Uno degli aspetti più inquietanti dei reality è l’altissimo tasso di aggressività che essi veicolano. L’allarme dovrebbe scattare in particolare quando ad alimentarlo più che i partecipanti sono i giurati. Entro certi limiti, infatti, gli scatti d’ira o i furibondi litigi di chi è recluso in un’area ristretta, sottoposto a condizioni di stress fisico e mentale (L’isola dei famosi, La fattoria) o viceversa ai morsi della noia (Il grande fratello), sono giustificati: la condivisione degli spazi con affiliati che non abbiamo scelto e che per giunta sono nostri concorrenti non può che incentivare la conflittualità naturale, insita nell’essere sociale. L’importante è che il conduttore o la conduttrice siano fermi nel ristabilire un principio di ordine razionale, bloccando le degenerazioni. Ma, quando a dimostrarsi cedevoli agli impulsi sono proprio coloro che dovrebbero esprimere un giudizio spassionato (come avviene in X Factor o in Amici) in grado di distinguere il merito dal demerito, a derivarne è una pericolosa esaltazione dell’antisocialità che può avere pesanti ricadute sui convincimenti e sulla condotta di chi osserva.
Intendiamoci. L’alto tasso di aggressività non è affatto un tratto peculiare di questo genere di spettacoli. Non meno deplorevoli, sotto tal profilo, risultano alcuni dei più seguiti talk show odierni, a cominciare da Ballarò e AnnoZero. (Se la memoria non m’inganna, direi che è stato Gad Lerner l’iniziatore di questo andazzo con una trasmissione a cavallo fra anni Ottanta e Novanta intitolata Profondo Nord). Ma la differenza non è di poco conto. Nei talk show si litiga confrontandosi su problemi d’interesse collettivo. E, per quanto l’ira sia un vizio capitale, io spettatore posso comunque rassicurarmi dicendomi che a ispirarla è la passione politica, cioè l’interesse per il destino del paese.
Nei reality, al contrario, si litiga per pure futilità che il giganteggiare di un Io esorbitante e incapace di relazioni umane travisa regolarmente prendendole per sfide all’ultimo sangue da cui dipende la sua sopravvivenza mediatica. Ad aggravare il messaggio che ne deriva vi è la facilità di immedesimazione nei partecipanti: sono gente come noi, persone comuni, uomini e donne senza qualità. Né fanno eccezione i famosi dell’omonima isola: mezzi nudi, senza cerone, senza privilegi, gettati come gli altri nella fossa dei leoni, ci si presentano nella loro prosaicità umana. Sono più personaggi del programma che non personaggi dello star system.
Rispetto agli standard qui riassunti sbrigativamente, La pupa e il secchione sembra distinguersi non poco. Certo, l’aggressività è tutt’altro che bandita dal format. Ma viene qui mitigata dagli strumenti del riso che per loro natura impongono un distacco razionale. D’altra parte, non sono tanto gli screzi tra le frivole fanciulle o i disadattati ragazzotti a colpire. Sì, ci sono anche questi episodi, così come – almeno nella scorsa edizione – vi erano talune insopportabili liti fra giurati. È il prezzo che gli autori devono pagare al codice narrativo del reality. Ma sono episodi abbastanza marginali.
No, piuttosto è l’aggressività degli spettatori che il programma attira sui partecipanti a meritare una riflessione. Perché di questo si tratta. Pupe e secchioni sono messi in pari grado alla berlina per mezzo di una serie di impietose prove che ne fanno emergere la complementare inettitudine (reale o astutamente artefatta): da una parte, l’insipienza delle ragazze, preoccupate unicamente dell’apparire; dall’altra, la goffaggine dei secchioni quando, strappati allo studio, si trovano catapultati in situazioni pratiche.
Lo spettatore è così invitato a ridere dei giovani partecipanti, delle loro manchevolezze, dei loro automatismi, del loro essere dimidiato. E il riso equivale sempre a un giudizio emarginante, declassa chi ne è fatto oggetto a un rango di inferiorità. (Il personaggio comico è sprovvisto, per definizione, delle attitudini mentali o fisiche che riteniamo costitutive dell’essere umano civilizzato). Ma l’ironia del conduttore Enrico Papi, proprio mentre sembra infierire sulle vittime, ingigantisce a tal punto l’inverosimiglianza delle loro manchevolezze da finire col relativizzarle.
Sì, è vero, le pupe non sanno nulla di Galileo, Garibaldi, Stalin, Bertinotti, Coppi. E, per parte loro, i secchioni non sanno dare un cazzotto a un pungiball senza evitare che il micidiale attrezzo li colpisca di rimando in pieno volto. Le une e gli altri hanno tuttavia un pregio non trascurabile. Una nobile virtù: sanno ridere di se stessi. Hanno cioè la capacità di sdoppiarsi, di vedersi dall’esterno, di giudicarsi. Ciò significa che, mentre si fanno mettere in ridicolo, partecipano della nostra stessa superiorità solidale. Ridono con noi. (Si ride sempre di qualcuno e con qualcuno).
Qual è la debolezza del programma? La povertà narrativa. Nella maggior parte dei reality i protagonisti si uniformano a una varietà di archetipi ben riconoscibili, di derivazione letteraria o cinematografica: il bel tenebroso, il giovane palestrato, il bravo ragazzo giudizioso, l’uomo vissuto che ha attraversato tutte le esperienze pensabili e immaginabili, quello che per lui esistono solo lavoro e famiglia, e poi la belle dame sans merci, il brutto spiritoso, quella che sogna il principe azzurro, quella che come ha sofferto lei non ha sofferto nessuno, quell’altra che ha nostalgia della nonna che l’ha accudita da bambina, eccetera, eccetera. Questa molteplicità di caratteri (se non proprio studiata, certamente assecondata dagli autori, a partire dal casting) garantisce un assortimento di situazioni continuamente variate. (Poco importa qui che siano situazioni deprimenti, mirano a un loro target, tendenzialmente popolare, e lo raggiungono.)
In La pupa e il secchione gli archetipi sono soltanto due: la sventola fatua e il dotto inetto. La prima si atteggia a Marilyn Monroe, il secondo ricorda alla lontana Jerry Lewis. Le variazioni tra fanciulle da una parte e fra maschietti dall’altra sono troppo scarne per far lievitare il racconto. La tensione narrativa non scatta quando a confrontarsi sono due gruppi sostanzialmente omogenei al loro interno. (Gli autori hanno provato a introdurre una componente femminile esotica, ma mi pare con modesti risultati.) Né la ripetitività delle prove aiuta. Il rischio è che vista una puntata, si siano viste tutte.
Resta da porsi una domanda. Questi personaggi ci fanno o ci sono? Non lo so. Certo, è curioso che in un gioco le pupe non sappiano riconoscere il sindaco di Roma ma in quello dopo sanno chi è il ministro dell’ambiente. (D’accordo, hanno avuto un aiutino. Ma quanti telespettatori, magari laureati, avrebbero risposto correttamente alla domanda?) Certo è che sono proprio le pupe a risultare avvantaggiate. In fondo, sulla scena si trovano nel loro brodo: sono tutte miss qualcosa, ambiscono a entrare nel mondo dello spettacolo, ne accettano le regole, e se c’è da recitare una parte, non si tirano indietro, sono appunto lì per quello, per dimostrare quanto sono brave a stare sotto i riflettori. Ma i secchioni che ci stanno a fare in TV? Se sono realmente secchioni, come possono tollerare di rimanere per settimane lontani dai libri o dai laboratori di ricerca? Non soffrono a perdere tempo in frivolezze? A meno che... A meno che siano proprio loro quelli che recitano più di tutti.