a una morale superiore a lui (due esempi: Piccolo mondo antico nel primo caso e Padre padrone nel secondo).
Nella società postborghese dominata dalla Tecnica – quindi da una percezione frammentaria del tempo: un presente continuo continuamente oltrepassato –, sarebbe probabilmente assurdo pretendere che gli individui possano confidare in qualche forma di autodisciplina e di educazione. Ci si può proiettare verso il futuro solo se il futuro è percepito come prevedibile, cioè non troppo diverso dalla realtà attuale. Non si investe al buio. Neppure nel campo degli affetti. A meno che... A meno che l’apparenza non ci inganni, e non ci faccia scambiare per cambiamento quel che in realtà è l’eterno ritorno dell’eguale...
Mi rendo conto di essermi allontanato parecchio dall’argomento iniziale. Anche se un collegamento c’è. Mi fermo qui, su questi temi del resto scrivo di continuo, sono i miei temi, quelli che considero fondamentali e che mi guidano persino quando mi avventuro nella nostra stanca e stancante cronaca politica.
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