lunedì 28 aprile 2008

La fiaba dell’amore non ha paura del cielo

di Susanna Janina Baumgartner

L’Esserci, come sostiene Heidegger, è la possibilità di essere liberi per il più autentico poter essere; la possibilità dell’esistenza di darsi alle sue possibilità, ma anche di mancarle, di misconoscersi. Smarrirsi in un ideale, in un sogno, innalzarsi al di sopra dell’oppressione e della paura di ciò che è terreno e venir trasportati verso l’alto, sulle ali degli stati d’animo, dei desideri, della fantasia e dell’immaginazione. Un’altezza vertiginosa dove non vi è più l’orizzonte dell’esperienza e dove l’amore muore, perché non vi è più possibilità di con-divisione.

Eppure l’amore si nutre di sogni e immaginazione, per questo “la fiaba dell’amore non ha paura del cielo”. Nello spazio da “fiaba” del teatro è possibile ritrovare la magia di un incontro, condividendo con altri il mio sogno e la mia storia. Interpretare il personaggio di una fiaba mi permette di comunicare, senza vergogna, inibizioni e paure, il mio sentire e le mie emozioni.

Freud, considerando il momento creativo del gioco, ci dice che forse ogni bambino impegnato a giocare si comporta come un poeta, in quanto si costruisce un suo proprio mondo, o, meglio, dà a suo piacere un nuovo assetto alle cose. Attraverso il gioco, la poesia e la fiaba, il soggetto si libera dal “peso” delle proprie fantasie, trovandosi nello spazio protetto del teatro dove può finalmente sentirsi libero di creare, di Essere, in relazione con “altri” e altri.

“La fiaba dell’amore non ha paura del cielo” è il titolo dato da una paziente del Centro Residenziale Terapeutico il “Torchietto” di Pavia per l’allestimento in corso di uno spettacolo teatrale (prossimamente in scena), creato dai pazienti del Centro con la regia di Mara Sfrondini.

Oggetti e costumi di scena sono stati realizzati artisticamente sempre dai pazienti, con la collaborazione delle tirocinanti del corso di perfezionamento biennale in teoria e pratica della Terapeutica Artistica all’Accademia di Belle Arti di Brera (coordinato da Laura Tonani e Tiziana Tacconi e da docenti dell’Università Statale degli Studi di Pavia – Scuola di specializzazione in psichiatria).

mercoledì 23 aprile 2008

Roma: l’ultimo métro della sinistra radicale

Il risultato del ballottaggio fra Rutelli e Alemanno avrà enormi ripercussioni sulla politica nazionale. Un’eventuale sconfitta della sinistra darebbe infatti definitivamente carta bianca a una destra populista e demagogica che, ancor prima di insediarsi al governo, ha già incominciato a mostrare i muscoli, rimangiandosi senza tanti complimenti le promesse e gli annunci fatti in campagna elettorale (la cordata per salvare Alitalia è soltanto la più eclatante di una lunga serie di menzogne).

D’altra parte, con l’ex Arcobaleno ormai allo sbando, e spaccato in tante microcorrenti, diventa ancor più difficile per i riformisti trovare un interlocutore e riaprire il dialogo a sinistra. Lo so che qualcuno può essere tentato di cogliere l’occasione per far pagare al PD la scelta di essere andato da solo alle elezioni politiche, addossandogli la colpa della scomparsa dei comunisti e dei socialisti dal parlamento. Come se davvero il PD fosse responsabile della sconfitta di una sinistra litigiosa, già condannata alla scomparsa a causa della mancanza di una politica di governo. Si dimentica che un ministro (Pecoraro Scanio) ha manifestato contro il suo stesso esecutivo: una cosa mai vista in precedenza.

Non ascoltate le scelleratezze di chi predica il tanto peggio tanto meglio. Quella logica non merita nessun rispetto. Perché è la logica del vero fascismo, sia pure celato dietro i drappi con la falce e il martello. E perché è una logica che torna utile soltanto alla destra più retrograda e disfattista.

D’altronde, è vero che un’eventuale sconfitta a Roma potrebbe forse indebolire la leadership di Veltroni. Ma il PD ha ormai radici abbastanza robuste per superare anche una crisi come questa. Sono le sigle più responsabili dell’ex Arcobaleno che dovrebbero piuttosto temere la sconfitta. Perché per loro è l’ultimo métro. Uno scacco a Roma significherebbe l’isolamento anche nelle altre amministrazioni locali.

Chi ha senso di responsabilità non lasci la capitale nelle mani di Alemanno. È una realtà troppo importante per essere ceduta a chi ha nostalgia di un regime poliziesco. Voti Rutelli.

giovedì 17 aprile 2008

Sinistra: uscire dalla sconfitta

«La sconfitta è un’esperienza dura da padroneggiare e la tentazione è sempre quella di sublimarla». Così scrive Perry Anderson, uno dei massimi studiosi di area marxista, in Spectrum. E indica nell’autoreferenzialità il principale vizio che impedisce alla sinistra di comprendere la tendenza fondamentale del nostro tempo e che la condanna a un ruolo minoritario e subalterno. In realtà, Anderson non parla di sconfitte elettorali, parla di una sconfitta nel mondo delle idee. Il suo assunto è che oggi, in Europa e negli Stati Uniti, sono le idee conservatrici ad aver guadagnato progressivamente terreno. L’egemonia culturale, che per un breve periodo nel Novecento è sembrata appannaggio della sinistra, ormai è tornata saldamente nelle mani della destra. Perché?

Forse questa prospettiva di ricerca è troppo distaccata perché possa suscitare interesse a ridosso del 14 aprile (maledetto aprile: «è il mese più crudele», scriveva Eliot). E, del resto, è sempre rischioso avventurarsi in territori così sconfinati, dove la tentazione di trarre conclusioni sulla base di considerazioni astratte è sempre in agguato. Ma, anche se molto rozzamente, vorrei lo stesso sottoporre un punto alla riflessione.

La sinistra riformista è sempre in difficoltà nei periodi di rallentamento dello sviluppo economico. E si capisce. Se non ci sono ricchezze da ridistribuire o capitali da investire a vantaggio della collettività, la sua funzione storica viene meno. A cosa serve una sinistra che non può garantire quel principio di uguaglianza su cui si regge? È naturale che, a queste condizioni, l’elettorato preferisca volgersi a destra. Cos’altro potrebbe fare? Se non funziona una ricetta, se ne prova un’altra.

Così impostato, il problema appare di natura squisitamente politico-economica. Ed è comprensibile che, a sinistra, le soluzioni vengano ricercate in una serie di provvedimenti volti a rimpolpare le ricchezze dello Stato (incentivi all’economia, razionalizzazione del sistema delle imposte, lotta all’evasione, eccetera). Già! Ma siamo sicuri che questo sia il modo giusto di impostare il problema? E se invece il vizio risiedesse nell’arroccamento culturale? Se fossero gli assiomi che sorreggono l’intera struttura concettuale, e quindi anche l’azione, a essere sbagliati? Insomma, per dirla in termini spicci, è proprio vero che quello ridistribuivo è lo strumento più efficace per garantire l’uguaglianza?

Finora la sinistra riformista ha risposto senz’altro sì. Nella sua lunga storia, quando ha avuto ruoli di governo, ha sempre privilegiato i metodi della socialdemocrazia. Ma si dimentica che anche il liberalismo nasce a sinistra. Fatta eccezione per uno sparuto gruppo di intellettuali isolati, noi non abbiamo mai provato a verificarne sul serio gli strumenti. Li abbiamo abbandonati senza tanti complessi di colpa alla destra (che peraltro non li ha mai usati davvero), pensando che per loro natura andassero a beneficio dei ceti superiori. Eppure, il liberalismo di per sé non è affatto aristocratico, non sta dalla parte dei ricchi, non è di destra, non è conservatore. Anzi. Perché non provare a sondare anche questa corrente culturale? Per uscire dall’autoreferenzialità di cui parla Anderson, è necessario cambiare sguardo: accantonare l’apparato concettuale che si è dimostrato inefficace e sperimentarne altri (magari per scoprire che anche questi sono inadattati, e quindi cercarne altri ancora).

Non sto tessendo un elogio a priori delle privatizzazioni, che possono essere utili o no, a seconda dei casi. Sto proponendo una diversa prospettiva politico-intellettuale, che persegua sempre l’uguaglianza, ma invece di ricorrere agli strumenti paternalistici della socialdemocrazia, miri a liberare le energie individuali, mettendo ogni singolo nelle condizioni di essere promotore della propria ricchezza, anche in assenza di un’azione ridistributiva. È una strada che in Italia non è mai stata battuta (tanto meno da Berlusconi, che è un liberale soltanto a parole). Il PD è concettualmente attrezzato per mettere alla prova anche questa prospettiva. Può farlo.

mercoledì 16 aprile 2008

PD: e ora il partito-bambino pensi
da grande

Negli Stati a regime bipartitico con un alto tasso di stabilità i cicli politici non durano una legislatura, durano di più. Non è una legge scritta nelle stelle. È una linea di tendenza fisiologica, che anche Veltroni ha ricordato in campagna elettorale. Dispiace che oggi siano “loro” a trarne vantaggio. Ma la stabilità non è un valore né di destra né di sinistra: è una condizione fondamentale per il benessere dell’economia, per la sopravvivenza dello Stato, per un armonico sviluppo della società. Dobbiamo prenderne atto e incominciare al più presto a ragionare in base alla nuova situazione in cui l’Italia si è venuta a trovare, anche per merito nostro. Ricordiamoci che siamo stati i primi a dire basta a quell’instabilità che i partitini personali e le sigle della sinistra massimalista alimentavano programmaticamente per conservare la propria rendita di posizione. Solo loro avevano interesse all’instabilità, che è lo strumento per eccellenza del settarismo. Noi no, la subivamo. Ed era un’instabilità logorante per il Paese e per la sinistra. Nessuna nostalgia, per favore.

Non dico queste cose per invitare alla rassegnazione di fronte a un possibile decennio berlusconiano (magari “ravvivato”, a metà percorso, da un passaggio di testimone a Fini). Le dico per incoraggiare a riassorbire in fretta la sconfitta e rimettere in moto un’azione adeguata al rinnovato contesto. La continuità dei governi e il probabile allungamento dei cicli politici richiede una correzione di prospettiva. Dobbiamo tornare a muoverci su due binari: l’uno ravvicinato, l’altro a lungo termine. Da una parte, attrezzarci per rispondere alle prossime sfide dell’immediato, a partire da quelle elettorali (le europee e le amministrative saranno una prova fondamentale della nostra credibilità). Dall’altra, tornare a guardare alle dinamiche profonde dello sviluppo sociale, quelle di lungo corso, sulle quali è possibile fondare un programma ad ampio respiro, che regga (appunto) non una legislatura, ma un ciclo. È un impegno che richiede uno sforzo culturale, di cui siamo assolutamente capaci: le risorse non ci mancano, l’intelligenza e la creatività neppure.

Tale impegno è ancora più importante perché è avvenuta una trasformazione profonda della sinistra. Di fatto, via via che si restringevano verso il loro zoccolo duro, Margherita e DS andavano assumendo – loro malgrado – gli aspetti di un partito d’opinione. O, almeno, come tali venivano visti dagli elettori. Non a caso era la politica dei diritti che anzitutto distingueva questo fronte dalla destra. E cioè una politica che ha strette connessioni con l’etica. Si capisce che fossero principalmente i ceti medi (i ceti degli “intellettuali”) ad apprezzarne l’operato.

Il PD è un’altra cosa: non è più la somma di DS e Margherita. Il 14 aprile, finalmente, ci ha consegnato un grande partito riformista di massa unitario, come la SPD, il Labour Party, il PSF. E cioè un partito che rappresenta gli interessi di diversi ceti sociali e di diverse culture. Da una parte, imprenditori, operai, ricercatori, professionisti, commercianti, impiegati. Dall’altra, cattolici, socialisti, liberali di sinistra, liberalsocialisti, ambientalisti responsabili, liberaldemocratici, radicali. Veltroni lo ha ben capito. E nella scelta dei candidati (pur discutibile per tanti aspetti) aveva anticipato questa nuova realtà, l’aveva sollecitata.

Un partito riformista di massa non può fare della laicità o dei temi etici i suoi obiettivi prioritari, come un partito d’opinione. Anzi, in molte occasioni, sulle questioni etiche dovrà riconoscere ai propri iscritti e ai propri parlamentari la più completa libertà di coscienza. La sua efficacia e la sua lungimiranza si misurano piuttosto sulle proposte che saprà avanzare nelle sfere più robuste e “tradizionali” dell’amministrazione dello Stato: anzitutto, la politica economica, la politica del lavoro, la politica energetica, la politica industriale… È in questi ambiti che, finalmente ridisegnato il sistema parlamentare, deve concentrarsi lo sforzo creativo.

martedì 15 aprile 2008

Dopo la delusione.
L’autostrada della sinistra

Avrei preferito che l’elettorato scegliesse un’altra via verso la stabilità politica. Inutile nascondere l’amarezza: c’è ed è grossa. Ma non vorrei che sottovalutassimo gli enormi aspetti positivi che comunque emergono da questa tornata elettorale. È vero che nell’immediato la semplificazione del sistema parlamentare avvantaggia una destra che, rispetto al 2001, è diventata ancora più destra (per la perdita dell’UDC) e ancora più populista (per il successo della Lega). E, per questo, sarà necessaria una maggiore attenzione da parte di chi ha a cuore le sorti della democrazia.

Ma la semplificazione è un bene per l’Italia, perché assicura la governabilità. E questo è un fatto che ogni persona intellettualmente onesta deve riconoscere. Non solo. La semplificazione del sistema politico inaugura una nuova stagione storica dalla quale la sinistra, in prospettiva, ha tutto da guadagnare. Forse solo ora, infatti, con incredibile ritardo, l’Italia esce dalla lunga ed estenuante fase di transizione aperta nel 1989 con il crollo del muro di Berlino. Mi rendo conto che questo discorso risulta incomprensibile a chi è accecato dall’orgoglio o dal dottrinarismo. Ma non importa. Per la prima volta nella storia del nostro Paese, abbiamo una grande e moderna forza riformista, libera da tutte le zavorre ideologiche che hanno rallentato lo sviluppo della democrazia e della modernità dopo la Liberazione. Approfittiamone.

Certo, il PD è una forza imberbe, e c’è ancora molto da fare. Non è nato il 14 ottobre 2007, è nato nel momento in cui Veltroni ha deciso di correre da solo. Quella non è stata una scelta puramente elettorale. È stata una scelta strategica di vasta portata. L’elettorato di sinistra lo ha capito, e ha voltato le spalle a ogni forma di settarismo o di illusione antagonistica. È stato più saggio di Boselli, di Bertinotti, di Pecoraro Scanio, di Diliberto, di Giordano. Ha chiesto un nuovo linguaggio, un nuovo apparato concettuale. Lo so che nella delusione si vedono soltanto i lati negativi. Ma chi ha familiarità con la politica riconosce le immense potenzialità aperte da questa svolta.

Ora, il partito democratico ha l’obbligo di approfondire i propri contenuti e la propria collocazione, tenendo conto che ha raccolto consensi a sinistra e mancato il bersaglio al centro. Ma ha anche l’obbligo di rispondere al credito che gli hanno riconosciuto quegli elettori che hanno accolto l’appello al bipartitismo, pur senza approvare appieno la linea politica veltroniana. Questo vuol dire ricostruire il tessuto politico-sociale della sinistra. Non è un lavoro facile. Ma, senza massimalismi, davanti a noi abbiamo un’autostrada. Sarebbe stupido non imboccarla.

venerdì 11 aprile 2008

Elezioni: i miei perché

Non ho partecipato alle primarie del PD lo scorso ottobre. Sono un vecchio realista, e non mi piacciono i metodi che assecondano troppo le inclinazioni popolari, sollecitando la scelta dei leader per acclamazione. Ma, soprattutto, ero dubbioso sul processo di formazione del nuovo partito, perché non trovavo risposta a molte domande strategiche. Mi rendo conto tuttavia che il PD allora non poteva scoprire le carte, per non mettere in difficoltà il governo Prodi.

Ho incominciato a rivedere il mio giudizio nel momento in cui Veltroni ha dichiarato che, piuttosto che ripetere l’antica formula ulivista, avrebbe corso da solo alle elezioni. Il successivo accordo con Di Pietro e la Bonino non modifica quella prospettiva. L’unità dei riformisti è un obiettivo pregevole, che approvo senz’altro. Semmai trovo ingiustificabile il no di Boselli: una scelta motivata soltanto dall’accecamento dell’orgoglio, che lo ha portato ad anteporre la conservazione di un simbolo alla coerenza delle idee.

Perché dunque sì al PD? Andrea Camilleri ha motivato la sua decisione in base alla paura. La paura del ritorno di Berlusconi: «un extraterrestre della democrazia», «qualcosa che non ci appartiene», un uomo che «non ha la più lontana concezione di cosa possa essere una democrazia» e con il quale, se ritornasse al governo, l’Italia si ritroverebbe «come la cicala, con le pezze al culo». Io motivo la mia decisione in base ai desideri. Sono soltanto tre.

1) Voglio un esecutivo coeso e in grado di governare, che sia composto da un numero estremamente ridotto di forze e che non sia minacciato dal ricatto dei partiti personali (i «nanetti» di cui parla Sartori).

2) Voglio un sistema politico semplificato e tendenzialmente bipartitico.

3) Voglio una sinistra che finalmente tolga ossigeno a ogni tentazione di settarismo: il suo vizio storico. Un vizio che ha portato a una proliferazione inconcepibile di sigle, sorrette unicamente dalla follia ideologica e dal dogmatismo dottrinario.

I primi due punti fissano le principali priorità del Paese: non è possibile alcun efficace intervento di governo (tanto meno in materie di carattere economico) senza prima aver ridisegnato a fondo il sistema parlamentare. Il terzo rappresenta una condizione di sopravvivenza per la sinistra. Chi ha a cuore le sorti di questa forza politica dovrebbe fare di tutto per strapparla a quella mentalità da assedio che caratterizza gran parte delle sue formazioni e che la condanna a un ruolo minoritario, subalterno alle forze uscite vincitrici dalla lotta per la modernità.

mercoledì 2 aprile 2008

Elezioni: Diccì, a volte ritornano

Mettiamola così. La notizia di un possibile rinvio del voto dà un certo brivido a una campagna elettorale per altri aspetti noiosetta. Se non altro abbiamo un diversivo al tormentone Alitalia. Certo, colpisce la risposta di Giuseppe Pizza, segretaro diccì, ai leader che gli chiedevano un atto di buon senso nell’interesse del Paese: «Mi rendo conto che i nostri alleati sono legittimati a chiederci responsabilità sulla data del voto», ha dichiarato, «ma l’interesse del mio partito è preponderante.» Non c’è che dire. Una bella carta d’identità per chi si candida al parlamento. E ho paura che si debba prenderlo alla lettera.

Ma, in fondo, riconosciamolo: Pizza ha le sue porche ragioni. A questa competizione sono state ammesse le liste più improbabili e pittoresche. La sua no. E perché mai? Basta andare sul sito del Viminale e dare un’occhiata ai simboli. Ci sono la Lista Grilli Parlanti, la Lega per l’Autonomia - Alleanza Lombarda, la Liga Veneta Repubblica, il Partito del Sud - Alleanza Meridionale, l’Unione Consumatori, i Popolari Uniti (e vattelapesca uniti a chi).

Manca la Lista della Fata Turchina. Ma ci sono la Lista Per il Bene Comune (fosse vero, se ne sarebbero rimasti in poltrona davanti alla tivvù), il Loto (giuro, proprio così!), la Lega Sud Ausonia, il Fronte Indipendentista Lombardia, Forza Nuova, il Sud Libero, il Movimento Politico Pensiero e Azione. Poi, naturalmente c’è Ferrara. E c’è addirittura un fantomatico Partito Liberale Italiano, scovato in chissà quale armadio o sgabuzzino. Mentre a sinistra della sinistra è tutto un affollarsi di falci e martello: Sinistra critica, Partito di Alternativa Comunista, Partito Comunista dei Lavoratori, Partito Comunista Italiano Marxista-Leninista (eh, sì, esistono ancora, anche se non li vedi più andare in giro con le cartelle piene di giornalini, come i testimoni di Geova).

Tutti quanti hanno il loro candido candidato premier (anzi, candidissimo, gente che giura e spergiura di non aver mai avuto finora ambizioni di potere) e il loro bel programmino (bisogna leggerli, alcuni sono davvero spassosi). Come se avessero anche solo una probabilità sull’infinito di governare il Paese. Una finzione assurda, da teatrino popolare. Tra tante liste fantasma o partiti personali, si poteva negare un quarto d’ora di gloria a Pizza? No, non si poteva.

Ma, intendiamoci, anche nella cosiddetta prima repubblica si affacciavano sulla scena politica tanti personaggi folcloristici. La spettacolarizzazione li ha solo moltiplicati e forse resi più rancorosi (qualcuno mi sembra proprio incanaglito, e mica ne ho capito la ragione). Non c’è troppo da scandalizzarsi per questo. Non entreranno comunque in parlamento. Ci sarebbe però da scandalizzarsi se per l’interesse di condominio fosse sacrificato l’interesse nazionale.

martedì 1 aprile 2008

Bacon, ottimista sul nulla

Fu egli stesso a definirsi così: optimistic about nothing. Era il 1985, e alla Tate Gallery di Londra si inaugurava la seconda retrospettiva a lui dedicata. In quella occasione, il giornalista della BBC Melvyn Bragg volle incontrare il grande pittore nei suoi luoghi familiari: l’atelier, il casinò, il Colony Room (un drinking club di Soho, aperto nell’immediato dopoguerra da un’anticonformista signora di nome Muriel Belcher)… Il lungo e suggestivo video che ne nacque si può vedere oggi a margine della mostra antologica di Palazzo Reale: un centinaio di opere quasi tutte mai viste in Italia, che ripercorrono il percorso di Francis Bacon dai primissimi quadri degli anni Trenta fino agli ultimi grandi trittici dipinti poco prima della morte avvenuta nel 1992.

Ma quale ragione ha Bacon per dirsi ottimista? Nessuna. Non c’è niente al mondo per cui valga la pena essere ottimisti: nothing. Il suo credo non potrebbe essere più radicale: we live, we die and that’s it (viviamo, moriamo, e questo è tutto). La vita non è che una corsa verso la morte, e la morte è già incisa in essa (così viviamo in un continuo prendere congedo, recita l’ultimo verso dell’ottava elegia duinese di Rilke).

L’arte non è responsabile della violenza che rappresenta, non è neppure in grado di produrre più violenza della vita:
you can’t be more horrific than life itself, dice Bacon, rispondendo indirettamente a Margaret Thatcher, che lo aveva liquidato definendolo that man who paints those dreadful pictures (quell’uomo che dipinge orribili quadri). D’altra parte, a Bacon manca il senso del tempo per coltivare una qualche forma di prospettiva o di fiducia nell’avvenire: I’ve no story to tell (non ho storie da raccontare). Il che significa che nessuna vicenda si dispone in qualche forma di ordine logico o cronologico. Tutto è caos, e nel caos non c’è un prima e un dopo, un inizio, uno sviluppo, una fine: gli elementi costitutivi di una storia. C’è una simultaneità incongrua e magmatica, nella quale le diverse forme si avviluppano in un’incessante creatività distruttice.

Eppure… Eppure laddove lo sguardo comune coglie soltanto un motivo di disperazione, l’arte vi scorge una remota bellezza, guidata da quella medesima ambivalenza di angoscia e di meraviglia da cui per i greci scaturisce la filosofia. Ecco il fondo dell’ottimismo baconiano: il fetore del sangue umano è sorriso per me, aveva scritto Eschilo, e nessun verso potrebbe corrispondere meglio allo spirito della sua opera.

La deformazione dei corpi è lo strumento che egli trova a sé più congeniale per rappresentare quel continuo moto di distruzione e creazione della realtà e, nello stesso tempo, continuare a essere pittore figurativo (ossessivamente figurativo) in un’epoca dominata in gran parte dall’astrattismo. Ma la deformazione in Bacon non ha intenti grotteschi e neppure realmente dissacranti. Nell’era del crepuscolo degli dèi, che cosa potrebbe rimane da dissacrare? Tutto si è già consumato.

A modo suo, Bacon è piuttosto un realista, animato da una profonda carica erotica, un’attrazione sensuale per l’esistenza, per le sue forme, il suo movimento (il movimento è un’altra delle sue ossessioni). È significativo che si dica indifferente all’immaginazione. Né è un caso che dipingesse dal lato “sbagliato”, e cioè sul retro della tela: quello non preparato. È una scelta che gli impediva di correggere, costringendolo a bruciare i quadri che giudicava non riusciti. Ma è una scelta che gli permetteva anche di assecondare l’impulso vitale, e riprodurne l’unicità irripetibile: perché sul lato “sbagliato” i pigmenti assumono una forza propria, autonoma e assoluta.

BACON
Milano, Palazzo Reale
fino al 29 giugno 2008

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