domenica 30 settembre 2007

Il Mondo Nuovo di Walter

Sulla «Stampa» del 21 settembre, Walter Veltroni ha illustrato i principi e gli obiettivi di politica estera di cui il futuro Partito democratico dovrebbe farsi carico per un "mondo sostenibile". La riflessione prende le mosse da questa premessa: «All’inizio del XX secolo la popolazione del pianeta superava di poco il miliardo di persone; in soli cento anni, il numero si è sestuplicato e due abitanti su cinque della Terra sono indiani o cinesi. E’ un mondo nuovo, che vede crescere l’aspettativa di vita degli europei di quasi tre mesi ogni anno e che registra il calo drammatico della vita media nei Paesi più poveri dell’Africa.»

Di qui, una serie di priorità che Veltroni propone all'attenzione delle «risorse della nostra comunità nazionale, in particolare delle nuove generazioni». L'elenco è lunghissimo: il multipolarismo, le sfide globali, la riforma delle Nazioni Unite, il processo di integrazione politica europea, la posizione geostrategica del Mediterraneo, la questione dei Balcani e la questione turca, il rapporto con gli Stati Uniti, i problemi dell'Africa, la difesa dei diritti umani e la lotta all'ingiustizia, la crisi ecologica e le risorse energetiche, la minaccia nucleare.

Curiosamente, Veltroni non fa menzione della questione israeliano-palestinese e, nel citare positivamente il multilateralismo, non si cura di chiarire come dobbiamo regolarci nei momenti di attrito con il mondo islamico. Ma il punto non è questo.

Il punto è che Veltroni ragiona come se fossimo una superpotenza e potessimo imporre la nostra agenda politica agli Stati alleati, e come se in Italia avessimo un sistema presidenziale con un sistema bipartitico perfetto e non fosse necessario scendere a compromessi per mantenere in vita un governo di coalizione, sempre sull'orlo della crisi. Per di più, finge che in politica estera basti la buona volontà per realizzare le cose. Naturalmente, sa bene che non è così. Sa che il mondo è il campo di battaglia di poderosi interessi in contraddizione fra loro. Ma preferisce non dirlo. Del vecchio adagio gramsciano gli è rimasto in mente solo l'ottimismo. E propone una visione sorridente della politica, strizzando l'occhio alla «generazione figlia del programma di Erasmus».

Ma il suo elenco è tanto zeppo quanto inutile, perché a sorreggerlo non c'è alcun chiarimento strategico. E, soprattutto, è troppo sproporzionato rispetto alla realtà. Il rischio è di trovarsi con un pugno di mosche. Essere ambiziosi non vuol dire spararle grosse. Ma saper individuare una strada percorribile, possibilmente spaziosa, e che porti lontano.

mercoledì 26 settembre 2007

L’ombra del passato

E se il Partito democratico andasse incontro allo stesso destino del PDS? Una delle più forti motivazioni a favore del cambiamento, addotte da Achille Occhetto e dalla maggioranza del Comitato centrale del PCI, a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, era che bisognasse dare vita a una nuova formazione politica per aggregare le forze riformatrici emergenti nel Paese, che la tradizione comunista non era in grado di avvicinare. La motivazione, in sé, era nobile. Ma il calcolo fu disatteso. Perché, nel corso di un decennio e mezzo, il PDS prima e i DS dopo si sono ritrovati all'incirca con la metà dei voti del vecchio PCI.

Che cos'è successo? È successo che, dopo il crollo del muro di Berlino, gli ex comunisti hanno fatto sì i conti con il passato, ma sul versante più semplice e scontato. Si sono limitati a ribadire la loro distanza dal socialismo reale, così come si era articolato nell'Unione sovietica e nei paesi dell'Est europeo. Già! Ma il PCI era stato filosovietico soltanto a parole, nei fatti aveva incarnato a tutti gli effetti una forza socialdemocratica. Troppo facile lasciarsi alle spalle le parole d'ordine del leninismo e dello stalinismo!

È su un altro versante che bisognava fare i conti: quello della crisi delle socialdemocrazie europee, appunto, già annunciata negli anni Ottanta (gli anni della Thatcher e di Reagan), e poi esplosa nel decennio successivo. Tali conti non sono mai stati fatti, neppure ora. Eppure non si tratta di una cosa da poco. Perché, per dirla un po' grossolanamente, a cosa serve una sinistra di governo, se gli Stati non hanno più la forza, né economica né politica, di assicurare quell'uguaglianza delle opportunità senza la quale non esiste nessuna politica di sinistra?

Di fatto, quella del governo Prodi è una politica democristiana: un occhio alle esigenze del mercato e un altro alla sicurezza sociale. Per giunta, una politica al ribasso su entrambi i fronti. Ma se è la stessa sinistra a riconoscere che questa, al momento, è l'unica soluzione realistica possibile, allora perché l'elettorato non dovrebbe preferirle le forze storiche che di quell'esperienza sono le più coerenti eredi?

sabato 15 settembre 2007

La scaletta della sinistra

Una volta appartenevo, più o meno, all’area di destra del PCI. Per la verità, mi disturbava l’eccessiva indulgenza verso il craxismo dimostrata da molti leader del riformismo milanese. Però ne apprezzavo la lucidità di ragionamento, così lontana dallo sterile ideologismo che paralizzava tanta parte della sinistra, italiana ed europea (per tacere di quella latinoamericana). Ma, soprattutto, del riformismo condividevo gli obiettivi fondamentali: il programma di lavoro.

Per dirla in parole semplici, ero convinto che "migliorare" la società volesse dire provare a combinare gli scopi del liberalismo e quelli del socialismo. Da una parte, le libertà; dall’altra, l’uguaglianza. Una sintesi tutt’altro che facile e sempre instabile, che però si era già rivelata fruttuosa in qualche parte dell’Europa occidentale, garantendo un’organizzazione della società più giusta ed equa. Era realistico pensare che potesse funzionare anche in Italia.

Su una politica di questo genere, socialisti e comunisti avrebbero potuto tornare a convergere. Se i loro fini tattici per il momento differivano, il DNA era lo stesso. La storia era lì a dimostrare che entrambi i due principali tronconi della sinistra italiana si collocavano di fatto nella piccola ma operosa famiglia della socialdemocrazia europea, non in quella più grande ma miope del socialismo reale. Questa era la mia convinzione.

Poi, mi sono sentito scavalcato a destra. E ho smesso di fare politica in modo attivo (continuando però a interessarmene, da elettore e da giornalista). Perché non capivo più. Intendiamoci, sono più aristotelico che platonico: non sopravvaluto l’importanza e la forza delle idee. Ma, secondo me, un faro nell’azione è meglio averlo. È difficile scrivere un articolo o un libro senza stendere prima una scaletta, che certo si potrà poi correggere e, se necessario, anche ribaltare, ma possiamo correggerla appunto perché l’abbiamo prima abbozzata. E la scaletta dell'odierna sinistra italiana mi pare alquanto confusa o, quanto meno, troppo poco ambiziosa.

In fondo, al di là delle dichiarazioni programmatiche, ci accontentiamo di amministrare il presente. E va bene, niente vieta di farlo. Ma, in questo caso, la politica muore. Si riduce a pura tecnica o a sistema d'impresa. La bontà o meno di un'azione o di un programma di governo si misura allora nei termini dell'economia. Sappiamo offrire ciò che gli elettori domandano? La nostra offerta è migliore di quella della destra? E se, per disgrazia, scoprissimo che loro amministrano meglio? Questo è un interrogativo che mi riempie di angoscia.

domenica 9 settembre 2007

Un’idea onirica

Nel vocabolario della sinistra, c’è una voce che è stata del tutto rimossa: alienazione. E, forse, meglio di qualcunque altra cosa è tale rimozione a dare l’idea di quanto sia radicale la mutazione genetica avvenuta in questo fronte del mondo delle idee.

Mettere in soffitta Marx è stata una decisione saggia dal punto di vista della politica praticata. Ma, dal punto di vista della cultura (la teoria politica), era necessario fare un bilancio più sereno e meno frettoloso, evitando di gettare il bambino con l'acqua sporca. In effetti, la critica dell’alienazione collocava la cultura di sinistra all’interno di una più ampia tradizione: quella di un umanesimo democratico e industrioso, che si poneva l’obiettivo di liberare l'uomo dai suoi mali storici. L’antitesi di quell’altro umanesimo, aristocratico e letterario, notoriamente incline a rifuggire dalla realtà per ripiegare nel culto di una bellezza tanto squisita quanto sdegnosa.

Fu questa tensione liberatoria (molto più del confuso programma di una società alternativa) ad avvicinare al movimento comunista una massa di intellettuali di varia provenienza: neorealisti, esistenzialisti, neopositivisti, liberali, francofortesi... Certo, non tutto è oro quel che luccica. A sostenere quella tensione era un eterogeneo bagaglio ideologico che - a dispetto delle intenzioni - finiva spesso con il mettere le «braghe» alla Storia.

Nessuno può seriamente rimpiangere le dispute dottrinarie che hanno tanto accalorato molti funzionari di partito e molti intellettuali, limitandone di fatto la forza creativa e irrigidendone la produzione delle idee. L’ideologia è sempre una brutta bestia. Ma la critica all’alienazione conteneva, in nuce, anche la critica all’ideologia, in quanto essa stessa strumento di alienazione.

Qui, la rottura con il passato è stata più che deleteria, e ha finito con l’abbandonare ogni progetto di liberazione a forze religiose di varia natura, che possono oggi legittimamente presentarsi come le sole rimaste a difendere le ragioni dell’uomo contro le minacce delle due forze uscite vincitrice nella lotta della modernità: il Capitalismo e la Tecnica.

Questo blog nasce, senza farsi troppe illusioni, dall’idea quasi onirica che la sinistra, se vuole sopravvivere, debba tornare, con il senno di poi, a ripensare la propria funzione critica, e farsi di nuovo portatrice di un umanesimo aggiornato, capace di mettere il dito nella piaga delle alienazioni. Non si proporranno ricette né programmi, e neppure si trarranno conclusioni (non è questo il luogo).

Si proverà, invece, a verificare qualche ipotesi. E, soprattutto, ad affondare lo sguardo in alcuni fatti emblematici del presente culturale e politico, cercando - se possibile - di estremizzarne le contraddizioni, perché è la critica che può salvarci dall’ideologia e dalle opinioni passivamente ricevute.

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