martedì 24 giugno 2008

Borges: parole allo specchio

Nell’immaginario collettivo Narciso è il giovane che si innamorò di se stesso. E anche Havelock Ellis, introducendo la categoria del narcisismo in psicologia alla fine dell’Ottocento, si attenne a questa interpretazione. Ma, in realtà, Narciso non si innamora di se stesso, bensì di un’immagine, riflessa in uno specchio d’acqua, nella quale non riconosce se stesso. Così come nessuno di noi riconosce la propria voce le prime volte che la ascolta registrata. Inoltre, va ricordato che nel mito lo specchio è lo strumento di una punizione: Narciso è condannato da Nemesi a innamorarsi di un’immagine per aver respinto una folla di spasimanti (maschi e femmine) i quali, oppressi dal dolore, invocano la vendetta degli dèi.

Queste osservazioni possono forse aiutare a introdurre Lo specchio di Borges, il suggestivo spettacolo teatrale riproposto alla Palazzina Liberty di Milano che Massimiliano Finazzer Flory ha ricavato da un’antologia di testi di Jorge Luis Borges (fra cui L’Aleph), affiancati dalle splendide musiche di Ástor Piazzolla (in cui la struttura tradizionale del tango viene messa a repentaglio dalle incursioni nel jazz e addirittura nella dodecafonia) e, nel finale, dalla magnifica Alina del compositore estone Arvo Pärt (una sonata per pianoforte e violino in cui pochi materiali musicali si susseguono e si ripetono come in un gioco di specchi per riflettere l’oltre assoluto, la morte).

Lo specchio è, come noto, una delle più ossessive costanti tematiche del grande scrittore argentino, sempre attratto dal fantastico (ossia da quelle «ombre» che si rendono disponibili alla vista «oltre» o «attraverso» lo specchio) e sostenitore di un’idea di letteratura intesa come menzogna. Lo specchio è deformante per definizione: restituisce un’immagine inversa a quella del reale. Ma anche per questo è un mefistofelico tentatore: seduce perché soddisfa il nostro faustiano bisogno di conoscere. Ci consente di gettare lo sguardo sul nostro volto (almeno per analogia), quel volto che altrimenti ci sarebbe il più straniero di tutti, e soprattutto ci consente di affacciarci su un mondo diverso: il mondo capovolto, il mondo degli opposti. Per la cultura popolare, il mondo capovolto coincide sempre con il grottesco, con la carnevalizzazione. Ma per uno scrittore sapienziale come Borges il mondo capovolto apre anche alle possibilità non realizzate, agli universi paralleli della moderna cosmologia, alla verità della filosofia, alla realtà della semantica (o almeno dei segni).

Anche i segni e le parole difatti sono specchi, riflessi di qualcosa d’altro con il quale pure non coincidono. Non a caso nello spettacolo di Finazzer Flory la scena (efficacemente povera) è occupata unicamente da un vecchio specchio di piccole dimensioni e da alcune pile di libri (mi sono avvicinato per curiosarne i titoli: tutti resti di magazzino, spesso doppi, tripli, quadrupli… Borges avrebbe senz’altro apprezzato). Anche le parole, come le immagini allo specchio, ingannano e seducono. Se per Pasolini la critica era «descrizione di descrizioni», per Borges la letteratura è «falsificazione di falsificazioni». Come Narciso, siamo condannati a pensarci attraverso strumenti deformanti, che ci restituiscono un’immagine di noi stessi nella quale non possiamo mai riconoscerci appieno.

Ma in questo comune destino Borges non avverte nessun senso di tragedia o di perdita irrimediabile. Nella sua opera, anzi, la condanna diventa motivo di gioia. Perché le parole, come le immagini dello specchio, non esistono solo in quanto riflesso, non sono un nulla, sono a loro volta realtà: un acquisto di realtà, una moltiplicazione inesauribile della realtà. Nell’opera di Borges la realtà non è mai qualcosa di dato: una cristallizzazione di eventi che si possono cogliere una volta per tutte in una funeraria e ideologica identità.

L’identità uccide. Non ha a che fare con la vita, ha a che fare con l’ideologia della morte. Nemmeno con la morte nella sua risolutezza, bensì con la sua ideologia, la sua falsa coscienza: cioè con quello che crediamo che la morte sia, non con ciò che essa è. Nell’opera di Borges, la realtà (la vita) si fa, si moltiplica attraverso le parole e gli specchi. Si apre all’infinito, come aprono all’infinito due specchi collocati l’uno di fronte all’altro.

Non so se qualcuno abbia studiato le strutture temporali (della storia e del racconto) di questo grande scrittore. La mia ipotesi è che la sua concezione della letteratura e dell’esistenza lo emancipi tanto dal tempo ciclico delle culture premoderne (riabilitato prima da Vico e poi, alla fine della modernità, da Nietzsche) quanto dal tempo lineare della cultura cristiana ereditato dall’illuminismo e dalle ideologie della borghesia (socialismo compreso). Bisognerebbe verificare. Ma, forse, anche il tempo in Borges è un prodotto delle parole e degli specchi, e cioè è qualcosa che non trascorre, qualcosa di non separabile (in contrasto con l’etimologia) oppure di separabile solo arbitrariamente, qualcosa che è sempre disponibile e percorribile a piacere, in avanti e indietro, in un eterno dionisiaco modificare e modificarsi.


Lo specchio di Borges

diretto e interpretato da Massimiliano Finazzer Flory

musiche di Ástor Piazzolla eseguite da Neofonia Ensemble: fisarmonica Pietro Bentivenga ● violino Arturo Sicapianoforte Gianni Mola ● vibrafono Raffaele Ceraudo ● contrabbasso Camillo Chianese

mercoledì 11 giugno 2008

Cittàteatro, per un finale aperto

di Susanna Janina Baumgartner

«Io spero in te per noi» (Gabriel Marcel, Homo viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza) vuol dire confidare in una realtà personale, in un “tu” che possa dare fiducia. E la città, scrive Massimiliano Finazzer Flory in Cittàteatro, è il palcoscenico di questa misteriosa fiducia tra la gente, per la gente e per conto di una non meno misteriosa sensazione di libertà. Io aggiungo dovrebbe essere, può essere nel migliore dei casi e certo non sempre è.

La fiducia non è fuori, ma dentro di noi e lotta contro la diffidenza, il disfattismo, la disperazione. Le città non sono altro che rappresentazioni differenti dello stesso spettacolo, il gioco serio delle relazioni umane. Città e teatro come luogo interiore che produce uno spazio relazionale. Il teatro come metafora della vita. L’arte come metafora di un progetto. La città pensata come opera che parte da un’idea e si costruisce nel suo fare, trasformandosi sempre. Quello che resta, il resto significante, sono le opere delle città d’arte, quelle che hanno creduto in loro stesse. Nel tempo e nello spazio.

Chiunque voglia promuovere e difendere la propria città, non può che partire da quel linguaggio originario quale è l’arte. L’arte ci conduce, perché la vita sta all’arte come la contemplazione alla libertà. Serve educazione al bello. E la bellezza è in parte un segreto che si scopre e in parte un mistero che si rivela.

Il nostro guardare è fondamentale come scrive Jorge Luis Borges: «Io sono l’unico spettatore di questa strada; se smettessi di vederla morirebbe». Bisogna quindi responsabilizzarsi, lottare con coraggio contro l’ovvio, la rassegnazione, la museificazione della cultura per impossessarsi dell’immagine dell’altro con un atteggiamento che ossifica la dialettica tra identità e alterità iscritta nello statuto dell’opera stessa. Per governare servono connessioni creative per avere una città-processo. Non una città prodotto.

Massimiliano Finazzer Flory
Cittàteatro. La città a venire
MORETTI & VITALI, pp. 120, € 17,00

L'autore incontra i lettori:
23 giugno 2008
Verona
Libreria Gheduzzi Librerie Giubbe Rosse
ore 17.30

mercoledì 4 giugno 2008

Gillo Dorfles: i rumori e i rifiuti dell’arte

Gli articoli raccolti in Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, ultima fatica critica di Gillo Dorfles, affrontano un’affascinante molteplicità di argomenti a cui il titolo non rende onore. Anzi, pur nella sua efficacia polemica, addirittura li appiattisce. Proprio le pagine più divaganti (peraltro largamente maggioritarie) sono infatti quelle più gustose. Qui, la riflessione critica, sostenuta con enorme dottrina, si confonde con le accensioni umorali dello studioso che tende a salire sul proscenio in un’ambigua quanto vivace orchestrazione del discorso.

Le esperienze estetiche affrontate, insomma, nonostante l’accurata tensione interpretativa e la grande quantità di dettagli ermeneutici messi in mostra, tendono a divenire una sorta di banco di prova che Dorfles usa per verificare i propri convincimenti estetici. A prendere il sopravvento rispetto all’oggetto indagato è dunque la sua personalità di critico militante, con l’inevitabile bagaglio di preferenze, idiosincrasie, (trattenuti) furori. Ne risulta una sorta di diario in pubblico con il quale in molti casi è lecito dissentire ma di cui è impossibile non subire il fascino. Ed è il fascino di uno studioso estremamente ben informato sui più recenti sviluppi di molte discipline artistiche (pittura, narrativa, poesia, musica, teatro, videoarte, danza…) e nel contempo educato a un gusto estetico iperaristocratico, che lo trattiene dall’affondare lo sguardo nei prodotti della cultura di massa.

A un esame approfondito, molto meno convincenti appaiono invece i (pochi) capitoli deputati a sostenere la tesi centrale del libro, secondo la quale nell’epoca della Tecnica la comunicazione (estetica e no) risulta soffocata o addirittura nullificata dai molteplici rumori di fondo dell’«inquinamento immaginifico» (dove il termine rumore va inteso nel senso tecnico della teoria dell’informazione). In sostanza, Dorfles sostiene che viviamo in una realtà satura di segnali e di stimolazioni visive e uditive (cartellonistica pubblicitaria, graffiti, Tv, fumetti, film, ecc.), la cui origine può essere fatta risalire al dilagare delle vecchie radioline a transistor che imperversavano sulle spiagge italiane ai primordi del turismo di massa. Proprio tale saturazione finirebbe con il danneggiare la produzione e la comunicazione estetica, confermando il ben noto paradosso in base al quale più messaggi uguale più fattori di disturbo, e quindi meno comunicazione.

In quest’ottica, l’horror pleni è precisamente quella sensazione di fastidio che assale l’animo artisticamente educato di fronte a un paesaggio urbano e culturale «pieno» a dismisura. Tra le principali conseguenze negative di tale saturazione, due sembrano di particolare importanza. Da una parte, la «voglia generalizzata di strafare e di stupire che ha contagiato gli artisti», inducendoli verso un’estremizzazione degli strumenti espressivi che assicura al massimo un temporaneo consenso scandito dai ritmi della moda senza tuttavia riuscire a «stupire» davvero un pubblico ormai «assuefatto» a tutto. Dall’altra, la diffusa tendenza a un «nuovo tribalismo» che trascina masse crescenti di individui verso mistificanti riti di massa (discoteche, rave, assemblee giovanili, partite di calcio, spettacoli rock), «dove la personalità del singolo viene spesso abolita e sostituita da una sorta di anima di gruppo o di “inconscio collettivo”, e dove il singolo perde la sua autonomia e diventa schiavo del rumore e dell’eccesso di pieno».

Intendiamoci. Qui, non si vuole discutere la veridicità o meno di tali osservazioni, ispirate a un caustico moralismo di alto rango, in gran parte condivisibile (anche chi stende queste note, per capirci, prova un moto di ripulsa di fronte a tante banali «perversioni» del gusto o a certe manifestazioni di «invasamento» collettivo). Si vuole piuttosto sollevare qualche dubbio sulla forza argomentativa delle fondamenta su cui poggia la riflessione «filosofica» di Dorfles. E cioè: è proprio vero che l’horror pleni si contrappone all’horror vacui dei primitivi (ossia a «quel senso di sgomento che offriva l’assenza d’ogni segno e di ogni traccia umana»)? Ha davvero senso tale contrapposizione o, a un esame più attento, si rivela semplicemente una bella trovata editoriale?

In sostanza, l’impulso a fuggire l’horror vacui non è precisamente il medesimo che spinge le orde giovanili a imbrattare i muri delle nostre città fino alla saturazione? In fondo, si tratta comunque di riempire qualcosa e poco importa che quel qualcosa sia già pieno. In effetti, Dorfles sa bene che il tentativo di colmare lo spazio fisico è sempre anche un tentativo di colmare uno spazio metafisico (o esistenziale, se si preferisce usare un termine meno impudico). Il riempimento dell’uno non comporta necessariamente il riempimento dell’altro. Anzi. È strano che il grande studioso non ne tenga conto, accontentandosi di un approccio puramente descrittivo che non è in grado di sostenere la riflessione critica.

Da questo diverso punto di vista, si potrebbe allora ipotizzare che dietro la saturazione contemporanea (esclusivamente fisica), che è all’origine dell’horror pleni, si annidino le stesse ragioni profonde dello sgomento dei primitivi: e cioè la percezione (se non la consapevolezza) che, nonostante tutti i segni che possiamo tracciare, comunque non ci è data mai la possibilità di colmare il vuoto. E ciò perché lo Spazio, la Natura, la Terra, la Vita comunque non ci appartengono. Ci sfuggono per costituzione. Sempre. In questo senso, tanto l’horror pleni quanto l’horror vacui sono espressioni di quella disperazione o meglio di quell’angoscia che la filosofia ha indagato fin dalle sue origini greche. Si tratta di capire se è un’angoscia prodotta dai modi con cui gli uomini si pensano e si organizzano socialmente (e quindi correggibile) oppure se è un’angoscia antropologica, connaturata alla «condizione umana», come alcuni dei maggiori pensatori della modernità hanno teorizzato.

Infine. Si capisce che il «troppo pieno» (che tuttavia nella terminologia di Dorfles non è mai neutro, bensì tende a coincidere con il «troppo volgare») ostacoli la fruizione estetica, oltre che politica, culturale, eccetera. Ma perché dovrebbe ostacolare o impensierire la produzione artistica? In fondo, l’arte prolifera da sempre nel riuso. È il più antico e poderoso strumento di recupero dei “rifiuti” che gli uomini abbiano inventato. Forme espressive desuete, frusti miti e racconti popolari, ruote di bicicletta, lamiere, lattine, pezzi di legno, addirittura escrementi: tutto nell’arte è riciclabile. Persino il rumore. Su queste pagine, Susanna ha commentato l’ultimo spettacolo di Gisèle Vienne, Kindertotenlieder, nel quale le tribali e rumorosissime forme dell’heavy metal (assolutamente premusicali) sono piegate a un’elaborazione artistica di notevole impatto e complessità. Mi sembra un eloquente esempio della forza metamorfica dell’arte. La quale non ha nulla da temere. Né dal vuoto né dal pieno.

Gillo Dorfles
Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore

CASTELVECCHI
pp. 325, € 22,00

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