mercoledì 28 ottobre 2009

Nuvoletti: il PCI in vacanza

Alla fine degli anni Settanta, Capalbio è già «un posto pieno di comunisti», che vi trascorrono le vacanze assieme a «mezza aristocrazia milanese che possiede tutta la costa». Tuttavia questo «delizioso accidenti di paesino medievale» a sud della Toscana non è ancora stato preso di mira né dai vip né dai flash dei fotoreporter né dalle folle di turisti che vi si sarebbero riversati negli anni a venire. Conservava anzi un suo aspetto selvatico, «molto folk», punteggiato dalla presenza dei cinghiali: «una pizza mortale» per una ragazza dell’età di Libera, protagonista di L’era del cinghiale rosso di Giovanna Nuvoletti (Fazi Editore, pp. 278, euro 18,50).

Quando arriva a Capalbio per la prima volta nel ’77, Libera ha appena tredici anni e non trova «niente di che» nel «passare le serate al ristorante a mangiar salsicce di cinghiale coi comunisti» o nell’andare a vedere un Roberto Benigni ancora pressoché ignoto che gira Il comizio: anzi, fa spallucce, risale sul motorino, e se ne va per la sua strada. Ha ben altro per la testa: ha voglia di consacrarsi alla sua vitalità giovanile, desiderosa di nutrirsi di musica, amori, balli, svaghi. Proprio tale vitalità è all’origine di una diffidenza critica verso il clericalismo comunista che, con l’età della ragione, acquisterà un diverso spessore, traducendosi in un anticonformismo liberale o meglio libertario, a volte scanzonato e a volte crudelmente tranchant.

L’era del cinghiale rosso è un originale romanzo storico che racconta le vicende della sinistra italiana e del nostro Paese secondo un punto di vista programmaticamente defilato e parziale: quello di una figura femminile caratterizzata da un misto di istintualità e problematismo critico che, a dispetto delle difficoltà economiche, ha il privilegio di conoscere da vicino alcuni dei massimi protagonisti della cultura e della politica italiana tra prima e seconda Repubblica: Alberto Asor Rosa, Giacomo Marramao, Carlo Muscetta, Philippe Daverio, Aldo Tortorella, Achille Occhetto, Claudio Petruccioli, Enrico Manca, Giorgio La Malfa, Claudio Martelli, Chicco Testa, Francesco Rutelli, e tanti, tantissimi altri.

Sotto questo profilo, L’era del cinghiale rosso forma col precedente Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più una sorta di dittico letteriario. Gli elementi di consonanza tematica e compositiva sono infatti più che evidenti: il mare, le vacanze, i vip, il taglio degli episodi, la tensione antiromanzesca... Nondimeno, se i Gamberi si distinguono per la maggiore complessità espressiva e strutturale (al tema storico si intreccia qui quello privato-esistenziale, legato al suicidio materno), L’era del cinghiale rosso si presenta come un romanzo più compatto, linguisticamente sciolto e divertito, ricco di autoironia: Libera si prende difatti la liceità di ritrarre la stessa Nuvoletti, senza peraltro farle troppi sconti, anzi!

Ma cosa rimprovera la protagonista-narratrice ai comunisti? Sostanzialmente, di essere comunisti o – il che è lo stesso – di non essere liberali. La contrapposizione è spesso netta: «L’attività principale di buona parte degli intellettuali era prendersela con la centrale nucleare di Montalto, che mai nacque», mentre lei, Libera, al nucleare è «sempre stata favorevole». E quando a Capalbio fa capolino Toni Negri «per abbracciare Alberto Asor Rosa», la ragazza non ha mezzi termini: pur avendo «sempre nutrito un certo affetto» per i radicali, lei il professore di Padova non lo avrebbe mai candidato. Ma soprattutto, quando Pietro Ingrao in TV afferma che l’invasione della Cecoslovacchia fu un errore, sbotta: «Un errore? Arrossii e gridai: “Quale errore? Un crimine!”» E, molto più avanti, alla presentazione di un libro contro i sindacati, ammette candidamente: «Io gongolo: li odio» [i sindacati].

Tuttavia il giudizio poco alla volta si fa più sfaccettato. Come tanti liberali e non comunisti italiani, anche Libera comincia ad «afferrare il concetto di diritti, di uguaglianza». La precisazione è d’obbligo: «Non i paroloni vuoti della retorica marxista. Un’altra cosa, diversa. La vita delle persone. Noi liberali abbiamo grande rispetto dell’individuo.» Ma il passo è compiuto. D’altra parte, è proprio il «rispetto dell’individuo» a portarla progressivamente a spostare la sua verve polemica contro altri obiettivi: i giornali che raccontano il falso su Capalbio e il turismo di massa che va trasformando il volto di questa cittadina medievale.

Ed è difficile resistere alla tentazione di dare a queste pagine un valore metonimico. Come dire: se il giornalismo nell’era della democrazia mediatica restituisce un’immagine interessata degli eventi mondani della piccola Atene perché dovrebbe fare diversamente quando racconta i più importanti eventi politici della nazione? Alla fine del romanzo quella che rimane è un’impressione di sconfitta, che sembra accomunare tanto la tradizione comunista quanto quella liberale: entrambe soccombono infatti di fronte al medesimo destino, entrambe si dimostrano inadeguate a difendere le ragione dell’umanesimo di fronte all’avanzare della spersonalizzazione propria della contemporanea società dei consumi e dell’apparire.

giovedì 22 ottobre 2009

Perché voto Bersani

Domenica 25 ottobre, mi recherò ai seggi per le primarie del PD, e voterò Pierluigi Bersani. Lo farò sebbene, in questi primi due anni di vita del partito, non sia mai stato molto tenero nei suoi confronti. Anzi! Ho severamente criticato la confusione che è alla sua origine, la contraddittoria e spesso incomprensibile politica veltroniana, la colpevole accondiscendenza al forcaiolismo di Di Pietro, l’eccessivo asservimento di Franceschini ai dettami di Largo Fochetti e l’inattività di questi ultimi mesi a cui il PD è stato condannato da un iter congressuale più che perverso che lo ha costretto a star ripiegato sul proprio ombelico impedendogli anche soltanto di prender atto della trasformazione dell’equilibrio delle forze politiche che intanto avveniva sotto i suoi sonnolenti occhi.

Perché allora vado a votare, e perché voto Bersani? Per due ragioni. La prima è che una democrazia liberale ha bisogno di una dialettica fra maggioranza e opposizione, e quando questa non c’è o si indebolisce abbiamo l’obbligo di preoccuparci e di correre ai ripari. Ne va della stabilità della politica e degli stessi fondamenti della democrazia liberale. La seconda ragione è che Bersani mostra di aver compreso i motivi che sono alla base delle difficoltà del suo partito (che in quattordici mesi ha perso quattro milioni di elettori!), e prova ad abbozzare un piano di rilancio.

I suoi meriti mi sono chiari: è un uomo che sa ragionare, non parla per slogan, non ha tentazioni giustizialistiche, non concede nulla a quella retorica del nuovo tanto gradita ai suoi colleghi che a me pare invece un indice di scarsa padronanza della storia recente e remota. E, soprattutto, è un uomo che sa raccogliere quanto di valido ci ha lasciato in eredità la migliore tradizione della sinistra europea, quella liberale e quella socialista.

Ce la farà a restituire vigore e credibilità al PD? Non lo so. Non coltivo molte illusioni. Quello che Bersani si trova a guidare è un partito litigioso, soffocato per giunta da una struttura al contempo indisciplinata e iperburocratizzata: un ircocervo. Tuttavia mi pare che, a differenza di altri, tenga lo sguardo dritto verso l’orizzonte. Pensa a un’Italia postberlusconiana e post-antiberlusconiana: una Terza Repubblica che per il momento possiamo intravedere solo nebulosamente, ma di cui pure abbiamo un’urgenza sempre più pressante. Pena, il declassamento politico ed economico del nostro Paese.

domenica 11 ottobre 2009

Congresso PD. E se fosse utile fare un passo indietro?

Nel discorso alla convenzione nazionale del PD all’Hotel Marriott di Roma, Dario Franceschini è tornato a ripetere il suo mantra: «Indietro non si torna.» E perché no? È una legge controproducente. Quando ci si accorge di essere finiti in un vicolo cieco, non resta altro da fare. Tuttavia meglio intendersi. Non si innesca la retromarcia per tornare a casa, bensì per ritornare all’ultimo incrocio e imboccare la strada giusta che ci porti a destinazione. Anche in montagna si fa così: per conquistare una vetta, tocca a volte dover scendere di qualche metro. Piuttosto, dal momento che procediamo a passo d’uomo, avrebbe potuto esser saggio fermarci un istante a chiederci qual è la destinazione che vogliamo raggiungere, giacché tanto gli iscritti quanto gli elettori ci fanno sapere che le nostre intenzioni non le hanno mica ben capite. (Il congresso sarebbe stato più utile. Invece Fassino ci ha spiegato che serviva solo per selezionare chi passava alle primarie!)

Ma accontentiamoci del tema all’ordine del giorno. Dunque, secondo Franceschini, da cosa non dovremmo tornare indietro, e verso cosa non si dovrebbe tornare? Gli oggetti del contendere sono sostanzialmente due, ma ve n’è un terzo nascosto, ancor più importante. 1) Non si torna indietro dalla semplificazione dei partiti, e quindi non si torna all’Ulivo. 2) Non si torna indietro dal bipolarismo, e quindi non si torna al sistema pluricentrico della prima Repubblica.

In pillole, questo è ciò che dice Franceschini. Entrambe le coppie di affermazioni godono oggi di un grosso appeal, peraltro bipartisan. Ma entrambe tradiscono una buona dose di astrattismo. Proviamo a sintetizzare.

1) Sì, la semplificazione dei partiti è stato un buono scopo, finora però non ha dato buoni risultati: il sistema politico italiano è avvelenato quanto lo era prima. Anzi, la conflittualità tra i due fronti e all’interno di ciascun fronte, anziché diminuire, è persino cresciuta. È vero, questo non vuol dire che la semplificazione fosse sbagliata, vuol dire però che quanto meno è avvenuta nel modo sbagliato. Sarebbe utile allora che il PD riflettesse su come si possano correggere gli effetti negativi non desiderati che la semplificazione ha avuto sulla battaglia politica in Italia. (Per esempio, cosa intende fare il PD con l'Italia dei Valori?)

2) A differenza di Franceschini e dei suoi, non sarei così severo nel giudizio sull’Ulivo. Certo, il suo scopo – riunire la sinistra attorno a una piattaforma programmatica che costringesse anche le forze movimentiste a uniformarsi a una politica di governo – è fallito, perché non è riuscito ad avere i numeri sufficienti in Parlamento (se nel 2006 avessimo avuto una dozzina di seggi in più al senato, avremmo potuto facilmente spuntare le armi dei nanetti che difendono una rendita di posizione). Però non si può ignorare che la fine dell’Ulivo ha portato all’irrobustimento di una forza radicale e giustizialista come quella di Di Pietro ben più preoccupante del radicalismo di origine comunista che un uomo come Bertinotti riusciva bene o male a mitigare. Ne terrei conto nella valutazione dei fatti.

3) Il bipolarismo in sé non è né una cosa buona né una cosa cattiva. Dipende dai contenuti. Perché dovremmo difenderlo a priori? Non si capisce. D’altra parte, la costituzione di un Centro (grande o piccolo) che aspira a fare da ago dalla bilancia non dipende da noi. Inutile sostenere che non dovremmo favorirlo. Le sue fortune o sfortune dipendono solo dalla volontà degli elettori.

4) Ma, soprattutto, siamo così sicuri che la seconda Repubblica sia tanto meglio della prima. Personalmente, sono convinto dell’opposto. Ed è proprio il clima avvelenato che respiriamo dal 1994 che mi preoccupa. Ora, quello che dobbiamo domandarci è questo: il clima politico in Italia è avvelenato per colpa di Berlusconi che con la sua condotta rende vani i vantaggi del bipolarismo oppure è avvelenato a causa di un bipolarismo astratto che costringe i competitors a comportarsi come se fossimo perennemente in campagna elettorale? Nel primo caso, una Terza Repubblica ventura potrà essere felicemente bipolare. Nel secondo caso, c’è da augurarsi che Casini e Montezemolo realizzino in fretta quello che hanno promesso.

Nelle affermazioni di Franceschini c’è però anche una questione nascosta che il PD non lascia affiorare volentieri. È la questione del presidenzialismo. In effetti, la struttura che il PD si è dato sinora avrebbe senso unicamente in un sistema presidenziale che favorisca un rapporto diretto (o almeno poco mediato) fra eletto ed elettore. La stessa idea di forma del partito che Franceschini ha in mente (e che condivide con Veltroni, seppure con qualche aggiustamento) va appunto in questa direzione, anche se ciò non viene detto in modo esplicito.

Naturalmente, è un presidenzialismo all’israeliana (già affiorato alla fine degli anni Novanta). In sostanza, quello verso cui muove nei fatti il PD di Franceschini è un sistema che preveda l’elezione diretta del presidente del Consiglio (anche le primarie per la scelta del segretario hanno senso soltanto in questo contesto). Lo stesso obiettivo di Berlusconi, il quale anche oggi ha ripetuto di essere legittimato a governare perché eletto dal popolo (il che è falso, finché siamo in un sistema parlamentare).

È lecita una svolta in senso presidenziale? Certo, purché prima la si discuta e sia approvata. È anche utile? Ne dubito. Anzi, a me sembra che l’elezione diretta del leader (di partito o di governo) finisca in Italia col nutrire i germi degenerativi della democrazia, e cioè con l’incoraggiare una conflittualità demagogica ad alto tasso di personalismo che taglia fuori il dibattito sulle idee e sulle reali proposte politiche alternative.

Il logorante iter che il PD ha scelto per eleggere il proprio segretario è un esempio di questo rischio di deriva demagogico-burocratica. Almeno su questo punto, io tornerei indietro senza esitazioni.

google-site-verification: googlef2108bb8a1810e70.html