di Susanna Janina Baumgartner
Definire o descrivere Antonin Artaud è molto difficile, ancora più difficile, se non quasi impossibile, che tentare di rappresentarlo in teatro (e lo conferma l’omaggio che l’Arsenale e Milano hanno voluto dedicargli per i sessant’anni dalla morte). Nessuno come lui ha saputo e potuto parlare di se stesso oltre se stesso. Attraverso se stesso, ha visto infinitamente più di sé, descrivendo e raccontando un viaggio interminabile alla ricerca di un corpo. Quel corpo che è l’essere umano in tutto il suo mistero. Quel corpo che è azione di forze e che è azione indistruttibile, perché nulla riuscirà a spegnere l’energia di quel campo di forze.
AR-TAU:
«Io sono questa forza: captata, espropriata, rubata, perseguitata, sottratta, alla ricerca del proprio corpo, di un corpo martirizzato in nome di dio. Il corpo, bisognerebbe riprenderlo in qualcosa che assomiglia ancora a un soggettile, al volto come soggettile, l’abisso insondabile della faccia, dell’inaccessibile facciata. Perché dio col suo vero nome si chiama Artaud ed è il nome di questa specie di cosa innominabile tra il baratro e il nulla…» (da Succubi e supplizi).
Derrida in Antonin Artaud, forsennare il soggettile, ci tiene sul limite, quel limite che è parlare e scrivere di Artaud, quel limite dove si trova il soggettile: né dentro né fuori. Chi è il soggettile? Supporto, sottoposto o succube, esso sopporta (souffre) tutto ciò che viene ad adagiarsi o a gettarsi su di lui… Che cos’è il soggettile? Qualsiasi cosa, tutto e qualsiasi cosa? Il padre, la madre, il figlio e io? In breve, tutto e ogni cosa. Non è niente che sia, nessun essere determinato, dal momento in cui può assumere la figura determinata di qualunque cosa.
Trascendenza dell’Altro – e dell’Uno. Al di là dell’essere, per essere abbastanza indeterminato, abbastanza amorfo da prendere su di sé tutte le forme. Il soggettile raffigura l’Altro divenuto parte avversa, l’opposto supposto, luogo portatore di tutti i sottoposti, i succubi e gli incubi.
Scopo di tutte le figure disegnate e colorate è un esorcismo di maledizione contro gli obblighi della forma spaziale, della prospettiva, della misura, dell’equilibrio, e attraverso una vituperazione rivendicatrice una condanna del mondo psichico incrostato come una piattola sullo psichico che esso incuba o succuba pretendendo di averlo formato (parole di Artaud in libertà).
Allora l’attenzione è verso gli orifizi, i buchi del volto, come luoghi del nascere, dell’apertura possibile e dell’accadere. Qualcosa può accadere, nonostante tutto e pur nella compresenza delle forme del viso che attestano invece il furto, il passaggio, la metamorfosi. L’Altro, il soggettile, si mostra così essenzialmente intrattabile, permanendo in esso qualcosa di non assimilabile che sfugge a ogni definitivo tentativo di comprensione.
Eppure bisogna «forsennarlo», farlo uscire di senno e nello stesso tempo farlo diventare figura dotata di senso in una «indecisa alterità» e in un rapporto imprevisto e imprevedibile. Bisogna farlo soffrire e tormentarlo, bisogna stanarlo e determinarlo e fargli assumere, finalmente, un aspetto riconoscibile, identificabile, con cui possibilmente farla finita una volta per tutte estirpando la sua autorità o quella che è la sua insopportabile onnipresenza (da Alfonso Cariolato, Indecisa alterità).
E ci vuole coraggio, molto coraggio, perché: «Dopo che Bhudda fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna –un’immensa orribile ombra. Dio è morto, ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. – E noi – noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!» (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza)
Ci vuole il coraggio di farla finita col giudizio di dio, per poter vivere da uomini. «Che cos’è per te la cosa più umana? Risparmiare vergogna a qualcuno» (ancora Nietzsche). Quella vergogna che ha ucciso van Gogh e che Artaud ha descritto in Van Gogh, il suicidato della società, perché:
«È una tendenza delle nature elevate, sempre un grado al di sopra del reale, quella di spiegare tutto con la cattiva coscienza, di credere che mai nulla sia dovuto al caso e che tutto ciò che succede di male succeda per effetto di una cattiva volontà cosciente, intelligente e concertata.
Cosa che gli psichiatri non credono mai.
Cosa che i geni credono sempre.
Il fatto è che van Gogh era giunto a quello stadio di illuminazione in cui il pensiero in disordine rifluisce davanti alle scariche invadenti e in cui pensare non è più logorarsi, e non è più, e in cui non resta che raccogliere corpo…
Un giorno la pittura di van Gogh, armata e di febbre e di buona salute,
ritornerà per scagliare in aria la polvere di un mondo in gabbia
che il suo cuore
non aveva potuto sopportare.»
Quella vergogna è anche la vergogna di Artaud, perché:
«Mai la società attuale potrà credere che ci siano razze intere di uomini che si sono decise a vivere da animali
e che per ciò stesso si son viste spuntare degli organi che permettono loro di sottrarre la vita fluidica segreta dal corpo umano nel Sig. Antonin Artaud,
padre degli uomini.
La Società degli esseri è un vampiro
che non vuole andarsene
e che è legato
nervo a nervo
e fibra a fibra
al proprio oggetto:
lo sfruttamento indefinito del corpo dell’uomo umano.»
2 commenti:
Brava Susan. In divenire. Con la possibilità di ascoltare altri. Se intervenissero in tanti, integrando e costruendo insieme, forse si potrebbe porgere... il Vikipedia di un argomento. fanerocanpo
"Un giorno la pittura di van Gogh ritornerà per scagliare in aria la polvere di un mondo in gabbia".
In questa frase ci leggo un afflato salvifico di tipo opposto a quello tradizionale, messianico. Sembra di leggere le pagine più ispirate di "Zarathustra". Ma io credo che ci si possa affacciare sul "baratro" e sul "nulla" senza sogni di risarcimento, confidando soltanto in quel "pensiero" che "non logora".
Andrea T.
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