sabato 15 settembre 2007

La scaletta della sinistra

Una volta appartenevo, più o meno, all’area di destra del PCI. Per la verità, mi disturbava l’eccessiva indulgenza verso il craxismo dimostrata da molti leader del riformismo milanese. Però ne apprezzavo la lucidità di ragionamento, così lontana dallo sterile ideologismo che paralizzava tanta parte della sinistra, italiana ed europea (per tacere di quella latinoamericana). Ma, soprattutto, del riformismo condividevo gli obiettivi fondamentali: il programma di lavoro.

Per dirla in parole semplici, ero convinto che "migliorare" la società volesse dire provare a combinare gli scopi del liberalismo e quelli del socialismo. Da una parte, le libertà; dall’altra, l’uguaglianza. Una sintesi tutt’altro che facile e sempre instabile, che però si era già rivelata fruttuosa in qualche parte dell’Europa occidentale, garantendo un’organizzazione della società più giusta ed equa. Era realistico pensare che potesse funzionare anche in Italia.

Su una politica di questo genere, socialisti e comunisti avrebbero potuto tornare a convergere. Se i loro fini tattici per il momento differivano, il DNA era lo stesso. La storia era lì a dimostrare che entrambi i due principali tronconi della sinistra italiana si collocavano di fatto nella piccola ma operosa famiglia della socialdemocrazia europea, non in quella più grande ma miope del socialismo reale. Questa era la mia convinzione.

Poi, mi sono sentito scavalcato a destra. E ho smesso di fare politica in modo attivo (continuando però a interessarmene, da elettore e da giornalista). Perché non capivo più. Intendiamoci, sono più aristotelico che platonico: non sopravvaluto l’importanza e la forza delle idee. Ma, secondo me, un faro nell’azione è meglio averlo. È difficile scrivere un articolo o un libro senza stendere prima una scaletta, che certo si potrà poi correggere e, se necessario, anche ribaltare, ma possiamo correggerla appunto perché l’abbiamo prima abbozzata. E la scaletta dell'odierna sinistra italiana mi pare alquanto confusa o, quanto meno, troppo poco ambiziosa.

In fondo, al di là delle dichiarazioni programmatiche, ci accontentiamo di amministrare il presente. E va bene, niente vieta di farlo. Ma, in questo caso, la politica muore. Si riduce a pura tecnica o a sistema d'impresa. La bontà o meno di un'azione o di un programma di governo si misura allora nei termini dell'economia. Sappiamo offrire ciò che gli elettori domandano? La nostra offerta è migliore di quella della destra? E se, per disgrazia, scoprissimo che loro amministrano meglio? Questo è un interrogativo che mi riempie di angoscia.

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