Non so dove trovassimo il tempo. Sta di fatto che negli anni Settanta, al liceo, gli scrittori contemporanei non solo li leggevamo, ma addirittura li commentavamo in classe e li portavamo all’esame di maturità. I nomi sono quelli entrati a far parte del canone del Novecento: Svevo, Moravia, Gadda, Elsa Morante, Pasolini, Calvino, Sciascia... E poi Thomas Mann, Musil, Bulgakov, Camus, Sartre, Céline, Kerouac, eccetera, eccetera.
La novità era duplice. Erano autori contemporanei (alcuni viventi) e, soprattutto, erano romanzieri. Credo sia difficile cogliere la portata innovativa di questo secondo aspetto, oggi che la civiltà del romanzo si è definitivamente acclimatata anche da noi. La gerarchia dei generi che ha dominato per secoli la nostra tradizione letteraria è stata ribaltata negli ultimi decenni. Ma sino a poco tempo addietro era la poesia a detenere il primato assoluto dei generi. Né la neoavanguardia lo aveva messo in discussione. Anzi, nonostante il duro colpo inferto alla lirica – abbandonata a favore delle sperimentazioni poematiche o visive o astratte –, lo aveva ulteriormente rinforzato ponendo il massimo dell’attenzione sugli aspetti di linguaggio e affidando alla poesia una missione addirittura eversiva.
Poco dovrebbe stupire invece il carattere internazionale delle letture sopra menzionate. Il cosmopolitismo, in effetti, è una peculiarità congenita alla letteratura italiana e all’educazione umanistica in Italia. Lo abbiamo nel nostro DNA. Semmai il nostro difetto è quello opposto: la scarsa disponibilità a rappresentare in termini estetici il destino collettivo della nazione.
L’ingresso della contemporaneità e del genere romanzo nei licei – ossia nelle sedi deputate a trasmettere la cultura classica – fu senz’altro uno degli effetti positivi del movimento sessantottesco, che pure per altri aspetti lasciò un’eredità pesante, spesso nefasta per la scuola. Oggi lo possiamo dire anche da sinistra. Il ’68 tuttavia contribuì anche ad altri due risultati largamente positivi: la costituzione delle prime cattedre di storia della letteratura italiana moderna e contemporanea nelle facoltà di lettere e la riapertura, da parte degli scrittori, del dialogo con il pubblico che era stato interrotto dalle sperimentazioni neoavanguardistiche.
Non ricordo perché scelsi di iscrivermi a lettere (mi sarebbe piaciuto anche studiare matematica o fisica). Ma, una volta presa la decisione, fu naturale per me seguire le lezioni di Vittorio Spinazzola, docente alla Statale di Milano appunto di letteratura italiana contemporanea. Era quella la direzione verso cui mi spingevano le letture fatte al liceo e gli amori letterari che ne erano nati. D’altronde, Spinazzola era un critico militante che conoscevo da tempo per i succosi articoli che andava pubblicando su «l’Unità». E senz’altro questa sintonia politica ha concorso a farmi decidere, praticamente fin da subito, di laurearmi con lui.
Ciò che non potevo immaginare è che Spinazzola mi avrebbe spalancato le porte di un mondo nuovo e mi avrebbe fornito gli strumenti per esplorarlo. Questa è la virtù dei grandi maestri, e lui lo è stato per una generazione e oltre di studenti (le tracce della sua impronta sono reperibili in tutto ciò che scrivono i suoi allievi). I testi già letti o scoperti per la prima volta nei suoi corsi – Gramsci, Dossi, Gadda, Arbasino, Pasolini... – acquistavano, attraverso le parole di questo grande intellettuale, una limpidezza nuova: non ponevano resistenza allo sguardo critico, si svelavano docilmente nei loro aspetti costitutivi. E, soprattutto, lasciavano trasparire il reticolo di rapporti che li legavano al nostro destino, alla vita del Paese.
Perché questa è l’originalità di Spinazzola. Da un lato, egli non esita ad appropriarsi dei molteplici utensili di analisi testuale approntati dalle differenti scuole della critica novecentesca, inclini a concentrare l’interesse sui materiali compositivi e sulla loro disposizione strutturale. Dall’altro lato, ripropone in forme personali e aggiornate quell’interesse per la storia che gli deriva dalla linea De Sanctis-Gramsci e dalla frequentazione di un marxismo lucidamente interpretato, senza nessuna concessione alle derive deterministiche che hanno gravato su gran parte della critica di sinistra.
Ma, soprattutto, l’interesse prevalente per il romanzo ha portato Spinazzola ad approfondire il rapporto che un testo intrattiene costitutivamente con il pubblico L’avverbio è importante: costitutivamente. Vuol dire che quello che un testo stabilisce con i suoi destinatari reali non è un rapporto accidentale, che può sussistere o meno. No, è un rapporto imprescindibile, necessario. Detto molto semplicemente, non c’è letteratura senza un pubblico che riconosca una qualità letteraria al testo che ha sotto gli occhi. Persino il maggiore dei capolavori è destinato a restare nell’oblio in assenza di un lettore che ne colga le peculiarità di eccellenza estetica.
Da questo ampliamento dell’orizzonte critico che studia il testo in chiave funzionalistica considerandone i destinatari nascono i volumi teorici di Spinazzola, nonché alcuni splendidi saggi monografici che riesaminano in una luce inedita i giganti del nostro passato recente: Manzoni, Verga, De Roberto, Pirandello... Da qui derivano anche due annuari realizzati in collaborazione con i discepoli e provocatoriamente intitolati Pubblico e Tirature (di quest’ultimo cade quest’anno il ventennale).
Questo uomo mite e intellettualmente rigorosissimo, d’altronde, ha sempre avuto il gusto della provocazione intellettuale. È stato uno dei primi a prendere in esame senza pregiudizi quei prodotti della fantasia creatrice che l’accademia snobbava: il cinema, il fumetto, i generi della narrativa di consumo e addirittura quelli della letteratura marginale, pornografia compresa. Tutti prodotti che i custodi del gusto liquidavano come letteratura spazzatura.
Una cosa però va precisata. Spinazzola si è sempre ben guardato dal confondere i valori letterari. Neppure si sognerebbe di collocare sullo stesso piano, poniamo, il Pasticciaccio di Gadda e i romanzi di Camilleri. Questo non gli ha impedito di chiedersi perché fra i moltissimi polizieschi pubblicati ogni anno quelli del gran vecchio siciliano vendono migliaia di copie e quelli dei suoi concorrenti no. Che cosa posseggono che gli altri non hanno?
Per rispondere seriamente a questa domanda – e cioè accantonando le risposte preconfezionate –, non abbiamo che un modo: prendere in mano i testi e sottoporli al vaglio critico, impiegando gli stessi strumenti che utilizziamo per le opere degli autori più blasonati e graditi alla comunità dei lettori di professione.
Qual è dunque il senso della lezione lasciataci da questo grande dell’intellettualità italiana? Io la riassumerei in due punti. Primo: Spinazzola ci offre l’esempio di un umanesimo autentico, che non rinuncia alle sue prerogative (il rigore dell’analisi, l’importanza del linguaggio...), ma neppure si ritrae di fronte ai fenomeni della modernità, che anzi si sforza di comprendere senza tentazioni consolatorie. Secondo: Spinazzola ci permette di cogliere le potenzialità positive di una democrazia culturale che in Italia continua a essere molto gracile, almeno quanto la democrazia politica, ma che nondimeno è uscita dalle sacche dell’aristrocraticismo più baldanzoso.
Qui sta anche il motivo di maggiore interesse pubblico della sua ricerca. Spinazzola è stato un validissimo polemista. Ma tutti i suoi testi, non solo quelli militanti, sono percorsi da una robusta tensione politica. Tuttavia tale tensione non si esprime nel giudizio ideologico, bensì nell’esercizio di un’intelligenza critica posta al servizio di un ampliamento della civiltà culturale e cioè della democrazia in Italia.
4 commenti:
I miei complimenti, davvero un bel post (e lo dico perché l'ho letto, non per simpatia).
Sono una studentessa di Lettere alla Statale di Milano e il corso di Letteratura Italiana Contemporanea l'ho seguito con uno dei discepoli del professor Spinazzola ovvero il professor Bruno Pischedda. Il suo programma d'esame prevedeva l'inclusione di tre saggi del suo "maestro" (Le istituzioni della modernità, La fatica di leggere e un'introduzione al Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi).
L'intento che sono riuscita a desumere dal corso - che ho seguito con molto molto piacere - era proprio quello che Lei descrive nel sesto capoverso: testi conosciuti che acquisivano una nuova limpidezza.
A parte questo, spero che qualche altro studente come me possa concordare con ciò che ha scritto e ciò che ho imparato. Una grande lezione, pur non avendo avuto modo di conoscere il signor Spinazzola.
Saluti,
Lavinia.
Leggo ora questo post e ritrovo, espresse con chiarezza, le ragioni della mia profonda stima per il professor Spinazzola con cui mi sono laureata nell'ormai lontano 1995. Il suo insegnamento mi ha permesso di accostarmi alla letteratura con un libero atteggiamento critico.
Saluti. Antonella.
Dei saggi del professor Spinazzola non si capisce un cazzo. Sembra che scriva direttamente dalla metà dell'800 e che i termini comuni siano da reprimere. La sua finalità non é comunicativa, divulgativa o illustrativa, ma solo di vanto. O é una finalità oscura, lontana dall'insegnare qualcosa di diretto al lettore. Spinazzola é il re di tutti gli autori dalla scrittura incomprensibile che aiutano i giovani italiani a disprezzare la loro lingua. La morte della comunicazione e il trionfo di un nuovo linguaggio di casta, l'accademismo (che é anche una religione) avrà loro come arterici, schifosi intellettuali che non si mischiano nella volgar lingua ma che puntano a tutti i costi di riportare i poveri a non capire il loro stesso italiano, come fosse latino. La mia speranza é che a lui come a tutti venga un dolorosissimo crampo alla mano.
Conosco Vittorio Spinazzola per il testo "Il libro per tutti. Saggio su I Promessi Sposi", del 1983. Io ho trovato, ed ora trovo di nuovo, nel momento in cui rivisito il testo per un mio aggiornamento, che il suo linguaggio è chiarissimo e limpido.
Francesco Di Ciaccia
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