martedì 17 maggio 2011

Pisapia, il maggio milanese

La sinistra vince nel capoluogo lombardo perché ha saputo essere rassicurante e interpretare lo spirito della città. Ma soffia davvero il vento del Nord? Esiste un nuovo laboratorio riformista in grado di candidarsi a governare la nazione?

Su Berlusconi la penso come Giuliano Ferrara, sia pure da una prospettiva diametralmente opposta. Il Cavaliere, a Milano, convince quando si presenta come un riformatore: quando cioè pone al centro della sua agenda politica la riduzione delle tasse, l’abolizione delle Province, il dimezzamento del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, l’arretramento della politica da settori che non le competono, ecc.

Poco importa a Milano che a volte nel dibattito politico entri a gamba tesa. Una giusta dose di grinta è necessaria per imporre le riforme a un sistema politico nazionale fondamentalmente conservatore. Quello che Milano non perdona al Cavaliere è la sua democristianizzazione: l’adeguarsi a una politica di piccolo cabotaggio, il circondarsi di collaboratori mediocri, la nomina di ministre inutili, la compravendita dei voti, la proliferazione dei sottosegretari… Tutte quelle insopportabili pratiche della prima Repubblica che Berlusconi aveva promesso di cancellare una volta per sempre. Qui, non ci sono nostalgie per il vecchio centrismo, e a confermarlo è il misero 1,8% guadagnato dall’Udc.
Ma il risultato di ieri non è soltanto frutto del giudizio negativo sull’amministrazione Moratti e sul “tradimento” berlusconiano. È anche frutto di un giudizio positivo su Pisapia. E, in proposito, io la penso a modo mio. Penso che Pisapia abbia interpretato lo spirito autentico della storia di questa città. Altro che estremista, come vorrebbero farlo passare i suoi avversari. Pisapia ha saputo presentarsi come erede della tradizione riformista e socialista milanese. Ed è una tradizione che poggia su due colonne portanti: il pragmatismo e il solidarismo interclassista.
Pisapia ha tenuto la barra puntata sui problemi della città, trattenendosi dal rispondere ai tentativi del centrodestra di trascinarlo sul terreno della baruffa ideologica, e questo è un segno di concretezza pragmatica oltre che di serietà politica. E ha saputo parlare alle diverse fasce sociali. Non è il candidato dei salotti milanesi. È il candidato che parla alla borghesia imprenditoriale e ai professionisti, ma che va anche a incontrare i lavoratori e le loro organizzazioni. A differenza della Moratti che rappresenta una borghesia aristocratica e appartata, che la città la guarda attraverso i finestrini dell’auto blindata e non ritiene necessario spiegare le sue scelte davanti al consiglio comunale, Pisapia appartiene a Milano: si è mischiato a questa città, ne ha respirato l’aria, ne ha visitato i quartieri, l’ha studiata, ha ascoltato il malcontento.
Ha avuto poi il merito di riportare al voto i delusi della sinistra e i giovani dei centri sociali. Ma anche in questo Pisapia è erede della migliore tradizione socialista, e ne fa propria una lezione che la sinistra milanese aveva dimenticato. Perché il socialismo non esilia nessuno. Al contrario, cerca di allargare la coscienza collettiva. Nell’Ottocento dialogavamo con gli anarchici, perché oggi non dovremmo dialogare con i centri sociali e provare a spostarli su un piano istituzionale?
Tutto bene quindi? No. Quelli che abbiamo sinteticamente ricordato sono gli aspetti rassicuranti della campagna elettorale che Pisapia ha saputo fare insieme ai suoi collaboratori (anzitutto Stefano Boeri e il Pd di Roberto Cornelli che, dopo le primarie perse, hanno dimostrato un’ammirevole senso di responsabilità, e va riconosciuto senza mezzi termini). Ma la data di ieri segna anche la nascita di una New Left? Soffia davvero il vento del Nord, come dice Bersani? È nata una sinistra che, riallacciando i ponti troppo a lungo interrotti con il suo miglior passato, ha l’inventiva necessaria per affrontare le questioni aperte del presente?
Questo non lo so ancora. Ma le forze qui ci sono, e sono sicuro che le vedremo all’opera, in questi quindici giorni che mancano al ballottaggio e dopo. Quello che invece so è che Milano non è mai stata capace di esportare i modelli culturali che ha sperimentato. Si è pensata come capitale morale, ma non lo è mai stato davvero. Milano è stata socialista quando l’Italia era democristiana, e la parentesi craxiana a Roma non ha cambiato le cose, ha coinciso anzi con una crescente conflittualità a sinistra (in parte inevitabile, dato che i riformisti del PCI, maggioritari nella federazione ambrosiana, erano minoranza nel paese). Dobbiamo rassegnarci a una Milano neosocialista e a un’Italia ancora berlusconiana? Per carità, no. Proviamo a pensare in termini di politica nazionale.

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