di Susanna Janina Baumgartner
L’installazione Paradiso di Romeo Castellucci (Socìetas Raffaello Sanzio), presentata al Teatro Versace di Milano nel corso della rassegna Uovo Performing Arts Festival, mi richiama subito alla memoria un lavoro di Anish Kapoor per il buco nero alla parete bianca che appare come una soglia invitante e terrificante al tempo stesso. Una soglia che si può varcare solo con il pensiero quella di Kapoor, mentre qui si ha la possibilità di andare al di là, immergersi nell’oscurità. Non è una soglia silenziosa, si sente scrosciare dell’acqua e bisogna superare la paura di questa ignota parete di acqua che potrebbe violentemente accoglierci al di là del buio avvolgente. Il passato della nostra anima è un’acqua profonda e tumultuosa? La metafora della profondità fra buio e acqua sembra scontata e fa sorridere l’idea di varcare una soglia che ci appare già conosciuta, già presente ai nostri occhi.
Ma Romeo Castellucci avverte con uno scritto che cerca una completa presenza, mai una lettura o un commento al pre-esistente. Bisogna essere Dante, assumere il suo atteggiamento come all’inizio di un viaggio nell’ignoto, assumersi questa responsabilità, questa totale esposizione al ridicolo. Quindi provare a perdersi in questa oscurità e fare un’opera?
Perché no? Vero che essere spettatori tutto il giorno è già una condanna infernale, allora immergiamoci nell’oscurità senza la pretesa di vedere, senza paura e pregiudizi. Un po’ di fiducia, anche in noi stessi e di riposo da ogni giudizio, è già un paradiso.
Si entra con cautela in quel buio saturo di umidità (e l’odore di umido non invita e non lascia spazio all’immagine di profumi celestiali o all’idea di una purezza dell’aria che posso fantasticare per un paradiso). Mentre mi abituo all’oscurità, cercando di individuare la fonte dello scroscio d’acqua, del muro d’acqua che richiama l’immagine di una cascata e mi spinge a guardare in alto per la potenza della sua caduta verso il basso (non resisto alla tentazione di pensare che la cascata, pur durando, non è mai la medesima), inizio a intravedere un baluginìo, una tenue luce indefinibile.
Aspetto di vedere meglio, se possibile, e intanto il pensiero torna al parallelepipedo luminoso posto all’entrata, lungo il percorso verso la stanza del buco nero. Perché si trovava e trova lungo la mia strada? Immagine dell’eternità con la luce della saggezza, la perfezione delle relazioni fra cielo e terra, chissà. Però l’occhio si perde, lungo il tragitto, verso uno schermo che potrebbe far parte dell’opera e che non proietta nessuna immagine. Nel frattempo ecco riapparire qualcosa di luminoso in alto, impossibile non pensare un po’ a un video di Bill Viola mentre mi chiedo l’origine dell’immagine. Com’è difficile non far correre il pensiero verso il già conosciuto e immergersi nell’immagine.
Sembra un’immagine creata dal vapore acqueo e da una luce che emana da un altrove; all’inizio quasi impercettibile, si intensifica a poco a poco. Prima si ha il dubbio che la luce sia un’illusione ottica, poi si pensa a un effetto ottico creato da una fonte di luce nascosta, poi a un video e a questo punto arriva chiaro, ma come lontano, un suono. Questo suono di una voce umana e una sensazione di calore, come un sesto senso, rendono “evidente” una indefinibile presenza. Un attimo di smarrimento, e finalmente tutto è chiaro, si tratta proprio di un corpo quello che finalmente vedo. Lo stupore della rivelazione è il corpo dell’altro che ignoravo e che si fa quasi impercettibile presenza al di là del suo essere visto solo con l’occhio della mia mente. Il Paradiso è lo stupore del corpo dell’altro che imparo a vedere e sentire nell’oscurità? Vedo perché ho saputo e potuto restare nel buio ad ascoltare.
Una rivelazione, proprio come in un viaggio iniziatico. E i tre minuti del mio poter restare e contemplare, mi ricordano i tre giorni richiesti nei misteri antichi per poter rinascere a una nuova vita. Nel mio mondo, nella contemporaneità, bastano tre minuti per vedere? Volendo.
Siamo nel campo di una istallazione che gioca sul disorientamento rivelatore per un passaggio da uno stato a un altro, per l’apoteosi dei sensi come esperienza della catastrofe e della gloria divina.
… Per ch’io dentro all’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte.
Subito sí com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume della dolce guida,
che sorridendo ardea nelli occhi santi.
«Non ti maravigliar perch’io sorrida»
mi disse «appresso il tuo pueril coto,
poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida,
ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi…
(Dante Alighieri, Paradiso, III 17-33 )
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