di Susanna Janina Baumgartner
Ho letto di recente un libro di Davide Sparti (docente di sociologia dei processi culturali ed epistemologia delle scienze sociali a Siena), intitolato L’importanza di essere umani (Feltrinelli), che mi ha profondamente colpito. L’argomento trattato è il ri-conoscimento dell’altro che comporta di conseguenza un’etica del riconoscimento. E richiama alla memoria una frase di Ludwig Wittgenstein, che sottoscrivo senza esitazioni: «Facci essere umani» (Aus dem Nachlass).
Ri-conoscere l’altro è essere sensibili e responsivi nei suoi confronti. Significa considerare l’altro considerando se stessi. Dare valore all’altro e recepire sapendosi disporre all’ascolto. Significa anche saper dare una giusta risposta. Lo stare di fronte dell’altro implica la responsabilità di dare una risposta all’altro. Proprio perché mi guarda l’altro mi riguarda.
Sottrarsi all’incontro con l’altro è timore di compromettersi e anche tentazione di alleggerirsi dalla responsabilità di rendersi noto agli altri. Eludere e ripudiare il carattere pubblico e soffocante del linguaggio ordinario, come se la condivisione implicasse la negazione della nostra distinzione individuale, del suo particolare rilievo. Io mi riconosco in questo timore come in questa tentazione che alle estreme conseguenze ti pone da spettatore davanti agli altri. Quindi, nella condizione di vedere senza essere visti, come a teatro. Il teatro appaga il nostro bisogno di occultamento e ci allevia da ogni responsabilità, sollevandoci dall’ansia e dal peso di affrontare direttamente l’altro.
Quando nella vita ci tratteniamo nel ruolo dell’osservatore, allora teatralizziamo l’esistenza e trasformiamo l’altro, ma anche noi stessi, in una specie di personaggio. L’altro fa parte di un mondo rispetto al quale restiamo non toccati, spesso indifferenti, cosicché la sua e la nostra dignità umana viene lesa e umiliata. Quando non ci sveliamo, teatralizzando, tale esistenza fittizia assume i contorni di una condanna per l’altro e di una vendetta per noi. Per quella mancanza di fiducia nell’altro che si trasforma in rabbia e poi in indifferenza.
Quando ci tratteniamo nell’oscurità e ci isoliamo, trasformiamo l’altro in un personaggio. Per attribuire umanità all’altro abbiamo bisogno del criterio della somiglianza. Vediamo una figura, una persona – dice Wittgenstein – non secondo un’interpretazione, ma secondo un interpretare. Dunque ogni vedere è carico di teoria. Il considerare qualcuno persona e non personaggio, dipende dall’atteggiamento adottato nei suoi riguardi. Dipende dal rispetto di cui siamo capaci.
Se tra me e l’altro c’è allontanamento, una distanza tale da farmelo definire uno fra altri, senza più distinguere lui dagli altri, non c’è più riconoscimento e quindi non è più possibile che vi sia umanità. Un non riconoscere l’altro non dà modo all’identità di essere quello che è: una continua metamorfosi nell’incontro con l’altro. Sorge la paura di non essere, se l’altro ci coglie impreparati.
Nella diversità dell’altro non ci riconosciamo, non sappiamo riconoscerci e allora ci rifugiamo nelle «certezze» del passato, senza saper trarre vera forza dal passato. Della nostra storia vogliamo vedere solo quello che ci può «salvare». Una storia su misura per noi. Una storia di pensieri distorti che diventano guscio protettivo in un labirinto mentale senza via d’uscita. Una «corazza» per proteggerci dal mondo e anche da noi stessi.
2 commenti:
Riflessione molto complessa ma interessante: l'altro ci sarà sempre estraneo perché nessuno può svestirsi della sua corazza, pena l'emarginazione sociale. L'incomunicabilità è la dannazione dell'uomo moderno.
golden hawk
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