di Susanna Janina Baumgartner
Se potessimo rovesciare il nostro corpo come un guanto per scoprire la memoria che i nostri organi custodiscono e rivelano, per proiettare nello spazio la nostra geografia segreta in un attimo di assoluto presente, avremmo l’immagine della nostra storia equivalente alla storia dell’universo stesso. Quel luogo descritto da Borges nell’Aleph, dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli in un istante gigantesco: «Vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo. Sentii infinita venerazione, infinita pena.»
Una “scrittura” del corpo che tutti dovremmo imparare a leggere; per avere coscienza di ogni respiro e movimento che vorrebbe sempre comunicare, malgrado noi, l’indicibile. L’indicibile che è in noi, perché noi siamo il nostro corpo. «Nel tuo corpo cosciente», scrive René Char in Fureur et mystère, «la verità è in anticipo di alcuni minuti di immaginazione.» E il nostro corpo è vita, perché ha respiro e il respiro è la possibilità del suono, prima della parola.
Il suono delle onde (la performance di Saburo, presentata alla “Milanesiana”, si intitola Le onde) richiama l’andare verso e il ritirarsi senza fine. Lo spazio si articola fra il prossimo e il lontano e lo spazio della lontananza penetra la realtà della prossimità e si mescola a essa, annullando completamente le prospettive. Lo spazio diventa lacerato da irruzioni improvvise e non ha più la funzione di separare e dissociare, non è che il puro spostamento delle figure e dei suoni, segue il flusso e riflusso delle loro apparizioni.
Se potessimo avere, anche solo in minima parte, la coscienza del proprio corpo che Saburo Teshigawara possiede, sapendo sempre di essere noi e altro, sulla soglia e oltre, sapremmo, sempre, che un attimo è eterno.
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