Luciano De Crescenzo. A spasso con Eraclito (1994)

LUnità 19 dicembre 1994
di Giuseppe Gallo 

Convertitosi alle lettere in età avanzata dopo aver lavorato per anni come ingegnere alla Ibm, Luciano De Crescenzo ha saputo ritagliarsi uno spazio assai ampio all’interno del mercato librario, divenendo titolo dopo titolo – da Così parlò Bellavista alla Storia della filosofia, da Elena Elena amore mio all’ultimo Panta rei – un perfetto produttore di «best seller», personaggio televisivo (come in una recente puntata del Laureato con Piero Chiambretti), polemista onnipresente, come in una recente intervista apparsa sul Giornale di Feltri, intervista in cui accusava gli intellettuali di sinistra di indifferenza nei suoi confronti e della sua opera divulgativa e quindi di aristocraticismo. De Crescenzo intanto ha di nuovo scalato le vette della classifica, minacciando con Eraclito, il filosofo del «Panta rei», il primato di Giovanni Paolo II e di Susanna Tamaro (duecentomila copie vendute, secondo i dati Mondadori, a un mese dall’uscita in tre edizioni).
Ma il successo di De Crescenzo non è solo italiano: è stato tradotto in trentacinque paesi, ha venduto otto milioni di copie e con Così parlò Bellavista è rimasto in classifica per trentacinque settimane in Germania. L’ultimo segnale della sua immensa fortuna di pubblico viene da Atene: la capitale greca gli ha infatti conferito sabato scorso la cittadinanza onoraria, proprio in virtù della sua opera di divulgazione della cultura classica, dimostrando così che il pubblico di massa è in grado di appassionarsi anche agli argomenti più ostici. Come il pensiero dei presocratici o quello del più enigmatico dei filosofi greci, Eraclito, a cui è dedicato il suo ultimo volume, Panta Rei (tutto scorre). Il successo dei suoi libri è stato favorito in maniera determinante dalla popolarità televisiva, ma piaccia o no, lo scrittore napoletano ha saputo rispondere al bisogno di informazione avvertito da vaste ed eterogenee fasce di lettori.
A loro si è proposto senza indulgere ad atteggiamenti paternalistici, ostentando piuttosto la sua normalità di uomo semplice che si è informato e riferisce quello che ha appreso in un linguaggio alla mano vivacizzato dalle briose risorse di fantasista che indubbiamente possiede. Si può discutere su molte delle interpretazioni proposte, tuttavia bisogna riconoscere che ha saputo trasmettere una concezione positiva della cultura, incoraggiando ad avere fiducia nel dialogo e nelle capacità razionali degli uomini.
De Crescenze, lei tende sempre a ridurre umoristicamente la figura dei filosofi antichi. Nei confronti di Eraclito sembra però più propenso del solito ad accentuare i tratti negativi. Perché?
Ma no, non è del tutto vero che insisto sugli elementi negativi. Posso darne la dimostrazione. Nel libro racconto di avere sognato il filosofo Eraclito nella piazza del Duomo di Ravello. Avrei potuto dire che a un certo punto, avendo sentito un fortissimo odore di merda, mi sono voltato e ho visto un vecchio con una tunica bianca tutta macchiata di marrone che emanava questo enorme puzzo: ammalatosi di idropisia, Eraclito si era infatti immerso nel letame fino al collo perché così gli avevano consigliato di fare i medici, e invece di guarire, nel letame morì. Avrei potuto sfruttare questa circostanza: ne avrei ottenuto un effetto comico. Ma non l’ho fatto. Per rispetto del filosofo.
Però lo presenta come un uomo scorbutico, litigioso, arrogante...
Lui era così. Disprezzava gli altri. Predicava contro la tracotanza ma era tracotante lui stesso. Era tutto fuorché un democratico: fosse stato per lui, non avrebbe fatto votare nessuno. I filosofi e i poeti che lo hanno preceduto li liquidava senza troppi complimenti. Ci sono frammenti nei quali Eraclito esprime parole di fuoco contro Omero, Pitagora («principe degli imbroglioni», lo definisce), Esiodo. Io mi sono ispirato a questi frammenti per giustificare l’atteggiamento di superiorità che egli manifesta verso i suoi colleghi invitati come lui in un talk-show a discutere del problema irrisolto dell’arké o elemento primordiale.
Ma dalla lettura di questo filosofo enigmatico che cosa si può ricavare di ancora valido?
Nonostante tutti i difetti che aveva, Eraclito ci rivolge un invito alla razionalità, al logos, al pensiero: e la sua utilità sta anzitutto in questo invito che è oggi più valido che mai. Troppo spesso noi prendiamo posizione seguendo le emozioni più che il ragionamento. Anche i giudizi politici sono per lo più viziati dall’emotività. Abbiamo caricato parole come destra e sinistra di significati che a queste parole non competono. Perché destra e sinistra sono solo due scelte economiche di sviluppo, tendenti l’una alla rivalità e l’altra alla solidarietà. Eraclito ci suggerisce di adoperare la ragione, allo scopo di moderare la prima e incentivare la seconda. Da questo punto di vista Eralcito è modernissimo.
Più in generale, quale utilità presenta oggi lo studio dei filosofi antichi? Perché vale la pena divulgare le loro tesi?
In quanto appassionato di filosofia greca, so di essere parziale: mi fa velo l’affetto che ho verso i greci. Come quei tifosi che parlano solo della loro squadra, così io non riesco se non a parlare della Grecia o attraverso i greci. È che ho l’impressione che essi abbiano già detto tutto. Uno legge il Simposio di Platone e capisce quello che c’è da capire nella vita, capisce l’importanza dell’amore, l’importanza di certi valori. Legge la Costituzione degli ateniesi di Aristotele e capisce come dovrebbe essere fatto un governo.
Ma nel discutere del pensiero filosofico dei greci, quanto spazio è disposto a riservare alla fantasia?
Mah, vede, noi ricordiamo benissimo certi personaggi della letteratura: Rossella O’Hara, Raskolnikov, Emma Bovary. Perché? Perché lo scrittore che li ha creati ha dato loro vita, descrivendone il carattere, l’aspetto, le abitudini: ha spiegato come camminavano, che cosa facevano, quali vezzi avevano, quali difetti, quali qualità. Se vogliamo che i lettori ricordino che cosa hanno detto Anassimandro, Anassimane, Anassagora, e non li confondano l’uno con l’altro, dobbiamo fare altrettanto, raccontare qualcosa in più. Io penso di essere il contrario del Bignami. Se Bignami sintetizzava, io mi dilungo, amplio il profilo indulgendo su piccoli fatti di vita quotidiana. Sempre, beninteso, cercando di rispettare la verità. Il problema è la scelta del linguaggio. Quando parliamo, quasi istintivamente modifichiamo il linguaggio calibrandolo sull’ascoltatore. Per cui se mi rivolgo a un bambino di cinque anni uso un linguaggio, se mi rivolgo all’idraulico ne uso un altro, e se converso con un collega ingegnere ne uso un altro ancora. Al contrario di quel che fanno molti, quando scrivo cerco di vedere davanti a me non il critico letterario, non l’amico scrittore, ma i lettori reali che posso raggiungere. Ecco io mi curo di modulare il linguaggio in modo da facilitare la comprensione ai lettori.
Lei, però, si sente più narratore o divulgatore?
Senz’altro più divulgatore. Ma non è che io divulgo solo la filosofia, quello del divulgatore è proprio il mio modo di essere. Mi dà soddisfazione dividere il sapere con gli altri, trasmettere delle emozioni. Perché il piacere che gli altri provano nel vedere o nell’apprendere certe cose mi permette di riprovare il piacere che io stesso un tempo ho provato. E questo bisogno di riprovare il piacere originario lo soddisfo quando faccio lo scrittore, lo sceneggiatore, il regista e qualsiasi altra cosa. Io non andrei mai a Capri da solo. Ma se posso portarvi qualcuno che non l’ha mai vista ci torno volentieri perché attraverso gli occhi di questa persona posso tornare ad apprezzare quel che di bello si può vedere a Capri.
E la popolarità le dà soddisfazione?
No, la popolarità è una minaccia pericolosissima. Quasi tutte le persone che hanno visto aumentare la popolarità, che è cosa diversa dal successo, hanno perso il controllo di sé. Quasi tutte. Si diventa infelici, si vive chiusi agli arresti domiciliare, si ha paura della gente. Soprattutto si finisce con l’avere un’opinione falsata di se stessi: ti viene il complesso del padreterno, di Caligola. Mi piacerebbe che si istituisse un premio della normalità da assegnare a chi si è distinto per essere rimasto uguale a come era prima.
E il successo, invece?
Il successo è un’altra cosa. Il successo si ha quando si è contenti di se stessi, e cioè quando si ha la sensazione di avere raggiunto gli obiettivi che ci eravamo proposti. Quando insomma qualcosa ci dà la convinzione di essere riusciti a trasmettere agli altri quello che ci stava a cuore.
© Giuseppe Gallo (1994)
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