Era il 2005, e in una conversazione sul capitalismo italiano con Alessandro Profumo, amministratore delegato di UniCredit, Massimo D’Alema confidò che una volta Tony Blair gli aveva detto: «Voi siete sfortunati, perché vi tocca fare anche il lavoro della Thatcher. Noi, invece, tutto sommato siamo tornati al governo in un paese dove la destra aveva fatto il suo mestiere in modo persino eccessivo *.»
La sentenza di Blair suona ironica alle orecchie di chi ricorda l’appellativo affibbiatogli dallo storico Eric Hobsbawm: una Margaret Thatcher in pantaloni. Come dire, neppure l’allora inquilino di Downing Street era stato risparmiato dalla «sfortuna». Ma tant’è. La diagnosi, che evidentemente sarà stata pronunciata anni prima (ai tempi del primo governo Prodi o dei due governi D’Alema), non era peregrina. E forse può contribuire ancor oggi a illuminare le ragioni storiche che, al di là dei grossolani errori umani, hanno portato all’irrilevanza della sinistra e al probabile collasso della seconda Repubblica.
Proviamo a farla nostra. Premessa di quella diagnosi è che la destra italiana non ha fatto (e non fa) il suo «mestiere»: ripulire il paese con il necessario pugno di ferro dai mali incancreniti da tempo che ne arrestano lo sviluppo e il dinamismo politico-economico. Quali sono questi mali? Un apparato statale pletorico e parassitario tanto al centro quanto alla periferia che, per dirne una (la minore) a esemplificazione simbolica, spende soltanto in auto blu oltre quattro miliardi di euro l’anno (dati del ministero della Pubblica amministrazione); e un’asfittica presenza nei punti nevralgici dei processi decisionali di tante grandi e piccole lobby che premono sui governi e sugli enti locali per difendere i propri interessi: le lobby dei produttori del latte, delle telecomunicazioni, delle banche, delle assicurazioni, dei piloti dell’aeronautica, dei magistrati, dei giornalisti, e chi più ne ha più ne metta.
Poi, ci sono gli altri mali: un capitalismo affaristico sprovvisto di senso della nazione, un sindacalismo corporativo che s’oppone a qualsiasi innovazione, un sistema fiscale punitivo e rapace, un sistema scolastico e universitario senza eccellenze, eccetera, eccetera. Ma i genitori del vizio – i mali dei mali –, li vedo nei due cancri sopra menzionati. E per asportarli non basta una politica riformistica, occorre una rivoluzione liberale.
Secondo la sentenza blairiana, la rivoluzione liberale non è «mestiere» della sinistra. Certo, di fronte al gran rifiuto della destra italiana, la sinistra non può tirarsi indietro, le tocca fare il lavoro sporco. Ma questa è una «sfortuna». Evidentemente, perché lo farà male, alternando titubanze, nevrotici slanci in avanti e repentini ripensamenti: ne sa qualcosa il mite Pierluigi Bersani, che da ministro per lo Sviluppo azzardò qualche microliberalizzazione per fare marcia indietro davanti alle proteste delle associazioni dei tassisti. In secondo luogo, è una «sfortuna» perché, facendo un mestiere non suo, la sinistra finisce col confondere il suo elettorato, spingendolo verso le posizioni massimaliste di Di Pietro, senza peraltro riuscire a convincere quello moderato che continua a cercare i suoi rappresentanti politici elettivi in altre forze.
Ma perché la destra italiana non ha svolto il compito che la storia le ha affidato? In realtà, nel 1994 le condizioni per una rivoluzione liberale c’erano, eccome: la «vecchia politica» cui Berlusconi imputa tutte le colpe dell’arretratezza italiana era in dissesto, impossibilitata a opporre resistenze efficaci. L’aveva spazzata via, prima di Mani Pulite, il crollo del muro di Berlino che aveva vanificato non solo il movimento comunista ma pure le forze ormai obsolete che al comunismo s’erano opposte.
Allora il Cavaliere non riuscì a cogliere l’occasione favorevole perché non ebbe neppure il tempo di apprendere i ferri del mestiere che fu spedito all’opposizione da Bossi. Però i panni della Thatcher non li indossò neppure nel 2001. Anche perché l’impresa si era già fatta più ardua: la «vecchia politica» si era ormai riorganizzata, il premier aveva da pensare ai suoi guai giudiziari e i suoi alleati remavano in altre direzioni, il Fini di allora e ancor più Casini erano eredi di una visione statalistica della politica, e a Bossi interessava e interessa solo il federalismo. Ma forse c’è anche una spiegazione più semplice del perché, nonostante gli elogi profusi alla Lady di Ferro, egli non se la sia sentita di emularne l’opera. Il fatto è che Berlusconi non è di destra.
Sarà un populista, un demagogo, un sultano, un alieno, un trafficone, un tycoon insofferente alle leggi. Però non è quello che noi chiamiamo destra. E, difatti, in Italia non abbiamo avuto neppure la forma del thatcherismo: la tanto temuta democrazia autoritaria, il pugno di ferro. Ma dove? Abbiamo avuto semmai una mollezza da tardo impero, ravvivata da periodiche quanto inconcludenti esibizioni di muscoli: un premier che certo sbraita quando avverte che è in pericolo la sua sopravvivenza ma che, per lo più, si sbraccia per piacere a tutti, per farsi «amare», e per questo le spara grosse (il milione di posti di lavoro) oppure annuncia faraoniche opere pubbliche di cui poi si dimentica (il ponte sullo Stretto), comunque si dimostra accomodante anche quando non deve (con Alitalia, ma pure col Vaticano: sulle staminali, sul testamento biologico...). Un premier che, come da manuale, sogna di passare alla storia da grande statista e perciò si mette a studiare le grandi riforme (il taglio delle tasse, l’abolizione delle Province, la riduzione del numero dei parlamentari, la correzione del bicameralismo perfetto), e forse ci crede davvero, tuttavia le lascia tranquillamente a metà, quando addirittura non le fa cadere nell’oblio.
Dunque? Chi farà la rivoluzione liberale? A breve, probabilmente nessuno. Una Thatcher italiana non la vedremo né se il governo Berlusconi resterà in sella né se andremo al voto. Avremo invece un liberalismo morbido o morbidissimo, a seconda del timoniere, che si farà promotore di un pacchetto di riforme da attuare molto gradualmente per aggiustare qualche difetto. Ma i problemi strutturali dello Stivale non verranno toccati. Finché questi saranno gli uomini e le forze, la rivoluzione liberale non è nel nostro orizzonte.
Di conseguenza, non avremo neppure un Blair italiano in grado di mietere i frutti del lavoro sporco fatto dai predecessori. Per molto tempo, dovremo accontentarci di una sinistra strabica che fa melina in difesa e ogni tanto schizza in contropiede nell’area di rigore avversaria. E di un’altra sinistra nuda e cruda che dagli spalti lancia improperi e oggetti all’indirizzo dei giocatori e dell’arbitro minacciando un’invasione di campo che non avverrà mai.
* La conversazione, raccolta da Massimo Giannini, è apparsa su «ItalianiEuropei»
e disponibile sul sito dell’ex ministro degli esteri: Dialogo sul capitalismo italiano
e disponibile sul sito dell’ex ministro degli esteri: Dialogo sul capitalismo italiano
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