mercoledì 4 giugno 2008

Gillo Dorfles: i rumori e i rifiuti dell’arte

Gli articoli raccolti in Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, ultima fatica critica di Gillo Dorfles, affrontano un’affascinante molteplicità di argomenti a cui il titolo non rende onore. Anzi, pur nella sua efficacia polemica, addirittura li appiattisce. Proprio le pagine più divaganti (peraltro largamente maggioritarie) sono infatti quelle più gustose. Qui, la riflessione critica, sostenuta con enorme dottrina, si confonde con le accensioni umorali dello studioso che tende a salire sul proscenio in un’ambigua quanto vivace orchestrazione del discorso.

Le esperienze estetiche affrontate, insomma, nonostante l’accurata tensione interpretativa e la grande quantità di dettagli ermeneutici messi in mostra, tendono a divenire una sorta di banco di prova che Dorfles usa per verificare i propri convincimenti estetici. A prendere il sopravvento rispetto all’oggetto indagato è dunque la sua personalità di critico militante, con l’inevitabile bagaglio di preferenze, idiosincrasie, (trattenuti) furori. Ne risulta una sorta di diario in pubblico con il quale in molti casi è lecito dissentire ma di cui è impossibile non subire il fascino. Ed è il fascino di uno studioso estremamente ben informato sui più recenti sviluppi di molte discipline artistiche (pittura, narrativa, poesia, musica, teatro, videoarte, danza…) e nel contempo educato a un gusto estetico iperaristocratico, che lo trattiene dall’affondare lo sguardo nei prodotti della cultura di massa.

A un esame approfondito, molto meno convincenti appaiono invece i (pochi) capitoli deputati a sostenere la tesi centrale del libro, secondo la quale nell’epoca della Tecnica la comunicazione (estetica e no) risulta soffocata o addirittura nullificata dai molteplici rumori di fondo dell’«inquinamento immaginifico» (dove il termine rumore va inteso nel senso tecnico della teoria dell’informazione). In sostanza, Dorfles sostiene che viviamo in una realtà satura di segnali e di stimolazioni visive e uditive (cartellonistica pubblicitaria, graffiti, Tv, fumetti, film, ecc.), la cui origine può essere fatta risalire al dilagare delle vecchie radioline a transistor che imperversavano sulle spiagge italiane ai primordi del turismo di massa. Proprio tale saturazione finirebbe con il danneggiare la produzione e la comunicazione estetica, confermando il ben noto paradosso in base al quale più messaggi uguale più fattori di disturbo, e quindi meno comunicazione.

In quest’ottica, l’horror pleni è precisamente quella sensazione di fastidio che assale l’animo artisticamente educato di fronte a un paesaggio urbano e culturale «pieno» a dismisura. Tra le principali conseguenze negative di tale saturazione, due sembrano di particolare importanza. Da una parte, la «voglia generalizzata di strafare e di stupire che ha contagiato gli artisti», inducendoli verso un’estremizzazione degli strumenti espressivi che assicura al massimo un temporaneo consenso scandito dai ritmi della moda senza tuttavia riuscire a «stupire» davvero un pubblico ormai «assuefatto» a tutto. Dall’altra, la diffusa tendenza a un «nuovo tribalismo» che trascina masse crescenti di individui verso mistificanti riti di massa (discoteche, rave, assemblee giovanili, partite di calcio, spettacoli rock), «dove la personalità del singolo viene spesso abolita e sostituita da una sorta di anima di gruppo o di “inconscio collettivo”, e dove il singolo perde la sua autonomia e diventa schiavo del rumore e dell’eccesso di pieno».

Intendiamoci. Qui, non si vuole discutere la veridicità o meno di tali osservazioni, ispirate a un caustico moralismo di alto rango, in gran parte condivisibile (anche chi stende queste note, per capirci, prova un moto di ripulsa di fronte a tante banali «perversioni» del gusto o a certe manifestazioni di «invasamento» collettivo). Si vuole piuttosto sollevare qualche dubbio sulla forza argomentativa delle fondamenta su cui poggia la riflessione «filosofica» di Dorfles. E cioè: è proprio vero che l’horror pleni si contrappone all’horror vacui dei primitivi (ossia a «quel senso di sgomento che offriva l’assenza d’ogni segno e di ogni traccia umana»)? Ha davvero senso tale contrapposizione o, a un esame più attento, si rivela semplicemente una bella trovata editoriale?

In sostanza, l’impulso a fuggire l’horror vacui non è precisamente il medesimo che spinge le orde giovanili a imbrattare i muri delle nostre città fino alla saturazione? In fondo, si tratta comunque di riempire qualcosa e poco importa che quel qualcosa sia già pieno. In effetti, Dorfles sa bene che il tentativo di colmare lo spazio fisico è sempre anche un tentativo di colmare uno spazio metafisico (o esistenziale, se si preferisce usare un termine meno impudico). Il riempimento dell’uno non comporta necessariamente il riempimento dell’altro. Anzi. È strano che il grande studioso non ne tenga conto, accontentandosi di un approccio puramente descrittivo che non è in grado di sostenere la riflessione critica.

Da questo diverso punto di vista, si potrebbe allora ipotizzare che dietro la saturazione contemporanea (esclusivamente fisica), che è all’origine dell’horror pleni, si annidino le stesse ragioni profonde dello sgomento dei primitivi: e cioè la percezione (se non la consapevolezza) che, nonostante tutti i segni che possiamo tracciare, comunque non ci è data mai la possibilità di colmare il vuoto. E ciò perché lo Spazio, la Natura, la Terra, la Vita comunque non ci appartengono. Ci sfuggono per costituzione. Sempre. In questo senso, tanto l’horror pleni quanto l’horror vacui sono espressioni di quella disperazione o meglio di quell’angoscia che la filosofia ha indagato fin dalle sue origini greche. Si tratta di capire se è un’angoscia prodotta dai modi con cui gli uomini si pensano e si organizzano socialmente (e quindi correggibile) oppure se è un’angoscia antropologica, connaturata alla «condizione umana», come alcuni dei maggiori pensatori della modernità hanno teorizzato.

Infine. Si capisce che il «troppo pieno» (che tuttavia nella terminologia di Dorfles non è mai neutro, bensì tende a coincidere con il «troppo volgare») ostacoli la fruizione estetica, oltre che politica, culturale, eccetera. Ma perché dovrebbe ostacolare o impensierire la produzione artistica? In fondo, l’arte prolifera da sempre nel riuso. È il più antico e poderoso strumento di recupero dei “rifiuti” che gli uomini abbiano inventato. Forme espressive desuete, frusti miti e racconti popolari, ruote di bicicletta, lamiere, lattine, pezzi di legno, addirittura escrementi: tutto nell’arte è riciclabile. Persino il rumore. Su queste pagine, Susanna ha commentato l’ultimo spettacolo di Gisèle Vienne, Kindertotenlieder, nel quale le tribali e rumorosissime forme dell’heavy metal (assolutamente premusicali) sono piegate a un’elaborazione artistica di notevole impatto e complessità. Mi sembra un eloquente esempio della forza metamorfica dell’arte. La quale non ha nulla da temere. Né dal vuoto né dal pieno.

Gillo Dorfles
Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore

CASTELVECCHI
pp. 325, € 22,00

Nessun commento:

google-site-verification: googlef2108bb8a1810e70.html