giovedì 28 agosto 2008

Il dono tra l’impossibile e il pensabile

di Susanna Janina Baumgartner

Il dono, se vi è dono, può essere possibile solo nell’istante che interrompe il tempo come circolo, e che sottintende quindi sempre un ritorno. Quando vi è circolazione di beni, vi è economia. Il dono, per essere dono, dovrebbe rompere l’inevitabile catena dello scambio tra donatario e donatore, essere aneconomico, mantenendo nei confronti del circolo un rapporto di estraneità. È forse proprio in questo senso che il dono è impossibile. Di più, è l’impossibile, come scrive Jacques Derrida in Donare il tempo. La moneta falsa (edito in Italia da Raffaello Cortina).

Affinché vi sia effettivamente dono, non deve esserci reciprocità, scambio, debito contro-dono che rende il dono una trappola per afferrare l’altro nella rete dell’obbligo, per legare e togliere libertà all’altro. Il donatario ha il dovere di non dovere, se vi è dono, e il donatore di non dare per scontata la restituzione. Bisognerebbe non riconoscere il dono come dono, perché già riconoscendolo come dono, come presente, entra in gioco uno scambio, a livello simbolico, che pone una condizione o condizioni fra chi dona e chi riceve. E tuttavia non vi è dono senza l’intenzione di donare; intenzione che fa correre al dono il rischio di trattenersi. Il dono, come l’evento, come evento, deve restare imprevedibile, ma restarlo senza trattenersi. Deve apparire

Ci vuole del caso, dell’occasionalità, dell’involontario e ci vuole anche della libertà intenzionale, perché vi sia l’evento in grado di nominare il dono in quanto tale. Forse, è proprio nel tratto che si crea tra l’impossibile e il pensabile che si apre la dimensione in cui c’è dono, e anche la dimensione dove può esserci il tempo per donare e per essere. Questo tratto, che consiste in un non trattenersi, è la traccia che, come cenere, richiama un evento; l’istante di un tempo senza tempo che è già l’oblio. L’oblio sarebbe nella condizione del dono e il dono sarebbe nella condizione dell’oblio. Non si tratta quindi di condizioni nel senso in cui si pongono delle condizioni.

È necessario che ci sia evento, dunque richiesta di racconto ed evento di racconto, affinché ci sia dono o fenomeno di dono. Il dono e l’evento non obbediscono a niente, se non a principi di disordine, cioè a principi senza principio; devono lacerare la trama, devono perturbare l’ordine della causalità, in un istante.

L’oblio, se è costitutivo del dono, non può essere privo di un rapporto con l’oblio dell’essere; l’oblio è un altro nome dell’essere. Condizione affinché si dia un dono, è che vi sia oblio dal lato del donatario e dal lato del donatore. Non vi deve essere “soggetto” che conservi nella memoria il dono; se vi è memoria, verrà ricordato come simbolo in generale, come simbolo di un sacrificio che implica immediatamente una restituzione.

Il sacrificio si distingue sempre dal dono puro (se ce n’è). Il sacrificio propone la sua offerta solo nella forma di una distruzione contro cui scambia, spera o dà per scontato un beneficio. Lacan scrive, riguardo al sacrificio, che non è destinato né all’offerta né al dono, ma alla cattura dell’Altro nella rete del desiderio. Un dono, nella sua purezza, non deve essere legato e nemmeno essere legante, obbligante.

Il dono, eccedendo, dona il tempo. Dove c’è il dono, c’è il tempo. Questo dono del tempo, è anche una domanda di tempo. Non è nel tempo, ma chiede e prende tempo. Il dono si legherà, pur senza legare, alla necessità di una certa poetica del racconto. Il donato del dono non accade, se accade, che nel racconto. E in un simulacro poematico della narrazione.

Si ritorna alla problematica della traccia che si intreccia con quella del dono e che si inscrive nella scrittura stessa, nel testo. Ciò non implica che la scrittura sia generosa e che il soggetto scrivente sia un soggetto donante; ma lì dove c’è traccia e disseminazione, se ce n’è, può avere luogo un dono. Un istante raccontato, donato, che dona e uccide il tempo e può così nominare il dono; perdendolo e conservandolo nell’istante stesso del racconto. Nel desiderio di “produrre un evento”, un’occasione di creare l’evento-dono. Si può donare con generosità, ma non si può donare per generosità. Affinché vi sia una possibile purezza dell’impossibile dono e perché questo dono sia quantomeno pensabile e nominabile.
fortuito, essere vissuto in ogni caso come tale.

mercoledì 13 agosto 2008

Batman, eroe pentito

Diciamolo subito, per fugare ogni equivoco: Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan è un film tanto maestoso per quel che riguarda la fotografia e i movimenti della cinepresa quanto farraginoso dal punto di vista narrativo. Ciò non significa tuttavia che sia sprovvisto di motivi di interesse critico. Anzi. Per prima cosa, è opportuno sottolineare che si tratta di qualcosa di più di un puro e semplice sequel (una ripresa a posteriori di una pellicola di successo volta a sfruttarne i fasti commerciali). Piuttosto, Il cavaliere oscuro si presenta come secondo capitolo di una saga concepita fin dall’inizio in forma unitaria, con uno sviluppo coerente e consequenziale (anche gli attori sono gli stessi). E ciò non tanto perché il seguito era già annunciato dall’ultima scena di Batman Begins, bensì perché il regista aveva conferito all’intera orchestrazione del primo film un ampio respiro che non si esauriva nell’iniziazione del protagonista e, anzi, rendeva necessaria una nuova puntata che completasse il resoconto del suo destino, rimasto in sospeso.

Visti uno dietro l’altro (com’è consigliabile), i due film raccontano la parabola del processo di autocoscienza di Bruce Wayne: dalla presa d’atto di essere chiamato a una missione (combattere il crimine), che esige il superamento di se stesso e la trasformazione in Batman, alla percezione che tale missione non basta più e che Gotham City ha bisogno di un differente eroe, pronto ad agire allo scoperto nel rispetto della legge. Certo, come è consuetudine del racconto seriale, anche la fine di Il cavaliere oscuro lascia aperta l’eventualità di una successiva puntata. Ma, perché sia credibile, sarebbe necessario introdurre una nuova parabola narrativa: cioè raccontare una storia completamente diversa. Il racconto, questa volta, è concluso.

Naturalmente, l’evoluzione del protagonista condiziona in maniera determinante le scelte di strutturazione narrativa, e proprio la differenza strutturale delle due pellicole è l’aspetto che salta maggiormente all’occhio. In Batman Begins, Nolan indulge ben più di quanto avvenga nella versione fumettistica sul dramma familiare di Wayne, che è all’origine della nascita di Batman, e sulle inquietudini interiori che ne accompagnano l’iniziazione. Gran parte della vicenda, in effetti, è consacrata alla lotta che Wayne ingaggia con se stesso e con le proprie paure, prima che con l’antagonista. Non a caso la maschera di Batman fa la sua prima apparizione in scena solo dopo una quarantina di minuti. Forse in Batman Begins il regista addirittura eccede nella preoccupazione di fornire una giustificazione psicologico-morale alla scelta dell’illegalità compiuta dal personaggio. Ma il film possiede un’indubbia compattezza, e gli schemi del racconto d’avventura si fondono bene con quelli del dramma interiore in un ritmo accortamente pausato secondo i modi più congeniali a Nolan, come conferma la sua pellicola più riuscita, Memento.

Sta di fatto che, espletate le esigenze di giustificazione preliminare nella precedente puntata, in Il cavaliere oscuro Nolan può concentrarsi liberamente sull’intrigo avventuroso, conferendo alla vicenda un ritmo più vivace e, addirittura, indemoniato. Fin dalla prima scena, l’azione qui ha decisamente il sopravvento sullo scavo psicologico. Il prezzo però è alto: la figura di Wayne/Batman perde, infatti, in complessità e, soprattutto, perde gran parte di quel carattere ambiguo che costituisce la cifra distintiva del fumetto ideato da Bob Kane e Bill Finger.

Il Batman originario è una figura inquietante, non solo perché, come molti eroi del noir, combatte i criminali usando i loro stessi mezzi (e cioè agendo nell’illegalità), ma anche perché si porta dietro tutti gli elementi notturni dell’archetipo del doppio. In conformità con la maschera adottata, è un’ombra che si muove con agilità nell’aria (piomba giù dai tetti dei babelici grattacieli di Gotham) ma, con la stessa disinvoltura, penetra nei meandri sotterranei, si nasconde nelle grotte degli inferi (fra i molti eroi mascherati, nessuno conserva più di lui il ricordo dell’origine funeraria della maschera). Ed è noto che, se bisogna affondare nelle tenebre per rinascere (è il tema di Batman Begins), nondimeno non si ha mai la certezza di uscirne incontaminati, neppure quando si è capaci di spiccare il volo.

In Il Cavaliere oscuro, al contrario, Batman è un eroe fin troppo coscienzioso e positivo, quasi che non riesca a emanciparsi dal controllo morale di Wayne (siamo agli antipodi del mito del dottor Jeckyll e di mister Hyde). A dispetto del titolo, parrebbe insomma che il regista abbia voluto riscattare il personaggio dal buio della notte e dal suo stesso superomismo, accordandogli un carattere più umano, da americano medio (e ciò anche se, dal punto di vista sociale, Wayne apparterrebbe in realtà all’alta borghesia industriale). Di qui, per esempio, la curiosa insistenza sulla gelosia affettiva, che altrimenti risulterebbe ingiustificabile per le caratteristiche del mito.

Date queste premesse, è comprensibile che Wayne/Batman abbandoni i panni del giustiziere solitario per agire di concerto con le forze di polizia, sostenuto da un solido tessuto di rapporti umani. Questa scelta compositiva rappresenta certamente un fattore di originalità. Nello stesso tempo, però, riduce la libertà d’azione del personaggio, che si trova imbrigliato nelle tante relazioni aperte. E, naturalmente, vanifica uno degli elementi narrativi più fecondi del racconto originario: appunto, la tensione fra l’eroe e i funzionari deputati alla sicurezza pubblica. Solo nel finale questo tema riaffiora, per effetto di una decisione dello stesso Batman, in modi a dir poco artificiosi (sembra quasi che Nolan si sia accorto di aver perso per strada uno dei temi archetipici e che abbia voluto incollarlo a forza). Più in generale, l’impressione è che l’ossessione a fare del personaggio un uomo perbene finisca con lo svuotare il mito, anziché arricchirlo.

In compenso, con il procedere della vicenda acquista spessore la figura del Joker, molto ben interpretato da Heath Ledger (precocemente scomparso lo scorso gennaio all’età di ventotto anni) che, a nostro avviso, non sfigura affatto nel confronto con un gigante come Jack Nicholson, che diede il volto allo stesso personaggio nel Batman di Tim Burton. D’altra parte, proprio il Joker è il motore della vicenda e, fin dall’inizio, si impone come l’autentico eroe del film, ben più dell’uomo-pipistrello.

In effetti, mentre quest’ultimo si limita a reagire in maniera tutto sommato prevedibile utilizzando i mezzi che gli sono consueti, il primo è una miniera inesauribile di trovate fantasiose, che spiazzano tanto gli antagonisti quanto lo spettatore. Proprio questa sua fantasia reclama il riconoscimento di una “superiorità” morale e intellettuale: in definitiva, il Batman del Cavaliere oscuro ricava la propria forza esclusivamente dalla tecnologia, il Joker dalla propria arguzia, sia pure assassina. Qui, sta il vero motivo di interesse del film che, se narrativamente appare meno compiuto di Batman Begins, sul piano dei contenuti risulta ben più conturbante e ardito in quanto ci invita a parteggiare per il cattivo o, almeno, a simpatizzare con lui.

Naturalmente, il codice narrativo condanna il personaggio alla sconfitta. Ma si tratta di una sconfitta apparente. In realtà, il Joker ottiene tutto ciò che vuole, e solo per mezzo della menzogna Wayne/Batman e i suoi amici possono rassicurare la comunità di Gotham, contravvenendo ai principi di trasparenza democratica proclamati in precedenza. (Ci si perdonerà se non possiamo essere più precisi, ma non vogliamo guastare la sorpresa a chi ancora non abbia visto il film.)

Ma, soprattutto, è la beffarda sentenziosità apodittica a fare la grandezza di questo personaggio, che con il procedere del film dimostra una consapevolezza “metafisica” che lo distingue dai tanti geni del male che popolano le saghe dei supereroi, i racconti criminali e le spy story. Il Joker non perpetra il male per ricavarne qualche profitto in termini economici o di potere. E tanto meno prova un sadico piacere nel compiere i suoi atti scellerati. No, egli è piuttosto un superbo e tragico eroe nichilista, che combatte per una sua idea del mondo, aspirando a spalancarci gli occhi sull’assurdità dell’esistenza e sugli abissi della vita consociata. Il suo parente più prossimo, fatte le debite proporzioni, è il Caligola di Albert Camus.


Il cavaliere oscuro
regia di Christopher Nolan

cast Christian Bale (Bruce Wayne/Barman) ● Heath Ledger (Joker) ● Michael Caine (Alfred Pennyworth) ● Gary Oldman (James Gordon) ● Aaron Eckhart (Harvey Dent/Due Facce) ● Maggie Gyllenhaal (Rachel Dawes) ● Morgan Freeman (Lucius Fox)

sabato 2 agosto 2008

Herzog, la storia occulta

Realizzato nel 2001, Invincibile è arrivato nelle sale italiane soltanto lo scorso 25 luglio. Un ritardo di ben sette anni, difficile da comprendere. Soprattutto se si considera che il film, regolarmente uscito nei paesi europei dopo essere stato presentato alla mostra di Venezia, si distingue dalle precedenti pellicole di Werner Herzog per un linguaggio più accessibile al pubblico di massa (all’epoca, sul «Corriere della Sera», Maurizio Porro lo definì un linguaggio «più tradizionale, quasi televisivo»).

Ambientato poco prima dell’avvento al potere di Hitler, Invincibile racconta la storia di un giovane e forzuto ebreo, Zishe Breitbart, che lavora come fabbro in un piccolo villaggio della Polonia orientale. Notato per la sua forza da un impresario teatrale, il giovane accetta, dopo qualche esitazione, di trasferirsi a Berlino, dove viene ingaggiato in uno strano teatro: il “Palazzo dell’occulto” di Erik Jan Hanussen, un ambizioso e spregiudicato illusionista che fa esplicita propaganda per Hitler e sogna di diventare un giorno ministro dell’occulto nel suo governo.

Qui, costretto a celare la propria identità, Zishe si esibisce nei panni di un eroe germanico di nome Sigfrid. Finché, intuendo il pericolo che incombe sull’Europa, non dichiara con orgoglio le proprie origini, intenzionato a mettere in guardia la comunità ebraica e ad assumere il ruolo di un moderno Sansone.

La storia (in cui i colpi di genio si alternano a scene un po’ troppo didascaliche) mescola liberamente le vicende di due personaggi davvero esistiti, rispettandone tuttavia solo in parte la verità storica (nato nel 1883, per esempio, Siegmund Zishe Breitbart era in realtà più anziano di sei anni di Hanussen e, dopo una carriera di successo nei teatri europei e americani, morì nel 1925, con tutta probabilità senza aver mai sentito nominare Hitler, che allora era ancora soltanto un agitatore di provincia).

Tanto la struttura narrativa quanto lo stile riecheggiano le consuetudini del racconto fiabesco. A conti fatti, Zishe è una sorta di Cappuccetto Rosso al maschile: un uomo ingenuo e dal cuore buono che, abbandonata la sicurezza del focolare domestico, si avventura con stupito dolore nel ferale mondo dei grandi, dominato dalla violenza, dall’inganno e dalla brama di potere.

Ma su questa base fiabesca, a tratti persino leggera, poggia tutta una complessa serie di riferimenti colti, di carattere sapienziale, mitico-letterario o onirico-simbolico: le frasi sentenziose di Benjamin Breitbart (fratello minore di Zishe) e dello stesso Hanussen; gli echi del mito dell’ebreo errante, che accomunano Zishe, Hanussen e l’apolide pianista Marta Farra (succube dell’ambiguo e oscuro mago); l’acquario di meduse nel “Palazzo dell’occulto”, i granchi rossi nei sogni di Zishe…

Al centro della vicenda vi è tuttavia il gruppo di scene che mettono a confronto, per contrasto e per analogia, le personalità di Hanussen e Zishe: opposti per carattere e morale, e tuttavia uniti dal medesimo destino. Il primo è chiaroveggente per professione e, in virtù dei suoi trucchi, incontra il favore entusiastico del pubblico tedesco. Il secondo diventa chiaroveggente per illuminazione storica ma, a dispetto della verità annunciata, non sarà creduto dal piccolo “pubblico” polacco, che nel 1933 teme la Russia molto più della Germania, ancora gravemente penalizzata dalle sanzioni del Trattato di Versailles.

Naturalmente, il film può essere interpretato come una riflessione “trasversale” sull’antisemitismo e sulla violenza nazista, condotta con originale spirito problematico. Tuttavia va anche riconosciuto che, nell’economia narrativa, l’accento cade sullo stupore suscitato dall’unicità eslege della vicenda umana dei due protagonisti più che sull’orrore della Storia. Questo aspetto dovrebbere essere indagato in profondità (più di quanto si possa fare in queste brevi note). Perché qui siamo dinanzi al nucleo centrale dell’ispirazione di Herzog: ossia al suo motivo di forza e, insieme, al suo limite, che lo induce a rifuggire dal vero e proprio confronto con le istituzioni della realtà politico-sociale, che pure vengono di continuo evocate nelle sue opere. (Né è forse un caso che i suoi film maggiori di fiction tendano a ignorare la contemporaneità urbana e borghese: una scelta abbastanza curiosa per un regista che ha all’attivo una ricca e talvolta qualitativamente straordinaria produzione documentaristica.)

Per dirla in termini spicci, Herzog rompe tanto con gli schemi del genere storico che si volge al passato per rintracciare la genesi delle contraddizioni del presente (I promessi sposi) quanto con gli schemi del genere antistorico che torna al passato per denunciare il carattere intrinsecamente immutabile del destino consociato (Il Gattopardo). Per il grande cineasta bavarese, la Storia è de facto un enorme scrigno a cui attingere per reperire storie (con la minuscola) di vite eccentriche, fuori dell’ordinario, sul confine della follia o addirittura al di là di esso.

Proprio questo programmatico disinteresse per la medietà umana e sociale fa di Herzog il regista meno borghese (e, forse, il più rigoroso e geniale) delle tre corone del cinema tedesco (Herzog, Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders). E gli consente di sperimentare forme artistiche di una grandiosità quasi wagneriana, che ha pochi analoghi nella produzione cinematografica e culturale contemporanea. Nello stesso tempo, però, lo espone a un gigantesco rischio: quello di cadere nell’ambito sontuoso dell’extravagant o del mirabilis.

In fondo, con ogni suo film Herzog non fa che aggiungere un ulteriore affascinante e prezioso dipinto alla ricca galleria di ritratti umani che compongono la sua opera: personaggi artisticamente notevoli, che assommano nel fisico e nello spirito caratteri semifantastici e talvolta addirittura semimostruosi. Ma che abitano in un dimensione parallela alla nostra e nei quali sarebbe arduo immedesimarsi. Il che equivale a dire che vivono le loro contraddizioni, le loro
angosce (e lo fanno sino all’estremo). Ma non strappano al buio le nostre: non ci trascinano di fronte a uno specchio.

Invincibile

regia e sceneggiatura Werner Herzog

cast Jouko Ahola (Zishe Breitbart) ● Tim Roth (Erik Jan Hanussen) ● Anna Gourari (Marta Farra) ● Max Raabe (il presentatore) ● Jacob Wein (Benjamin Breitbart) ● Gustav-Peter Wöhler (Alfred Landwehr) ● Udo Kier (conte Helldorf) ● Herbert Golder (rabbino Edelmann) ● Gary Bart (Yitzak Breitbart) ● Renate Krößner (madre Breitbart)

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