di Susanna Janina Baumgartner
Se vedere è perdere, perché resti la traccia di una somiglianza perduta a ricordarci che qualcosa ci sfugge in maniera ineluttabile, l’immagine avrà una capacità svuotante. È la premessa da cui muovono le riflessioni sull’arte contemporanea di Georges Didi-Huberman in Il gioco delle evidenze (226 pagine, 26,50 euro, Fazi). Si avrà quindi la presenza di un’assenza nel punto d’inquietudine tra diastole e sistole, tra un fuori e un dentro. Bisogna quindi inquietare il nostro vedere, elaborando una perdita in cui esploda il visibile. Ci vuole un potere dello sguardo prestato al guardato dal guardante. Benjamin descriveva questa esperienza: «Avvertire l’aura di una cosa significa dotarla della capacità di guardare» in «un singolare intreccio di spazio e tempo», di «apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina».
In questa distanza che ci guarda e ci tocca, vi è un potere della memoria, «memoria involontaria». Quando siamo improvvisamente toccati da qualcosa che vediamo, ci apriamo a una dimensione essenziale dello sguardo, che nella profondità trova lo spazio che si dà. Si dà, come sempre, in disparte, creando uno spaziamento. Si tratta quindi di superare la falsa opposizione di presenza e assenza e di lasciare che la presenza venga abbandonata al lavoro della cancellazione, al momento differenziale o différent che la costituisce e la supera. Il lavoro del suo spazializzarsi, del suo temporalizzarsi.
Nel farsi dello sguardo, vi è l’esigenza di pensare la forma come un processo di deformazione o la figura come il processo dello sfigurare. Il luogo dove vedere è perdere e in cui l’oggetto della perdita ci riguarda, è il luogo del perturbante (das Unheimliche) che sembra rispondere a ciò che Benjamin cercava di intendere con il carattere «strano» (sonderbar) e «singolare» (einmalig) dell’immagine auratica.
L’Unheimliche freudiano manifesta questo potere del guardato sul guardante degli oggetti auratici. L’oggetto unheimlich ci attrae verso l’ossessione, mescolando attrazione e angoscia, perché l’esperienza del perturbante ci espone al rischio di non vedere più. Si è fatta l’esperienza di un’apparizione strana, unica, di qualcosa «che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che invece è affiorato» (Schelling).
Il perturbante disorienta. Non sappiamo più esattamente ciò che è davanti a noi e ciò che non lo è, e se il luogo verso cui ci dirigiamo sia dentro. Il disorientamento del nostro sguardo ci separa dall’altro e da noi stessi, in noi stessi. Siamo quindi minacciati dall’assenza. Questa scissione aperta in noi da ciò che vediamo, da ciò che ci riguarda, ci mostra una soglia governata da una legge misteriosa. Ci troviamo tra un davanti e un dentro. È necessario il tempo, tutto il tempo, per questa dimensione atemporale di eterna porta o soglia da varcare.
Se chiamiamo immagine l’oggetto del vedere e dello sguardo, davanti all’immagine ciascuno sta come davanti a una porta aperta nel quadro della quale non si può entrare. Di fatto noi portiamo lo spazio per mezzo della carne, come elemento non percepito, fondamentale, di tutte le nostre esperienze sensoriali o fantasmatiche. E questo spazio può apparire solo nella dimensione di un incontro, in cui lo si libera dai limiti, lo si separa dal qui, dalla prossimità visibile, e nello stesso tempo si presenta un là, una distanza che “apre” e lascia apparire.
Il luogo dell’immagine può essere colto attraverso le esperienze dialettiche dell’aura o del perturbante che si aprono a noi e finiscono per aprirsi in noi, incorporarci. La soglia, è una soglia interminabile di attese e folgorazioni senza fine, tra una memoria e un’aspettativa, tra ciò che un giorno ha conosciuto la fine e ciò che un giorno vedrà la fine. Ogni immagine è una soglia che apre il suo fondo, ma ritirandolo, ritirandosi, ma attraendoci. Attraverso di essa, il nostro sguardo può ricongiungere un lutto e un desiderio, in un tempo per sentirsi perdere tempo, per perdere se stessi.
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